Giovanni Cardone Aprile 2023
Fino al 18 Giugno 2023 si potrà ammirare al MART - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto la mostra Klimt e l’Arte Italiana da un’idea di Vittorio Sgarbi a cura di Beatrice Avanzi.  All’apice della sua carriera, l’austriaco Gustav Klimt  padre della Secessione viennese, partecipò alla Biennale di Venezia del 1910 e all’Esposizione Internazionale di Roma del 1911,organizzata in occasione del cinquantenario dell’unità d’Italia. A seguito di queste rassegne internazionali e a conferma del successo di Klimt nel Belpaese, due capolavori assoluti vennero acquistati da importanti collezioni pubbliche: il Comune di Venezia destinò la Giuditta II alla Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro; Le tre età della donna andarono invece ad arricchire il patrimonio della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, grazie a un’acquisizione del Ministero dell’Istruzione. Diversi anni dopo, nel 1925, un Ritratto di Signora fu acquistato dalla Galleria Ricci Oddi di Piacenza ed è tutt’ora nelle loro disponibilità. Il personalissimo e innovativo stile di Klimt influenzò un’intera generazione di artisti che, tra gli anni Dieci e Venti del secolo scorso, finirono per rinnovare profondamente il proprio linguaggio. Si tratta di grandi nomi attivi principalmente a Venezia, Trieste, Trento e Verona, nelle zone di influenza diretta o prossima della cultura austriaca e mitteleuropea. Il progetto analizza,per la prima volta in modo esaustivo, l’attività di pittori e scultori italiani il cui lavoro fu ispirato da quello di Gustav Klimt e dalla Secessione. Quasi magico e circoscritto nel tempo, questo momento della storia dell’arte si discosta dalle grandi e più note correnti, come le Avanguardie, e precede il Ritorno all’Ordine e le tendenze post belliche. Attraverso circa duecento opere provenienti da importanti collezioni pubbliche e private,il Mart illustra un panorama vario e complesso, nel quale discipline diverse dalla pittura alle arti decorative convivono sotto il segno di un riconoscibile gusto sontuoso, seduttivo e decadente.  La mostra presenta circa quaranta artisti tra cui i pittori attivi a Venezia, come Vittorio Zecchinil cosiddetto “Klimt italiano”;o i giovani “dissidenti” di Ca’ Pesaro, come Felice Casorati; senza dimenticare quelli coinvolti nelle grandi imprese decorative della Biennale, è il caso per esempio di Galileo Chini. Non possono mancare coloro che per prossimità geografica e culturale furono particolarmente vicini al clima delle Secessioni, come il triestino Vito Timmelo i trentini Luigi Bonazza, Luigi Ratini e Benvenuto Disertori. Le atmosfere austriache e germaniche ispirano inevitabilmente anche l’opera dello scultore Adolfo Wildt, definito dai critici “il Klimt della scultura”. Seppur con lo sguardo volto al linguaggio nordico, alle Secessioni di Vienna e di Monaco, gli italiani rielaborano l’influsso klimtiano in modo autonomo e originale: i riferimenti sono visibili nei decori, nelle linee, nei colori e nello stile che finisce per mescolarsi alle caratteristiche artistiche locali, permettendo la nascita di nuove ricerche. D’altronde lo stesso Klimt, in quello che la curatrice della mostra illustra in catalogo come un “folgorante cortocircuito”, fu a sua volta erede della tradizione italiana. È infatti acclarato che alcune delle sue opere più note siano state realizzate a seguito dei frequenti viaggi in Italia durante i quali visitò la Basilica di San Marco e i mosaici di Ravenna, che ispirarono gli ori, i decori, la bidimensionalità. Se Klimt “rende attuali e trasforma in una sintassi rivoluzionaria le impressioni indelebili derivate dalla tradizione artistica del nostro paese”, gli artisti che influenza “con un potere di seduzione senza pari” contribuiscono al delinearsi di una parentesi unica e preziosa su cui finalmente si inizia a far luce. In una mia ricerca storiografica e scientifica su Gustav Klimt e sull’arte italiana che divenne una dispensa universitaria e un seminario per evidenziare il momento storico- artistico e nel contempo vuole dare un ampia descrizione della figura di Klimt e la sua influenza in Italia . La mia indagine relativa al periodo che precede la prima Grande Guerra, si soffermerà in particolare attorno al clima politico– culturale della cosiddetta Vienna Gaudente dei primi del secolo, come luogo ipersensibile e quasi profetico rispetto agli eventi immediatamente successivi e di snodo tra il passato e il futuro dalle conseguenze ancora in atto nel nostro presente. Prima di tutto, alcune precisazioni su quel che intendiamo per Eredità e Memoria come concetti che utilizzeremo quali due lati estremi di una specie di “setaccio”, attraverso cui far passare tutti gli eventi presi in considerazione per filtrarli e interpretarli con visione critica. Per Eredità storico–culturale intenderemo qualcosa di parallelo alla definizione classica, e cioè quale “lascito”, ciò che si lascia agli eredi consanguinei e intenderemo quindi “eredità” come qualcosa di formalmente automatico praticamente nella sua accezione biologica di ereditarietà genetica; in questo senso quindi prenderemo in considerazione questo termine come qualcosa che viene lasciato “automaticamente” ai posteri, i quali non solo non sono responsabili di ciò che ricevono ma non ne hanno neppure piena coscienza. Nella nostra accezione del concetto di Memoria intendiamo il coinvolgimento della presa di coscienza di una eredità subìta. Memoria sarebbe cioè quel prendere coscienza che prevede un impegno personale, come fissavamo nella memoria le poesie della nostra infanzia grazie ad un esercizio volontario per “non dimenticare”. Vedremo più avanti che la memoria avrà a che fare con il concetto di responsabilità. Faremo ora una specie di breve anamnesi rivolta ad analizzare i pregressi di questa cosiddetta “ipersensibilità” culturale viennese. Gli storici definiscono il 28 luglio 1914 il giorno dell’inizio della prima guerra mondiale, con la dichiarazione di guerra dell’Impero Austro-ungarico nei confronti della Serbia, a seguito dell’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este avvenuta a Sarajevo il 28 giugno 1914. Fu un fenomeno che si manifestò a seguito di diversi eventi che cominciarono a succedersi dalla metà del 1800. L’Europa intera era un’abile equilibrista, capace di tenere in piedi una pace effimera, visto i troppi e continui conflitti che invece la vedevano coinvolta. Finita una guerra di espansione austro-prussiana del 1866 ne cominciava subito un’altra guerra franco-prussiana del 1870 da parte di un altro paese. Molto determinante per i successivi equilibri europei, che però ben presto sfoceranno in disequilibri, fu la proclamazione dell’impero tedesco e la successiva elezione del primo Reichstag tedesco. Cominciarono ad essere firmate diverse alleanze: nel 1882 quella triplice tra Germania, Austria,Ungheria e Italia, mentre nel 1894 viene firmata quella franco-russa. L’Europa è invasa da una modernità che però non garantisce condizioni di vita decente per tutti, visto che i governi non riescono a garantire un pasto caldo alle fasce meno abbienti. Esiste un abisso tra chi è ricco e chi è povero. Chi detiene il Potere ha altri interessi, l’urgenza consiste nel possibile attacco da parte del nemico, che comporta la corsa al riarmo. Il riarmo è sempre un fatto straordinario, perché il processo stesso è rischioso e può innescare una crisi ancora prima che i suoi sostenitori diventino essi stessi un fattore di rischio.  