"Modigliani era un 'noblesse excédeé', per
riprendere un'espresisone di Baudelaire che
gli si adatta alla perfezione
".
Paul Alexandre
 

Breve la vita intensa di Amedeo Modigliani

di
Mario URSINO
 
Se la limitata esistenza di Amedeo Modigliani (Livorno 1884 - Parigi 1920) è iscritta in un’aura di leggenda, lo si deve innanzitutto alla sua ostentata figura di bohémien (bello e dannato) nella Parigi degli artisti, tra Montmartre e Montparnasse, nei primi decenni del Novecento1. Si aggiunga poi alla sua precoce scomparsa per malattia (a soli trentasei anni), quella della sua giovanissima compagna ventiduenne, Jeanne Hébouterne, che troncò la sua vita il giorno seguente la morte di lui, mentre era in attesa del secondo figlio, al nono mese di gravidanza, dopo soli tre anni dalla loro felice unione. Storia toccante, dalla quale fu tratto anche un bellissimo film, nel 1958, Montparnasse 19, interpretato magistralmente da due grandi attori francesi, Gérard Philipe ed Anouk Aimée.
Nei quattordici anni che Modigliani trascorse a Parigi, dal 1906 al 1920, si racchiude tutta la sua attività pittorica2 (con una parentesi dedicata alla scultura); si tratta di quasi tutti i ritratti (salvo pochi paesaggi, tre o quattro, dipinti a Cagnes, nel sud della Francia), immediatamente riconoscibili, anche da chi non è troppo esperto di pittura moderna. Dunque Modigliani in pochi anni è divenuto un “classico”. Vediamo perché.