La fine dell’Ottocento e il primo decennio del 1900 rappresenta per l’Europa un’ era complicata e complessa, dove si assiste anche all’avvio di progressi positivi, come l’urbanizzazione delle città e l’invenzione delle ferrovie. Quello che non era stato calcolato era che gli Stati Uniti d’America, potenza sottovalutata, nel frattempo si preparavano ad entrare in campo, mentre gli europei combattevano l’ennesimo conflitto territoriale. Rispetto alla potenza che oggi l’America rappresenta, all’epoca invece risultava uno Stato non pericoloso, sicuramente lontano e quindi ininfluente. Una tra le eredità che il primo conflitto mondiale in quattro anni ha lasciato è la stima in circa 15 milioni di vittime tra soldati e civili l’elevata perdita di vite umane fu causata oltre che dalla guerra stessa anche dalla comparsa di malattie e di carestie, che subentrarono durante il conflitto. Quello che la storia dell’umanità ricorda e classifica come Grande Guerra, è stata la fine di un Mondo e l’inizio di un altro che non ha più conosciuto la parola Pace. La nuova fisionomia, alla fine del conflitto, significherà per alcuni paesi la voglia di rivincita. In primis però l’Europa dovette fare i conti con se stessa, da sconfitta, aveva provato ad affrontare come meglio poteva gli eventi, priva di mezzi e di uomini capaci di fronteggiare una battaglia dietro l’altra. Come pivelli alle prime armi così vennero mandati al fronte ragazzi inesperti nell’uso delle armi.
A questo si aggiungano gli errori di valutazione sui campi e gli eventi atmosferici-naturali, a tal riguardo è significativa l’inondazione delle campagne del Belgio avvenuta nell’ottobre del 1914, che provocò l’arresto delle truppe tedesche, determinando di fatto il prolungamento fino al 1918 della guerra. La massa rimasta a casa aveva modo di essere informata attraverso un mezzo di comunicazione quale la stampa, che era inavvicinabile per molti cittadini, visto che richiedeva la conoscenza del saper leggere. La stampa si rivelerà infatti un utilissimo quanto pericoloso strumento durante il conflitto. Diversi sono i saggi dell’epoca che mettono in luce la fondamentale svolta, dovuta alla stampa; da un lato essa permette di passare da un’ignoranza dilagante ad una società che comprende, osserva e comincia a giudicare. Tra questi si cita l’esempio di ‘La folla’ studio della mentalità popolare del 1895, l’autore Gustave Le Bon pone in evidenza questo aspetto, anche le masse ora hanno un’opinione, “L'ingresso delle classi popolari nella vita politica è una delle più sorprendenti caratteristiche di questa nostra epoca di transizione.  Le masse stanno creando sindacati davanti ai quali le autorità capitolano un giorno dopo l'altro. Oggi le rivendicazioni delle masse mirano a distruggere completamente la società come adesso esiste, con l'intenzione di tornare indietro a quel comunismo primitivo che era la condizione normale di tutti i gruppi umani prima dell'avvento della civilizzazione. Il diritto divino delle masse sta rimpiazzando il diritto divino dei re”. D’altro lato questa diffusione di notizie creerà il timore che un eccesso di conoscenza da parte delle classi considerate inferiori possa innescare l’esplosione del malcontento e quindi la stessa stampa verrà usata quale strumento di persuasione utilizzata dal potere. Infine un evento improvviso scosse l’opinione pubblica e così cadde l’ultima goccia che in qualche modo i fautori della guerra stavano aspettando: l’attentato e la morte di Francesco Ferdinando e di sua moglie Sofia. Ora non c’erano più motivi di aspettare, solo il tempo di organizzare le truppe e la guerra poteva avere inizio. Ecco che “la Grande Guerra” lasciò dunque sepolta un’intera generazione, con i suoi progetti, le sue scoperte, i suoi sogni e desideri, soffocati. Tanti incompresi e oscurati protagonisti di allora sono stati riscoperti solo in tempi recenti grazie al serio ed appassionato lavoro di attenti ricercatori. Un esempio è la lucida analisi che fornisce Thomas Harrison, con il suo libro 1910 L’emancipazione della dissonanza, testo che ci conduce ancora una volta a quel fatale 1910 in cui ebbe inizio il noto e sciagurato percorso autodistruttivo posto sotto la nostra attenzione. Tre nazioni, germanica, austriaca e italiana, tra fine Ottocento e primi Novecento, avevano vissuto un periodo di espansione territoriale che generò una convivenza forzata di diversi popoli, trasformando le vecchie città in un groviglio di diverse tradizioni, culture e linguaggi. In queste confuse condizioni di vita, in una boriosa atmosfera di autocelebrazione di conquiste appena ottenute dalle classi al potere, si nascondeva una diffusa e profonda prostrazione testimoniata dal preoccupante aumentare del numero di suicidi da parte di giovani studenti, intellettuali e filosofi, o semplici giovani cittadini in un mondo del quale non si sentivano più partecipi. Spesso questi episodi non sembravano avere una spiegazione logica, dettata semplicemente da tragici fallimenti personali o amorosi; questi suicidi erano invece stranamente accomunati da un misterioso e generico senso di nichilismo e da una strana e forte lucidità che li accompagnava verso un ultimo gesto fatto non di occasionale perdita di coscienza, ma di volontà, calcolo e determinazione. Forte influenza avrà senz'altro avuto il clima filosofico vissuto nei luoghi di studio e ricerca di quel periodo, un nebbioso clima intriso di una nuova confusa e cupa consapevolezza: l’uomo “moderno”, abbandonando le vecchie certezze teleologiche, era ora in grado di decidere autonomamente della propria vita e se la propria vita era ora divenuta quasi solo un semplice diritto soggettivo, allora si poteva decidere in ogni momento di decretarne la fine. Su questa drammatica escalation di morti venne organizzata una conferenza proprio nel 1910 a Trieste e questa fu organizzata con l'intento di approfondire ed analizzare attentamente i motivi di questa preoccupante tendenza giovanile. Sarà certo un semplice caso ma, per ironia della sorte, tra gli organizzatori di questa conferenza figurava proprio quel Sigmund Freud destinato ad incrinare e poi scuotere profondamente le visioni del mondo della vecchia Europa, ancora intrise di un'illusa cieca fiducia nella “Ragione Cosciente”. Senza aprire un capitolo sulla nascita della psicoanalisi, ci basti sapere, a livello di cultura diffusa, quanto pesò la scoperta dell’inconscio quale realtà oscura che misteriosamente minava la certezza delle scelte fino ad allora considerate “razionali” e coscienti; quanto pesò poi la teoria della rimozione dalla “memoria cosciente” di eventi pericolosi per l’armonia interiore e il mistero di un nuovo modo di considerare il corpo e il sesso. Queste grandi novità destabilizzarono la sicurezza dell’individuo, ed aprirono la ricerca allo studio delle malattie psicotiche nel singolo come a livello sociale, sconfessando la vecchia psichiatria e i metodi fino ad allora utilizzati negli ospedali psichiatrici, così presenti in maniera inquietante nelle opere di Schiele.  “A ogni epoca la sua arte, all'arte la sua libertà” è il motto con il quale la Secessione si mostrò al mondo ed è anche l’iscrizione apposta sul Palazzo dove sarebbero state organizzate le future mostre espositive; il Palazzo della Secessione è opera di J.M. Olbrich, costruito tra il 1897-1898, ispirato da un disegno dello stesso Klimt. La Secessione, inizialmente nata come gruppo di artisti autonominatosi come “Primavera Sacra”, ebbe una durata di circa otto anni, durante i quali fece cambiare l’approccio del pubblico verso l’arte. Come arte totale, a partire dalla parte grafica, con la rivista Ver Sacrum, e nell’esposizione delle opere d’arte, dove tutto conferiva verso un unicum. Gli spazi, le pareti insieme all’utilizzo di tutti i materiali, dava unicità al loro intento di arte. Mentore Klimt, insieme a J. Hoffmann e ad altri artisti, si decise di costruire un luogo dove vigesse l’idea guida dell’unione tra architettura, pittura e arti decorative, dinamica che doveva condurre il pubblico verso una nuova visione dell’arte. La “linea” dello stile secessionista diviene tratto tranquillizzante fondamentale: arte come strumento di funzionalità per le esigenze contingenti dell’ era delle industrie e delle macchine, uno slogan contro la massificazione e la riduzione del quantitativo della produzione industriale, che doveva rimettere al centro l’artigianato e l’uomo. Senza appoggi e sovvenzioni ministeriali, questi artisti riuscivano a godere di un intenso mecenatismo, soprattutto clienti ebrei, che risultarono essere molto amanti di questa nuova arte moderna. Precoce è stato l’esordio di Gustav Klimt  all’età di 14 anni entrò alla scuola di arti applicate di Vienna, superando con lode l’esame di ammissione. Anche suo fratello Ernst vi entrò a far parte e insieme a Franz von Marsch formarono, una volta terminato il ciclo di studi, un sodalizio, la Künstler-Compagnie, che riuscì ad ottenere diversi incarichi, soprattutto alla morte di Makart, avvenuta nel 1884. La Künstler-Compagnie, all’apice del successo, ebbe un drammatico epilogo con la morte improvvisa di Ernst. Questo avvenimento familiare comporterà per Klimt una lunga riflessione che lo porterà ad una presa di posizione verso un atteggiamento che aveva respirato durante gli studi alla scuola di arti applicate. Insieme ad altri ex allievi della scuola cominciò il percorso della Primavera Sacra. Il nuovo fermento artistico viennese risultò essere il punto di non ritorno per Klimt in contrasto con la tradizione. Considerato fedele erede di Hans Makart, Klimt in realtà cominciò a far germogliare le radici che la Scuola di arti applicate gli aveva lasciato trasgredendo e trasformando le vecchie regole in nuove visioni della realtà. Da designato erede di Makart si rivelò al centro della rivoluzione artistica: il pittore del XX secolo doveva avere un suo stile. Questa nuova organizzazione voleva dare l’impronta di una nuova etica artistica: il bello non è più fondamentale, diviene essenziale invece il messaggio e l’interazione con lo spettatore. Il culmine di questo progetto combaciò con l’inizio della sua fine: il 1902, anno della mostra su Beethoven, si raggiunse un livello di sviluppo che comportò anche la consapevolezza che la parabola della Secessione era ormai destinata ad un rapido epilogo. Pittore che ha saputo nel corso della sua vita cogliere e cambiare generi stilistici differenti, a dimostrazione del fermento artistico ed evolutivo austriaco da una parte e della sua grande intuizione dall’altra, Klimt, prima di Freud, aveva intuito e aveva espresso la visione del dentro, di quell’inconscio che voleva gridare al mondo la nuova visione dell’erotismo, della femminilità e dell’aggressività. Vantando una forte componente di genio e follia, che erano capaci di scatenare la facoltà di immaginazione che superava nell’atto artistico un potente effetto eccentrico, ebbe una visione da preveggente nel comprendere la degenerazione della società industriale moderna. La sua formazione umana si era creata anche grazie alla frequentazione dei caffè, dove poteva discorrere con dottori, filosofi e scienziati. Il salotto di una sua grande ammiratrice come Berta Zuckerkandl era una fonte inesauribile di committenze. Era un grande amante del sapere, instancabile studioso e grande conoscitore dell’arte antica come di quella contemporanea. I viaggi, le influenze degli artisti contemporanei visti durante le Esposizioni, la commistione tra arte e scienza, arte e storia, arte e musica, dovettero essere certamente stimoli molto forti e capaci di fargli raggiungere la consapevolezza del bisogno di un nuovo rapporto con lo spettatore. Il valore della sensibilità dimostrata da Gustav Klimt durante la sua vita è inestimabile, uniti alla generosità e alla disponibilità che dispensava ai giovani emergenti, tutti elementi che lo elevano a punto cardine nella storia dell’arte moderna viennese. Senza di lui artisti come Egon Schiele e Oskar Kokoschka non avrebbero avuto non solo la possibilità di esporre le loro opere, ma anche di entrare in contatto con un clima, che non senza difficoltà, li ha distinti all’epoca. Klimt, ben consapevole di essere solo il loro trampolino di lancio, li vedrà entrambi distanziarsi dal suo stile. I suoi pupilli porteranno a termine quello che il maestro aveva lasciato come discorso sospeso, l’impreziosimento degli ori dei suoi ritratti si rivelerà nelle giovani matricole in scarne e vive rappresentazioni di un vuoto interiore. Si può azzardare affermando che se l’evoluzione artistica di Klimt sta nell’intuizione di rottura con l’associazione ufficiale degli artisti, così l’evoluzione artistica di Schiele e Kokoschka sta nell’aver incontrato Klimt. Punti di eredità da parte del suo pupillo Schiele saranno lo studio della donna e l’erotismo, che il giovane Schiele riprenderà con un soggettivismo tutto suo. Klimt restò sempre ad un livello allegorico della figura femminile, donando quel tocco di erotismo che trasforma la sua figura in eterna divinità.  