Intanto la formazione culturale del giovane Modigliani non poteva non risentire del clima estetizzante e dannunziano degli inizi del secolo, che gli faceva esprimere ancora diciassettenne, pensieri molto alati scritti in alcune lettere, nel 1901 all’amico pittore Oscar Ghiglia: “Abbi il culto sacro (io lo dico per te … e per me), per tutto ciò che può esaltare ed eccitare la tua intelligenza al suo massimo potere creatore […] per affermarsi sempre e abbattere tutto quello che è di vecchio e di putrido restato…3.
Alla base quindi della sua passione artistica, vi è un forte desiderio di mutamento, un’intima necessità per superare quanto sino ad allora aveva appreso scolasticamente nello studio del pittore postmacchiaiolo Guglielmo Micheli, a suo volta allievo di Giovanni Fattori. Ma Modigliani, nelle lettere inviate al Ghiglia, mostra già una vera e propria febbrile ansia di ricerca: “L’efficacia e la necessità dello stile si presenta appunto in questo, che oltre ad essere l’unico vocabolario atto ad estrinsecare un’idea, la distacca dall’individuo che l’ha prodotta, lascia via aperta a ciò che non si può e non si deve dire4.
Queste riflessioni giovanili dell’artista livornese preludono alla sua maturità che avverrà più tardi a Parigi nel clima delle avanguardie; tuttavia trovano la loro fermentazione nel suo peregrinare, per motivi di salute (il tifo gli aveva procurato lesioni polmonari che saranno per lui fatali), nel sud dell’Italia, nel clima caldo di Napoli, Capri, Amalfi, per poi risalire verso Roma, Firenze e Venezia, dove si imbeve di cultura classica. Secondo Jeanne Modigliani, la figlia dell’artista che nel 1958 traccia una biografia del padre, edulcorata dagli episodi romanzati narrati dagli stessi amici dell’artista (v. ad es. André Salmon. La vie passionnée de Modigliani, Parigi 1957), non poca deve essere stata l’influenza che egli deve aver subito dallo studio sull’opera dello scultore gotico senese, Tino da Camaino (1280c.-1337), sostenendo quanto già aveva evidenziato lo studioso Enzo Carli nel 19525.
Difatti, scrive la figlia Jeanne: “è a Napoli, visitata prima di Firenze, che […] egli ha potuto meglio apprezzare l’originalità di Tino […].
In Santa Chiara, in San Domenico e in Santa Maria Donnaregina, il giovane Dedo si è trovato di fronte alla soluzione felice e grandiosa di problemi plastici che saranno suoi durante tutta la sua breve attività artistica: l’impostazione obliqua dei volti sui colli cilindrici…6.
Sempre secondo Jeanne, quindi, si sviluppa precocemente, e in Italia, la sua vocazione di scultore nel 1902, e non a Parigi nel 1908, “come afferma la più gran parte dei critici7. Modigliani, perciò, assorbe ogni esperienza voracemente e in fretta, tanto da scrivere al Ghiglia: io sono ricco e fecondo di germi ormai e ho bisogno dell’opera8.
Ricorderà al riguardo lo scultore Jaques Lipchitz (1891-1973), suo grande amico, (v. Ritratto di Lipchtiz e sua moglie, 1916, Chicago, Art Institut)  nel testo che dedica a Modigliani:Il travaillait avec acharnement, esquissant dessin sur dessin sans s’arrêter pour corriger ou réfléchir. Il si fiait, semblait-il, uniquement à son instinct…un instinct d’une finesse et d’une sensibilité extrême, en vertu peut-être de son héritage italien et de son amour pour les maîtres du début de la Reinassaince ”9.
E deve essere proprio per questo “acharnement”, questo furore creativo ad indurlo a confidare più volte all’amico Lipchitz che egli desiderava “una vita breve ma intensa10. Il destino, sfortunatamente, lo accontenterà, assecondando il suo comportamento autodistruttivo, per l’indifferenza nella cura dei suoi mali, per l’abuso dell’alcol, la dipendenza dalle droghe che aveva iniziato ad assumere mentre si trovava a Venezia (ci ricorda ancora la figlia Jeanne) per seguire i corsi all’Istituto di Belle Arti. Il clima di Parigi, poi, non farà che esasperare queste sue tendenze, forse anche un po’ esibizioniste, recitando, da vero artista, quella parte irruente della sua personalità, con la quale affascinava amici ed era motivo di seduzione per le donne che incontrava. Ma nel momento stesso che li attirava a sé, essi divenivano i modelli dei suoi innumerevoli ritratti, e che costituiranno per lui una vera e propria drammatica galleria dell’anima.

La pittura come dramma e il travaglio della pittura

 
Quando Modigliani giunge a Parigi, nel 1906, trova un ambiente artistico abbastanza definito: Cézanne e Matisse sono punti di riferimento autorevoli, Picasso, non ancora famoso, sta ponendosi all’attenzione di mercanti e galleristi e l’anno successivo (1907) dipingerà Le demoiselles d’Avignon, dando inizio alla fase cubista con George Braque e Juan Gris. Poi ci sono i “fauves” (Vlaminck, Derain, Van Dongen) che attirano positivamente e negativamente critici e poeti; c’è anche Severini che tenta (invano) di attrarre Modigliani nell’orbita dei futuristi. Ma da questo ribollente magma artistico, il livornese si tiene a una certa distanza, anche se tutto osserva per trarne qualche spunto di linguaggio, che per lui è ancora in fase di definizione: “Le opere eseguite da Modigliani tra il suo arrivo a Parigi e il ritorno a Livorno, nel 1909, che precederà il definitivo trasferimento in Francia – ha scritto Claude Royci danno la sensazione di osservare un artista che cerca di impostare la sua voce, cambia registro, non è mai soddisfatto del tono, torna a prendere vigore, poi di nuovo va per tentativi.
Continua Roy:sin da questo periodo appare un elemento fondamentale dell’arte di Modigliani che dovrà restare come una sua costante […] non concepisce altro rapporto umano se non quello in cui l’artista si pone di fronte al suo modello, né concepisce altro problema compositivo se non quello dell’essere umano solo di fronte allo spettatore”.11 E’ dunque in questo rapporto diretto artista-modello, senza mediazione di sorta, senza allusione ad ambienti caratterizzati, senza oggetti che riferiscono la personalità del ritrattato, che si snoda la quantità, apparentemente monotona, dei personaggi effigiati da Modigliani. In quei volti, in quelle orbite vuote e piene al tempo stesso, nelle deformazioni dettate dallo stile, l’artista cerca e trova la loro vita interiore, scruta i loro desideri, adombra la loro malinconia, il piglio del carattere, la sensualità, il gusto e la bellezza. Modigliani ha familiarità con il soggetto da dipingere, e se non ce l’ha, la cerca, la stabilisce anche con modelli occasionali che sceglie nelle strade e nei caffè parigini. E’ una peculiarità, questa, messa ben a fuoco dallo scrittore Jlià Ehrenburg, affermando che “Modigliani non era un gelido osservatore; non guardava gli uomini standosene in disparte, viveva insieme a loro. Questi son ritratti di uomini che hanno amato, languito, sofferto; […] Il suo destino era strettamente legato a quello altrui…”. Addirittura arriva ancora a sostenere Ehrenburg:Non possono forse i pensieri, i sentimenti, le passioni modificare le proporzioni?12 E allora, se è così, potranno apparirci più chiare le estenuate ricerche di stile che Modigliani opera sui volti e sulla figura umana, tesa, verticale, fortemente allungata e chiusa nella linea sinuosa che l’avvolge, modellando forme e colori.