In Klimt ebbe una componente accademica, che lo vincolava rispetto a Schiele e Kokoschka: le proporzioni, aspetto che invece risulterà essere il primo a saltare nell’espressionismo. Viso e mani in Klimt erano naturali, mai estremizzati come invece fecero Schiele e Kokoschka. Abilissimo artigiano, seppe fondere modernità con l’arte classica, impreziosendo con la sua dote di artigiano le foglie d’oro. Comprendeva anche l’arte giapponese che amava moltissimo. La donna in Klimt è un soggetto che fin dall’adolescenza ricopre un ruolo fondamentale, di studio perenne, come una meta in continua ricerca, ma anche in perenne cambio di forma e di struttura. Raffigurare la donna è stato anche il suo modo di voltare pagina, verso un’arte ogni volta nuova. I tre ritratti femminili, presenti in queste pagine, rappresentano il superamento e i suoi continui passaggi verso una forma d’arte che rifletteva le sue nuove sensibilità. Il Ritratto femminile del 1894 sembra lontano dal Klimt de Il bacio del 1907, da Le tre età della donna del 1905. Il passaggio all’Espressionismo quasi a raggiungere quello dei suoi pupilli avvenne con il ritratto dove scomparvero l’allegoria e le decorazioni, tutto scompare per fare luce al viso, come nel ritratto di Johanna Staude, datato 1917-1918. Il mentore aveva spianato la strada ma non superò mai i limiti che invece Schiele e Kokoschka superarono subito, distanziandosene fin da subito. Oltre a queste differenze, gli allievi realizzarono moltissimi autoritratti, mentre Klimt non lavorò mai su un autoritratto, dichiarando che la sua immagine non aveva alcun interesse. L’opera che consacra l’inizio dell’arte moderna è il Fregio di Beethoven del 1902, Klimt risulterà essere passato definitivamente ad una nuova era. Un’era nuova anche per quanti furono spettatori del suo capolavoro. La resa temporale del “racconto” fu permessa anche da un passaggio che conduceva alla prima parete lunga, dove vi erano raffigurati il desiderio di felicità, le sofferenze dell’umanità, le preghiere di queste all’uomo forte e ben armato, la compassione e l’orgoglio che inducono a intraprendere la lotta per la felicità. Nella parete stretta sono dipinte le forze nemiche e il gigante Tifeo. Nella seconda parete lunga ci sono invece il desiderio di felicità che viene appagato nella poesia, e nelle arti, come la musica, che ci conducono nel regno ideale dove solo noi possiamo trovare la vera gioia, la vera felicità, il vero amore. L’arcaicismo, trova una nuova forma di sfondamento, un simbolo dirompente che non è assolutamente classicismo, ma è una forza fondata sulla mitologia. È un’opera preziosa questa, dove vi è una sperimentazione di pose e di espressioni alla ricerca di un’intensità. L’ affresco è realizzato con diversi materiali, tra cui: vernice, gesso, frammenti di specchi, graffite e lame d’oro. Sono presenti il rapporto uomo–donna, con una forte componente di pathos e gestualità del corpo umano, elementi tra di loro contradditori e ambivalenti. L’importanza del pensiero e dell’opera di Beethoven venne consacrata attraverso questo affresco e dall’intera mostra secessionista. Con il passaggio al XX secolo Vienna si ritrovò ad affrontare quel malessere generazionale, la rottura ufficiale con l’arte accademica, cominciata nel 1896 da Klimt, che ebbe come passaggio ulteriore uno stile che oltre alla rottura, avrà un nuovo messaggio da diffondere. Un nuovo punto di partenza: l’arte moderna. Non esiste un inizio ufficiale dello stile espressionista viennese, né un gruppo, né un luogo fisico: esprime semplicemente un desiderio di condivisione, di forte turbamento che esige l’interazione con lo spettatore. Quello che fu evidente all’epoca era la necessità da parte di chi sentiva cambiare i tempi, di poter esprimere questo sentimento. Le nuove frontiere della medicina, con gli studi della mente umana, la visione della pazzia, del turbamento presenti negli ospedali psichiatrici, furono rappresentati soprattutto da Egon Schiele e Oskar Kokoschka, che seppero rilevare la nuova frontiera dell’arte pittorica rivolta alla medicina e alla psiche umana. Molti saranno i ritratti che non avevano nulla a che vedere con la bellezza, con i canoni accademici delle proporzioni, rilevavano invece ansie, nevrosi, debolezze attraverso mani e occhi. L’arte cosiddetta espressionista abbraccia una realtà sociale che comporta un rapporto nuovo che si instaura tra l’Uomo e la Natura, tra l’Uomo e la Modernità, discorsi talmente rivoluzionari da parte di fisici che sconvolsero la società rompendo gli schemi nelle arti, modificando le idee filosofiche e le motivazioni della politica. Dapprima il fisico Jean Bernard Léon Foucault che formalizzò un discorso sospeso da tempo sulla certezza della teoria che sia la Terra a girare intorno al Sole, facendo crollare il centralismo terrestre. Successivamente Max Planck e Albert Einstein che con la teoria dei quanti, e con quella della relatività, evidenzieranno un passaggio epocale essenziale nella storia di questa generazione. L’espressionismo tedesco sarà uno stile che condividerà con i viennesi una linea di tendenza nuova, ma allo stesso tempo molto diversi. La frammentarietà, disomogeneità tipiche di questo stile sono visibili e riscontrabili, proprio per questa contraddittorietà di fondo: nessuna scuola, né formazione da cui gli artisti potevano trarre spunti, l’unica linea guida è la pura e semplice espressione del di dentro. In Germania la sfaccettatura verrà evidenziata dalla formazione di diversi gruppi. Il primo nacque nel 1905, Die Brücke, (Il ponte) creato contro tutti i convenzionalismi. In qualche modo è il primo vero nucleo, anticipatore anche di quello viennese. Grazie a loro cominciò il percorso della pittura e della grafica espressionista dove fa irruzione un’arte dall’interiorità irrazionale, con una concezione metafisica e una visione audace della realtà. Con i colori come forza evocatrice dei paesaggi, dove l’uomo tenta di riprendersi e di riallacciare il contatto con la natura. Nel 1911 nasce Der Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro) capeggiato da Vasilij Kandinsky, l’intento di questo gruppo era l’astrazione, Kandinsky ambiva ad un rinnovamento spirituale dell’arte. Primo acquerello astratto del 1910 di Kandinsky è l’opera che segue ad un libro Astrazione e Empatia di Wilhelm Worringer del 1908, seguendo un percorso che condurrà a delle autentiche rotture con scardinamento delle regole. L’arte astratta non immobilizza lo spettatore, non esiste più un filtro, vi è una comunicazione diretta, la spiritualità pittorica ha finalmente abbattuto un ostacolo tra il quadro e il pubblico. La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorte di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono.  Esiste oggi una realtà come l’esempio di Vienna, con i suoi caffè e i pomeriggi nei salotti? No, perché esiste una connessione e interconnessione diversa, basata principalmente sull’assenza di distanza spaziale.
La distanza vicina è inesistente. Quello che differenzia il prima e il dopo è la profonda superficialità delle vicinanze contemporanee. Il nostro mondo rispetto a quello di “ieri” consiste in una diversa modalità del vivere sociale. È come se le parole avessero cambiato la propria connotazione: da sociale a social; da persona a profilo; da caffè Central a smile. Non è facile un'analisi specifica e dettagliata in proposito e non è comunque compito di questa tesi.  A cento anni dallo scoppio della Grande Guerra siamo ancora prigionieri di quella crisi filosofica e politica, che sembra aver generato quel conflitto. Siamo in grado di ricreare in qualche modo il clima viennese ricco di incontri, di vissuti e discipline diverse? Forse ancora oggi non siamo riusciti a far veramente memoria di quei tempi e diventare coscienti di quell'eredità. La nostra attuale situazione è in qualche modo paragonabile a chi ha ereditato un lascito economico fatto di debiti e crediti senza esserne a conoscenza: solo una totale presa di coscienza ci rende responsabili di debiti e crediti e solo tale “coscienza responsabile” ci mette nelle condizioni di fare un bilancio, di dover fare qualcosa per sanare i debiti e percepire i crediti ereditati. Forse un tale bilancio totalmente cosciente non è mai stato fatto, soprattutto dalla stessa Europa, caduta inesorabilmente, a pochi anni di distanza dalla prima, in una seconda guerra mondiale. L'urlo immaginario dell'espressionismo, giunto fino a noi, forse non ha ancora generato la coscienza sufficiente a maturare una responsabilità che possa permetterci quel salto di “veri cittadini del mondo”, fuori dai vecchi pregiudizi ed aperti ad un “dialogo totale”, filosofico, religioso, intergenerazionale e interculturale, un dialogo aperto all'ascolto e generato da una memoria emotiva capace di analizzare gli errori del passato, perché solo così può immaginare di non ripeterli. Collettivamente l'intera Europa, riunita in un unico corpo, pensando a Freud, è come se si trovasse di fronte ad una parziale “rimozione” di quegli eventi, che oggi appaiono scomodi alla sopravvivenza di un sistema fatto di relazioni intrise di conflitti, che, sotterraneamente, manifestano ancora nodi profondi non dipanati. Come nella rimozione, la memoria cede qualcosa all'inconscio quando inconsapevolmente lascia cadere nell'oblio le testimonianze di eventi e situazioni scomode; scomode perché prevedono una presa d'atto che comporterebbe comunque sofferenza e volontà di cambiamento. Quel che ho cercato di fare con questo saggio è un tentativo di riprendere un discorso in parte interrotto, un'eredità in parte bloccata, vecchie esperienze che se rivisitate in tutta la loro forza potrebbero rivitalizzare quel dialogo fuori dal tempo che ci aiuterebbe ad approfondire il nostro stesso vissuto. Come ultimo tassello di questo complesso percorso tra eredità e memoria, aggiungo un mio immaginario progetto, che definirei di archeologia storico comparativa dei climi culturali, che consiste in un personale sogno-sceneggiatura, parafrasando Schnitzler, in cui i principali protagonisti di questa mia ricerca “si trovano a discutere” su cosa viene detto e non detto di loro. È forse un sogno irrealizzabile o ad occhi chiusi spalancati e vorrebbe rappresentare quel dialogo impossibile tra generazioni diverse, fuori dal tempo storico-cronologico. La mostra e divisa in quattordici sezioni che narrano dal inizio del secolo scorso il percorso artistico di Klimt attraverso le sue opere. La nascita della Sessione Viennese che nel 1857 l’imperatore Francesco Giuseppe fa abbattere le antiche mura di Vienna per cingerla con una doppia strada alberata, la Ringstrasse, popolata di giardini, caffè e edifici di rappresentanza, ciascuno dei quali improntato allo stile storico più confacente alla sua funzione. La rottura avviene proprio ad opera di due artisti coinvolti nella costruzione e nella decorazione degli edifici del Ring: l’architetto Otto Wagner e il pittore Gustav Klimt, uniti dalla partecipazione alla Secessione di Vienna, il movimento fondato nel 1897 che cerca di adeguare l’arte agli stili di vita contemporanei. Scrive Wagner: «Tutto ciò che è creato con criteri moderni deve corrispondere ai nuovi materiali e alle esigenze del presente». E ciò vale soprattutto per i nuovi tipi edilizi, come le stazioni della metropolitana, le case d’affitto, le ‘ville urbane’. L’interno più radicale della Vienna fin de siècle è però il Cafè Museum di Adolf Loos (1899). A Vienna, peraltro, i caffè «sono una sorta di club democratici e accessibili a tutti al modico prezzo di una tazzina di caffè», come scrive Stefan Zweig, uno dei protagonisti letterari del momento, insieme con Hugo von Hofmannsthal, Georg Trakl, Arthur Schnitzler, Franz Werfel, Robert Musil. Anche nella scena musicale l’avvicendamento avviene nel 1897 quando Gustav Mahler diviene direttore dell’Opera di Corte. E mentre Arnold Schönberg, e Alban Berg aprono strade inesplorate alla musica, Sigmund Freud schiude la porta dell’inconscio. Gustav Klimt proviene da un ambiente molto semplice. Nato il 14 luglio 1862, l’artista è il secondo di sette figli di Ernst Klimt, incisore d’oro, e sua moglie Anna, nata Finster, a Baumgarten, all’epoca un sobborgo di Vienna. Nonostante la critica situazione finanziaria, i genitori di Klimt permettono al loro figlio Gustav e ad altri due figli, Ernst e Georg, di formarsi presso la scuola di arti e mestieri di Vienna. Durante i loro studi, i due fratelli Gustav ed Ernst Klimt, insieme al loro compagno di studi Franz Matsch, fondano intorno al 1879 un gruppo di lavoro e studio, la cosiddetta Compagnia di artisti, specializzata nell’esecuzione di dipinti su pareti e soffitti. Ricevettero commesse dai rinomati architetti Fellner & Helmer, che costruirono teatri in tutta la monarchia e commissionano ai pittori sipari teatrali e decorazioni delle volte. Le commesse più importanti includono le decorazioni del soffitto negli scaloni del Burgtheater di Vienna e gli affreschi nella tromba delle scale del Kunsthistorisches Museum di Vienna. Il successo della Compagnia di artisti, tuttavia, subisce un duro colpo quando il fratello di Gustav, Ernst, muore improvvisamente nel 1892 e il gruppo si scioglie. Dai primi anni del 1890, Gustav Klimt esegue sempre più commissioni di ritratti per i circoli della classe media, distinguendosi per l’esecuzione realistica tecnicamente brillante e dettagliata. La nascita