Dunque la laboriosa ricerca di Modigliani si svolge attorno alla “funzione costruttiva della linea”, come scrisse il Venturi nel 193013, una linea, come è noto di ascendenza toscana, mutuata dai senesi Simone Martini e i Lorenzetti, dai fiorentini Lippi e Botticelli, ma anche secondo valori compositivi dedotti dalla lezione di Cézanne, che l’artista ammirava moltissimo e dal quale trae “l’idea di una costruzione per masse cromatiche” (Ponente, 1959)14; a ciò si aggiunga l’interesse per la scultura negra (fonte comune per le avanguardie parigine di quegli anni: per primo Matisse, poi Picasso ed altri) che Modigliani assimila per esprimere il proprio linearismo allungato, i triangolarismi dei lineamenti spigolosi, dai quali egli trae una sorta di suo personale espressionismo. Ma le fonti non finiscono qui.
Certamente egli guardò al cubismo, ebbe consuetudine con Picasso (ma non autentica amicizia); del maestro spagnolo ha lasciato un bellissimo ritratto Pablo Picasso, 1915, con le lettere del nome del pittore dipinte quasi a formare un’aureola intorno alla testa, e più in basso la scritta SAVOIR (alludendo forse alla frase di Courbet: “savoir pour pouvoir”, che la critica precedente non ha mai evidenziato). Nello stesso anno, il 1915, ritrae altri amici artisti: gli scultori Brancusi, Laurens, Inderbaum, lo scrittore Radiguet, la poetessa inglese Beatrice Hastings (sua convivente per due anni); gli amati pittori ebrei polacchi Chaïm Soutine e Moïse Kisling (si ricordi che Modigliani apparteneva a famiglia italiana di ebrei e ne era fiero ed orgoglioso); e poi il famoso ritratto di Paul Guillaume, 1915, il suo primo gallerista, e ancora di Juan Gris, altro protagonista del cubismo. Del 1916, sono da ricordare i ritratti di Max Jacob, Jean Cocteau, Leon Zborowski e il primo di sua moglie Hanka (Anna), del nostro La Signora dal collaretto (o dal bavaretto, secondo tutta la precedente letteratura). Stilemi cubisti, quindi, sono senz’altro da ravvisare nella composizione di questi volti; eppure la negano nello stesso tempo, poiché Modigliani predilige la forma chiusa (perciò classica) che è esattamente l’opposto della ricerca cubista. Il cubismo fu per lui utile come “tirocinio formale”, “dislocamento asimmetrico di piani” (Bucarelli, 1959)15. Secondo Roberto Tassi (1981), egli cercò di conciliare la forma italiana e lo spirito francese negli “anni in cui la novità dell’arte stava proprio nell’abbandono e nella frantumazione della figura umana16.
Calvesi (1983) vede in lui “purezza di sintesi e capacità di caratterizzazione espressiva17. Ma il dramma spirituale della pittura di Modigliani mi pare l’abbia definito con terribile acume Alberto Savinio: “Amedeo Modigliani fu il capro espiatorio di tutti i peccati di vanità. Uomini e cose gli apparivano sub specie doloris. Ebreo e italiano – antifariseo per eccellenza – egli seguì quello che è destino di tutti gli ebrei «buoni», cioè ripetere il dramma di Cristo: cristianizzarsi. La sua pittura e i suoi disegni, altro non sono se non il segno di un cristianesimo lineare18.
 
 

“I personaggi di Cézanne come le statue antiche non

hanno sguardo. I miei al contrario vedono; vedono
 anche quando io non dipingo le loro pupille”

A. Modigliani
 
 

La Signora dal collaretto, ovvero il Ritratto di Hanka Zborowska

 
Modigliani dipinse La Signora dal collaretto nel 1917, (Ritratto di Hanka Zborowski), Galleria Nazionale d’Arte Moderna, l’anno in cui realizzò quella strepitosa serie di nudi femminili che tanto scandalo suscitarono alla sua prima personale a Parigi, Galerie Berte Weill, organizzata da Léopold Zborowski (1889-1932), grande amico e protettore dell’artista, incontrato solo l’anno precedente. E la protagonista del nostro ritratto è appunto la moglie di questo sensibile poeta polacco19. “Aveva sposato una polacca – ha scritto Jeanne Modigliani di buona famiglia, una donna con un volto di un perfetto ovale pallido, occhietti neri vicini alla radice del naso, collo sinuoso. Anna Zborowska diventerà uno dei migliori modelli di Modigliani […]. La Signora Zborowska tende tutt’oggi un mento acuto, sul collo, più flessuoso che abbia mai potuto vedere…20
La Signora dal collaretto fu uno dei primi ritratti che Modigliani realizzò per la moglie del suo amico Zborowski, a sua volta soggetto per altri suoi dipinti (v. ad es. Ritratto di Léopold Zborowski, 1916). Modigliani e la sua compagna Jeanne Hébouterne vissero insieme a loro dal 1916 al 1920, l’anno della loro tragica scomparsa. E ciò spiega la quantità dei ritratti che l’artista produsse per questi suoi affezionati protettori. La signora Anna Zborowska (1885-1978), inoltre, per quel suo ovale perfetto, il sinuoso collo lungo, sembrava corrispondere pienamente ai canoni estetici del nostro artista21. In particolare, nel ritratto in esame, esalta (ed esaspera) tali caratteristiche, e, nello stesso tempo, sottolinea con grande originalità, l’aspetto aristocratico della donna, con il bianco collare inamidato e sollevato che incornicia elegantemente il volto dell’amica, rinviando iconograficamente, anche in modo involontario, a modelli della ritrattistica seicentesca, con gli effigiati che spiccano le loro altere fisionomie su collari di merletti e gorgiere bianchissime, posti sulla sommità di sontuosi abbigliamenti rigorosamente scuri.
Significativamente, quindi, il dipinto fu esposto con il titolo La colerette, [sic] (collerette, appunto, vuol dire “gorgiera”) per la prima volta in Italia nel 1930, a dieci anni dalla scomparsa dell’artista. Alla XVII Biennale di Venezia egli ebbe (forse tardivamente) il pieno riconoscimento nel nostro paese, e quindi gli fu dedicata, in questa esposizione internazionale, un’intera sala presentata da Lionello Venturi22.
Il ritratto riapparve in Italia oltre vent’anni dopo, alla VI Quadriennale Romana (dicembre 1951- aprile 1952), sempre in una sala individuale (quarantanove opere), presentata da Jeanne Cassou e Enzo Carli, con il titolo La Signora dal bavaretto (Parigi, coll. Max Kaganovitch)23. In questa occasione fu deciso l’acquisto per le collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che non possedeva ancora opere di Amedeo Modigliani.24
Della signora Zborowska sono noti almeno una decina di ritratti e alcuni disegni, eseguiti tra il 1916 e il 1919; i primi tre, tra i quali il nostro, sono quelli della più alta qualità, a partire dal ritratto Hanka Zborowska seduta (con un collarino di velluto), 1916, New York, coll. Hillman, al ritratto del 1917 conservato al MoMA, New York, a figura intera, seduta longitudinalmente in un ampio abito scuro. Dal libro di Jeanne Modigliani apprendiamo inoltre che la signora dovette posare anche per alcuni nudi: “Appartengono al 1916 alcuni nudi, comunemente assegnati al 1917 o al 1918, d’impasto grumoso e di colore rossastro, per i quali posarono Beatrice (Hastings, n.d.a.) e Anna Zborowska.”25 Tuttavia in nessuna monografia la nostra protagonista è stata identificata come soggetto di questi nudi. A nostro avviso, fra i tanti, la signora Zborowska può essere con molta probabilità la modella del Nudo seduto con camicia fra le mani, 1917, del Musèe d’Art Modern de Villeneuve d’Ascq, per i suoi inconfondibili tratti somatici; e il suo nudo è ripreso con molta naturalezza nell’atteggiamento pudico delle Veneri classicheggianti. Tutti i nudi di Modigliani, infatti, sono ispirati a modelli classici, rinascimentali e neoclassici, da Giorgione a Tiziano ad Ingres. Il nudo coricato, 1918-1919c. (altra opera di Modigliani nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna) è uno degli ultimi dipinti dell’artista, il terzo di mera precisa ricerca (o interpretazione) della Venere dormiente, 1507, di Giorgione, conservata nella Gemäldegalerie di Dresda.
Modigliani dunque ci conferma, sia nei ritratti che nelle figure di nudo, di essere un “classico”, non solo perché, come si diceva in principio, il suo lavoro è riconoscibile a prima vista, ma anche per la sua caparbia volontà di esprimere uno “stile inimitabile”, nel mescolare inestricabilmente tradizione e avanguardia, scuola italiana e scuola francese, stilemi della scultura con quelli della pittura, tale da rimanere un artista unico e inclassificabile; oppure rimane un enigma, secondo le parole di Roberto Tassi (1990): “Non riusciamo neanche a stabilire con sicurezza se si tratta di pittura italiana o di pittura francese, se appartiene alla cultura toscana o all’Ecole de Paris […] Modigliani non si sa bene dove collocarlo, in quale movimento, in quale poetica, in quale compagnia; se dentro o fuori delle avanguardie, dentro o fuori la figuratività, dentro o fuori il moderno26
di
Mario URSINO     
Roma 12 / 2 / 2017
 