della Secessione Viennese dato che l’evento più importante nel contesto del rinnovamento artistico di Vienna può essere considerata la fondazione della Secessione viennese. Si tratta di uno spin-off della Cooperativa di artisti visivi Vienna - Künstlerhaus, l’organizzazione che all’epoca godeva di un monopolio nell’attività espositiva viennese. Insieme a oltre venti compagni, Gustav Klimt fonda l’Associazione degli artisti austriaci - Secessione il 3 aprile 1897 all’interno del Künstlerhaus. Il 24 maggio 1897 i Secessionisti decidono di lasciare il Künstlerhaus. Gustav Klimt viene nominato primo presidente della Secessione e ne disegna il primo manifesto raffigurante Teseo nudo che combatte il Minotauro. Le autorità censurarono il manifesto, decretando che i genitali dell’eroe dovessero essere nascosti da un tronco d'albero. I membri della Secessione non perseguono un linguaggio artistico uniforme. Da una parte, vi erano pittori più impegnati nell’arte realistica e naturale, come Wilhelm List, Johann Viktor Krämer, Vlastimil Hofman o Ferdinand Andri. D’altra parte, i pittori più orientati verso l’Art Nouveau, come Klimt, Carl Moll o Ernst Stöhr. Queste differenze stilistiche, ma anche dispute organizzative tra i “naturalisti” e gli “stilisti”, portano divisioni sempre maggiori fra gli artisti della Secessione, fino a quando Klimt e altri colleghi come Moser, Hoffmann e Moll decidono di lasciare il gruppo nel 1905. La particolarità della Secessione viennese, fondata nel 1897, è lo stretto legame tra le belle arti, l’architettura e il design. Oltre a numerosi pittori, fanno parte del gruppo della Secessione importanti architetti, designer innovativi e scenografi, come Otto Wagner, Josef Hoffmann, Joseph Maria Olbrich, Koloman Moser e Alfred Roller. Hoffmann, Moser e Roller sono anche i più importanti progettisti delle ventitre mostre che furono allestite nella Secessione nei primi otto anni dalla fondazione nel 1897 alla partenza del gruppo intorno a Gustav Klimt nel 1905, stabilendo nuovi standard con la modernità delle loro presentazioni espositive. Le mostre vengono accompagnate da manifesti la cui grafica è fortemente innovativa. Dal 1898 al 1903 la Secessione pubblica la rivista d’arte Ver Sacrum, per la quale Klimt, Moser e Josef Maria Auchentaller, tra gli altri, realizzano numerosi disegni.  Moser e Hoffmann progettano anche oggetti artistici e artigianali realizzati con un’ampia varietà di materiali. L’esecuzione di questi oggetti viene affidata da aziende austriache eccezionali, come la società di vetro Johann Lötz Witwe, famosa per i suoi oggetti in vetro iridescenti e luccicanti. Moser, Hoffmann e l’imprenditore Fritz Wärndorfer fondano l’azienda Wiener Werkstätte nel 1903, che avrebbe prodotto un gran numero di articoli di alta qualità per quasi trent'anni. I primi Viaggi di Klimt che visita più spesso senza dubbio l’Italia.
All’inizio del mese di maggio 1899 si reca in alcune città del Nord insieme al suo amico pittore Carl Moll e alla sua famiglia. Tra l’allora trentasettenne Klimt e la ventenne figliastra di Moll, Alma Schindler, l’attrazione reciproca già esistente da tempo si manifesta proprio durante il viaggio. Precisamente a Genova, Gustav e Alma si baciano per la prima volta, e a Verona Klimt la bacia una seconda volta. A Venezia, però, Moll, risentito, vieta al suo amico Klimt di fare ulteriori avances ad Alma. Klimt si scusa con Moll per il suo comportamento in una lettera lunga tredici pagine. Quattro anni dopo, nel maggio 1903, Klimt torna a Venezia. In questa occasione ha modo di visitare per la prima volta i mosaici di Ravenna, evento che suscita in lui grande entusiasmo. Alla fine di novembre e all’inizio di dicembre dello stesso anno si reca ancora una volta a Ravenna e altre città dell’Italia settentrionale. Grazie alle cartoline che Klimt invia quasi ogni giorno a Emilie Flöge a Vienna, siamo informati dell’andamento del viaggio. Klimt scrive le prime cartoline da Villach, Pontebba, Venezia e Padova. Il 2 dicembre Klimt scrive da Ravenna: « a Ravenna tante povere cose - i mosaici di uno splendore inaudito». Seguono cartoline da Firenze, Pisa, La Spezia, Verona e infine due cartoline da Riva del Garda. Mentre nella sesta sezione ci parla del confronto con l’Opera Giuditta e Oloferne anche Klimt negli anni tra il 1900 e il 1910, cade ripetutamente nel ruolo dell’artista dello scandalo che per primo osa concentrarsi più chiaramente che mai sull’erotismo femminile nei suoi dipinti, specialmente quelli dal contenuto simbolista e allegorico. Uno degli esempi più noti oggi, in cui Klimt rende omaggio al fascino dell’erotismo femminile, è il suo ritratto di Giuditta, creato nel 1901. Questa leggendaria figura biblica, che decapita con le sue stesse mani il generale assiro Oloferne, per salvare dalla rovina il suo popolo ebraico, si fa strada sempre più nell’arte e nella letteratura al tempo. La Giuditta di Klimt sembra essere un eccezionale esempio del tipo di femme fatale, di nuovo stilizzato nelle arti visive e nella letteratura intorno al 1900, quell'essere affascinante da cui l’erotismo e il pericolo vengono sprigionati in egual misura. La visione ambivalente di Klimt di una donna erotica e allo stesso tempo omicida richiama l’attenzione su un argomento molto dibattuto a Vienna all'inizio del XX secolo, ovvero il rapporto tra i sessi. Il ruolo dell’uomo e della donna nella società, l’erotismo e la sessualità, l’autodeterminazione e la determinazione esterna dei ruoli sessuali vengono gradualmente messi al centro della scienza e della società negli anni successivi al 1900 e divengono oggetto di una fondamentale rivalutazione. Non è certo un caso che proprio in quegli anni a Vienna i rappresentanti dell’ancora giovane disciplina scientifica della psicoanalisi, Sigmund Freud in primis, giungano qui a intuizioni del tutto nuove. Il lavoro di Klimt che è indissolubilmente legato alla sua speciale maestria nella ritrattistica. Sorprendentemente, si dedica quasi esclusivamente a ritratti femminili, mentre i ritratti di uomini sono estremamente rari e risalgono ai primissimi anni creativi. Nella ritrattistica in particolare, le opzioni di design di Klimt variano in grande densità e velocità. Nel primo Ritratto di donna di grande formato del 1894 circa, dimostra la sua maestria nel padroneggiare una tecnica pittorica quasi fotorealistica, mentre nel ritratto di donna di piccolo formato su sfondo rosso della fine degli anni 1890 passa a una tecnica impressionistica dello sfumato. In ogni ritratto il maestro cerca nuove ispirazioni; nessuna composizione è uguale all’altra. Con l’aiuto di un gran numero di studi a matita, Klimt si avvicina lentamente alla postura del modello, da lui considerata perfetta. La maggior parte dei committenti per i ritratti di Klimt appartiene alla classe benestante della società cittadina, alcuni tra i più ricchi del paese, come le famiglie Wittgenstein, Bloch-Bauer, Lederer o Primavesi. Molti appartengono all’élite intellettuale del Paese, come la famiglia Zuckerkandl. Al di là della maestria di Klimt nella ritrattistica, il ritratto femminile è molto popolare all’epoca. Numerosi membri della Secessione viennese, come Otto Friedrich, Friedrich König, Max Kurzweil o Josef Maria Auchentaller, ne sono un eccellente esempio con i loro ritratti estremamente attraenti delle signore viennesi. Mentre l’ottava sezione narra dei famosi quadri della Facoltà che nel 1894 Gustav Klimt e Franz Matsch ricevono l’ordine dal Ministero della Pubblica Istruzione di dipingere allegorie monumentali per il soffitto dell’Aula Magna dell’Università di Vienna. Klimt assume l’esecuzione delle rappresentazioni Filosofia, Medicina e Giurisprudenza. Questi quadri monumentali sono considerati le opere principali dell’opera di Klimt oggi. In esse, Klimt ha trattato l’erotismo e la sessualità in un modo che nessuno a Vienna aveva osato fare prima di lui. Sin dalla loro prima presentazione, le opere suscitano l’indignazione generale del pubblico e del contesto politico, tanto che il Ministero decide di non farle appendere come previsto inizialmente. Klimt rinuncia quindi all’incarico e restituisce l’onorario che gli era stato anticipatamente versato. Due dei dipinti delle facoltà finiranno nelle mani di un privato, uno entrerà in una collezione museale. Sfortunatamente, tutti e tre i dipinti furono distrutti negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale. Oggi conosciamo l’aspetto dei quadri delle facoltà grazie a fotografie in bianco e nero. Solo la figura di Igea nella metà inferiore di Medicina è stata fotografata a colori. Nell’ambito del progetto digitale su Gustav Klimt realizzato da Google Arts & Culture, un gruppo di ricerca ha utilizzato le più recenti tecnologie informatiche come l’apprendimento automatico e l'intelligenza artificiale per ricavare il colore originale delle immagini dalle riproduzioni in bianco e nero. Il risultato di questo progetto di ricerca sarà presentato per la prima volta al pubblico nel corso di questa mostra. Nella nona sezione si racconta del famoso fregio  di Beethoven che nell’ aprile a giugno 1902, la Secessione viennese presenta come parte della sua XIV Mostra un omaggio a Ludwig van Beethoven. L’attrazione principale della mostra è una scultura di Beethoven scolpita in marmo colorato da Max Klinger. Inoltre, venti artisti della Secessione - tra cui Elena Luksch-Makowsky come unica artista - idearono contributi originali, in particolare fregi e rilievi murali. Alfred Roller sviluppa il concept della messa in scena, mentre il design degli interni viene affidato a Josef Hofmann. È di Gustav Klimt il contributo più sensazionale con un fregio murale lungo più di 34 metri, che si estendeva per un’altezza di circa due metri su tre pareti di una stanza laterale. Klimt sviluppa un complesso programma di immagini che può essere visto come un’interpretazione visiva della Nona Sinfonia di Beethoven. L’importanza del fregio di Beethoven per l’opera artistica di Klimt non è sopravvalutata: Klimt raggiunge qui per la prima volta un monumentale isolamento delle figure; la linearità come elemento progettuale autonomo raggiunge il suo primo culmine. È davvero una fortuna enorme che il fregio di Klimt non sia stato demolito dopo la mostra di Beethoven come i murali di altri artisti e che sia stato conservato per i posteri. Il fregio, faticosamente rimosso dal muro, finisce nelle mani di committenti privati. Negli anni ‘70 viene venduto alla Repubblica d’Austria e, dopo anni di restauri, trova la sua definitiva dimora nei sotterranei del palazzo della Secessione viennese, dove è possibile ammirarlo ancora oggi. La decima sezione mette ha confronto Klimt e la pittura paesaggistica  che l’artista intorno al 1900 da quel momento in poi costituirà un punto fermo nella sua pittura accanto alle allegorie e ai ritratti. Il rituale del viaggio estivo annuale era di grande beneficio per questo. In compagnia della sua compagna Emilie Flöge e della sua famiglia, Klimt guidava regolarmente in campagna per circa due o quattro settimane a luglio e agosto, preferibilmente nella regione dei laghi del Salzkammergut dell'Alta Austria. Nei suoi paesaggi, Klimt ha in mente una natura idealizzata; il suo obiettivo è creare un mondo senza nuvole e paradisiaco. Klimt trascorse l'estate del 1913 sul Lago di Garda nel Nord Italia. Il risultato di questo soggiorno di cinque settimane, durato dal 31 luglio al 10 settembre, furono tre dipinti di grande formato, ovvero due immagini di città, vedute di Malcesine (già Collezione Lederer, Vienna, perduta dal 1945) e Cassone (collezione privata), oltre a una soleggiata Sezione di un sentiero di un giardino (Kunsthaus Zug, Svizzera). Molti colleghi pittori dell'ambiente della Secessione viennese condividevano la preferenza di Klimt per paesaggi esteticamente raffinati e idealizzanti. Carl Moll e Koloman Moser, ad esempio, hanno preso in prestito molto da vicino le rappresentazioni di Klimt. La pittrice Broncia Koller-Pinell, così come i pittori Franz Jaschke e Rudolf Junk, crearono quadri di paesaggi e città in modo marcatamente divisionista. Sebastian Isepp, d'altra parte, mostra ispirazione. Il fulcro del padiglione austriaco all’Esposizione Internazionale di Roma del 1911 è la sala Klimt, spesso citata nella stampa come “tempietto” o “abside” per la sua forma semicircolare e per l’aura quasi sacrale. Al suo interno, Klimt presenta otto dipinti e quattro disegni, tra ritratti, paesaggi, soggetti allegorici. Fra questi, il celebre dipinto Il bacio, i ritratti della signora Wittgenstein e quello di Emilie Flöge, due elaborate opere simboliste quali La Morte e la Vita e La Giustizia, le Bisce d’acqua I (o Le sorelle), elegantemente stilizzate. L’impressione complessiva che dovevano suscitare i colori smaglianti, la sinuosità delle linee, l’esuberanza dei motivi decorativi nello spazio bianco dell’abside, è sintetizzata da Emilio Cecchi, con parole che tradiscono, nonostante tutto, una sottile seduzione: «Perché veramente il segreto dell’arte di Klimt sta nel fascino delle colorazioni elementari, negli accordi spontanei, negli incontri immediati, come quelli dei colori dell’ali della farfalla o delle scaglie della pietra. Quella sua complicatezza simbolica, quel desiderio di significati profondi che le hanno attirato l’ammirazione dei raffinati sono cosa estranea e, se rivelano con la loro macchinosità e con la loro astrattezza una volontà laboriosa dell’artista per mettersi d’accordo con la morbidità dei tempi e vibrare all’unisono con la celebrarità esasperata dei contemporanei, rivelano, anche, quanto