Nota in margine

Il Ritratto di Hanka Zborowska, 1917 (detto anche La Signora dal collaretto) è attualmente esposto su una parete laterale della penultima vasta sala dell’ampliamento del 1934 del Bazzani della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, piano rialzato, prospiciente il giardino sulla via Aldrovandi. Il dipinto è esposto insieme ad un gruppo di opere (una decina della collezione), con una selezione di esemplari della cultura primitiva africana, prelevati dal Museo Nazionale Preistorico Etnografico, e provenienti dal Mali, dal Kongo, dall’Etiopia, dalla Guinea, ed eseguiti nell’arco temporale tra la fine dell’Ottocento e il 1963.
L’esemplare più antico tra questi è uno Scudo, 1893, di un duro e materiale intessuto ed  aggettante, estroflessile appunto, definito “Cultura Azenda”, ed è posto accanto al Ritratto di Hanka Zborowska (v. foto di Srdja Mirkovic). Nella parete adiacente, spicca il famoso grande dipinto, Le tre età della donna, 1905 di Klimt.  Scorrendo le altre pareti, troviamo un dipinto di Cézanne, Le Cabanon de Jourdan, 1906 (forse l’ultima opera del maestro), e poco distante due sculture di Medardo Rosso: Ritratto di Madame Roblet, 1897-98 (gesso), il ritratto Yvette Guilbert, 1895 (cera) e il piccolo disegno Nudo femminile, 1900-1910. Non troppo lontano, verso il centro della sala, svetta la grande scultura L’età del bronzo, 1875, di Auguste Rodin, cui potrebbe fare eco la silhouette controluce di una statua rappresentata nel grande polittico di Giacomo Balla, Villa Borghese Parco dei Daini, 1910, che occupa la parete di fondo di codesta sala. Sul lato sinistro ad angolo, troviamo un piccolo dipinto di Marcel Duchamp, Paysage à Blainville del 1902. Infine, sempre del Duchamp, poco distante, il suo primo ready-made, la nota Ruota di bicicletta del 1964 (una delle sei repliche dall’originale perduto del 1913): Entrambe le opere sono provenienti dalla collezione di Arturo Schwarz, per donazione al museo nel 1997.

Che dire, rispetto ai precedenti commenti sul nuovo allestimento di Cristiana Collu?

Se posso suggerire, come io ho fatto, bisogna sostare a lungo in codesta sala, meglio se la si trova vuota. E allora cominciano ad affiorare assonanze e dissonanze, sincronie cromatiche, simboliste e concettuali, formalistici rimandi che dovrebbero costituire una sorta di filo logico tra tutte queste opere sopra elencate: il più evidente, direi, è proprio il nostro Ritratto di Hanka Zborowska che si riflette negli esemplari della cultura africana, e in particolare con lo Scudo che rappresenta appunto  con al centro una figura geometrica allungata, un simbolo: una sorta di schematico idolo? E non sono forse estremamente allungate le donne del simbolista Klimt?
Inoltre va ricordato, come tutti sanno, che Matisse e Picasso, in quegli stessi anni, raccoglievano maschere africane, del resto tante volte richiamate nei primi dipinti cubisti dell’artista spagnolo. Volendo continuare, è altresì evidente la riduzione cubista del paesaggio nell’ultima opera di Cèzanne che abbiamo più sopra citato. Fin qui le assonanze simboliche e cuboprimitiviste.
 E le sculture di Medardo Rosso? La materia che si disfa per effetto della luce non è forse la stessa del divisionismo-puntellismo di Giacomo Balla nel suo Parco dei Daini? Che può addirittura dialogare cromaticamente con quel dipinto quasi post-impressionista di Duchamp, Paysage à Blainville. Rimane però la Ruota di bicicletta, questa è, a mio avviso, una presenza davvero inspiegabile (sì, certo, è il “dadaismo” duchampiano degli anni Dieci). Ma allora non sarebbe stato meglio, a questo punto, esporre, sempre dalla collezione Schwarz, di Duchamp il più famoso Fontana (ovvero l’Orinatoio), firmato “R. Mutt”, 1917 (replica anch’essa da originale perduto) che si trova invece in un’altra sala (lato via Gramsci) e che almeno avrebbe indicato la stessa data di quel capolavoro che è il Ritratto di Hanka Zborowska, il 1917?  Che fatica però!
                                                                                                                               
 
 Note:
  1. L’ambiente artistico parigino è stato ben delineato da J.P. Crespelle nei due volumi, Montmartre vivant, Paris 1964, e Montparnasse vivant, Paris 1962; una narrazione più recente è quella di Dan Franck, Montmartre e Monparnasse, Milano 2000; cfr. anche  Modigliani e la bohéme di Parigi, a cura di Jean-Michel Bouhuor, Torino, GAM 2015.
  2. Secondo l’esperto Osvaldo Patani, l’opera di Modigliani consta di 360 pitture ad olio, 25 sculture eseguite tra il 1910 e il 1912, e circa novecento dipinti; si veda Amedeo Modigliani catalogo generale dipinti, Milano 1991; si segnalano inoltre: cat. Modigliani a Montparnasse, Galleria d’Arte Moderna, Verona 1988; cat. Modigliani nella collezione del Dottor Paul Alexandre, Palazzo Grassi, Venezia 1993; cat.  Amedeo Modigliani, Museo d’Arte Moderna, Lugano 1999.
  3. P. D’Ancona, Cinque lettere di Modigliani a Oscar Ghiglia, “L’Arte”, Torino, maggio 1930.
  4. Ibid.
  5. cfr. E. Carli, Modigliani, Roma 1952, p.18.
  6. J. Modigliani, Modigliani senza leggenda, Firenze 1961, p.37.
  7. ibid, p.38.
  8. in P. D’Ancona, op. cit.
  9. J. Lipchitz, Modigliani, Paris 1954, p.s.n.
  10.  ibid, p.s.n.
  11.  C. Roy, Modigliani, Genève 1958, trad. it. 1966, pp.30-35.
  12.  I.Ehrenburg, Uomini e Anni, Editori Riuniti 1960, in “L’Unità”, 16   novembre 1960.
  13.  cfr. L. Venturi, La linea di Modigliani, “Poligono”, Milano febbraio 1930.
  14.  N. Ponente, La sua vita e la sua fortuna critica, in cat. Modigliani, Roma 1959, p. 23.
  15.  P. Bucarelli, cat. Modigliani, Roma 1959, p. 15.
  16.  R. Tassi, Modigliani, “Vogue Italia”, giugno 1981, p. 157.
  17.  M. Calvesi, Maledetto ma toscano, “L’Espresso”, 15 maggio 1983.
  18.  A. Savinio, in V. Scheiwiller, Omaggio a Modigliani, Milano 1930.
  19.  cfr. cat. Modigliani, Liege 1980, Musée Saint-Georges, Portrait de Anna Zborowska, New York, MoMA , p. 72 :  “Anna (Hanka) Cirowska, d’un vielle famille aristocratique polonaise, était l’epouse du poét et marchand polonais, Léopold Zborowski”.
  20.  J. Modigliani, op. cit., p. 83.
  21. J.P. Crespelle,  Modigliani, les femmes, les amis, l’oevre, Paris 1969: “Francis Carco, s’appuyant sur des lettres de Mme Zobwroska, attribue à celle-ci la découverte de Modigliani […]. Modigliani fut emballé par son type si proche de celui des madones siennoises qu’il affectionnait et qu’il recherchait dans ses modèles ”, p. 210
  22.  L. Venturi, Amedeo Modigliani, in cat. XVII Biennale di Venezia, 1930, sala 31, n. 20, Ritratto della signora Zborowska, n. 25, La colerette [sic], p. 119.
  23.  J. Cassou, E. Carli, Modigliani, in cat: VI Quadriennale Romana (dicembre 1951- aprile 1952), sala 73, n. 5, La signora dal bavaretto, p. 174.
  24.  cfr. P. Bucarelli, Amedeo Modigliani e “La signora dal bavaretto”, in “Letteratura”, Roma, marzo-aprile 1953, pp. 127-129.
  25. J. Modigliani, op. cit., p. 87.
  26.  R. Tassi, Modigliani senza storia, “La Repubblica”, 13 agosto 1990.