la sua energia concreta e profonda rimanga da esse remota». Gustav Klimt partecipa per la prima volta alla Biennale Internazionale d’Arte di Venezia con due opere nel 1899 e nella città lagunare giunge all’epilogo la sua relazione con la giovane allieva Alma Schindler, che avrebbe poi sposato Gustav Mahler, divenendo una delle più celebri muse del XX secolo. Il pittore torna alla Biennale nel 1910 con una sala individuale, la numero 10, allestita dall’architetto austriaco Eduard Josef Wimmer-Wisgrill come una scatola bianca, con le pareti tripartite da due sottili fasce decorative nere e sei eleganti poltrone di vimini al centro. Il quadro Le amiche, qui esposto, è riconoscibile in una fotografia della sala 10, dove appare significativamente affiancato allo scandaloso Bisce d’acqua II. È come se le eleganti signore viennesi del primo quadro, vestite con mantelli e cappelli invernali che ne lasciano scoperti solo i volti, si fossero denudate per immergersi nelle onde senza tempo del secondo quadro, unendosi alle creature iridescenti che si lasciano cullare dai loro istinti. La mostra fa subito scalpore e divide la critica. La ragione principale la espone Nino Barbantini, direttore della Galleria Internazionale di Ca’ Pesaro: «L’arte di Klimt è antipatica al nostro tempo perché l’oltrepassa e prepara il tempo di domani».  La Secessione o meglio  la mostra vuole evidenziare che alla  seconda mostra della Secessione romana del 1914 vede l’attesa partecipazione dopo l’occasione mancata dell’anno precedente dell’Associazione di artisti austriaci fondata da Klimt nel 1906, in seguito alla scissione dalla Secessione viennese. Nato nel 1912 sulla scorta dei recenti successi del gruppo klimtiano in Italia, il movimento romano propone, in alternativa alla Società Amatori e Cultori di Belle Arti, un aggiornamento culturale di livello europeo sull’esempio “modernista” della Secessione austriaca. L’unica opera inviata da Klimt era il Ritratto di Mäda Primavesi , esposto con quattro disegni di Egon Schiele e dipinti di artisti come Carl Moll, Emil Orlik, Bertold Löffler, Oskar Laske, Broncia Koller, Ferdinand Andri e Felix Albrecht Harta. In una seconda sala vengono proposte le sculture di Franz Barwig e Michael Powolny, e quattro vetrine con ceramiche, stoffe, ricami, sete, oggetti d’oro e d’argento. L’allestimento di Dagobert Peche, architetto e designer della Wiener Werkstätte, segue il principio della Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale), condiviso da molti artisti italiani che progettarono la decorazione degli ambienti espositivi: Vittorio Grassi, Aleardo Terzi, Enrico Lionne, Carlo Alberto Petrucci per le sale internazionali, Plinio Nomellini e Galileo Chini per la sala del gruppo della “Giovine Etruria”, Ferruccio Scandellari per quella dei bolognesi. L’esecuzione dei lavori viene affidata a Vincenzo Costantini e Gualtiero Gherardi, i mobili alla manifattura Spicciani.  Klimt viene inaspettatamente colpito da un ictus nel gennaio 1918, prima di compiere 56 anni, per le cui conseguenze sarebbe morto un mese dopo, diversi sono i dipinti che ha ancora in lavorazione, tra cui l’opera di grande formato La sposa. In alcune parti del quadro, come quella a sinistra, l’immagine era in gran parte completa, mentre altre parti mostrano ancora uno schema di colori approssimativo. È uno dei formati più grandi che Klimt abbia mai eseguito. Il tema è l’amore e il desiderio sensuale. Al centro c'è la sposa omonima, addormentata e avvolta in un abito blu. La testa del suo partner è accanto a lei. Il suo corpo è in gran parte nascosto da un gruppo di donne che, strette l’una all’altra, sembrano fluttuare in posizioni diverse. In parte nude, in parte vestite, illustrano ovviamente le sfaccettature delle esperienze erotiche di felicità a cui la sposa sembra abbandonarsi nel suo sonno beato. La forte colorazione del quadro e gli audaci contrasti di colore mostrano che l’opera è caratteristica della tarda fase creativa di Klimt. Una pennellatura dinamica è visibile anche nel Ritratto di Johanna Staude, che Klimt dipinge negli ultimi mesi prima della sua morte. Johanna Staude, nata Widlicka, è la modella di Klimt del tempo. L’incompleto Ritratto di dama in bianco, tuttavia, non può essere associato a nessuna persona specifica. Presumibilmente è uno di quei ritratti femminili idealizzanti che Klimt spesso faceva delle sue modelle nude. All’interno della mostra vi è un focus intitolato ‘Il capolavoro ritrovato’  ovvero ‘ Ritratto di signora’ Databile tra il 1916 e il 1917, il Ritratto di signora appartiene all’ultima fase di attività dell’artista. Tra le mete preferite da Klimt nei suoi frequenti viaggi in Italia vi sono Venezia e Ravenna, dove l’artista austriaco è affascinato da mosaici bizantini “di inaudito splendore”. L’amico Maximilian Lenz, che lo accompagna nel 1903, ricorda: “Per Klimt è il momento decisivo: i mosaici rutilanti d’oro delle chiese ravennati suscitano in lui un’impressione incredibile. Da allora in poi, il fasto e una certa rigida opulenza entrano nella sua arte”.  Nascono, così, i quadri del “periodo aureo”, che il critico Ludwig Hevesi definisce con una parola di sua invenzione: Malmosaik, pitto-mosaico. Questo nuovo “stile musivo” è esemplificato dalle due tele qui esposte, dove l’uso della foglia d’oro o di platino esalta la ricca decorazione degli sfondi, che tendono alla bidimensionalità e risplendono di particelle e piccoli motivi ornamentali simili a murrine o pietre preziose. Le figure umane appaiono ritagliate e incastonate all’interno di queste superfici fittamente decorate, conservando il senso del volume nei volti e nei corpi nudi, mentre i vestiti, come si può vedere nella Giuditta II, diventano a loro volta mosaici colorati. Questa immagine di scandalosa bellezza, incarnazione di seduzione e morte come altre celebri femmes fatales dell’arte simbolista, viene acquistata dal Comune di Venezia per la Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro. Nel 1911, a seguito dell’Esposizione Internazionale di Roma che ospitava una sala personale del maestro austriaco, il Ministero dell’Istruzione acquisisce Le tre età della donna: una rappresentazione, allo stesso tempo impietosa e profondamente poetica, del ciclo della vita. In Italia, fino al 1910, le occasioni di vedere la pittura di Klimt sono rare e passano quasi inosservate. Con le ventidue opere esposte nella sua sala personale alla IX Biennale, invece, questo “aristocratico innovatore dello stile” – come lo definirà Boccioni qualche anno dopo – provoca una fortissima e duratura impressione. La critica più conservatrice lo giudica decadente e incomprensibile, mentre gli artisti e gli intellettuali più aperti al nuovo riconoscono in lui un geniale precursore delle avanguardie. L’influsso klimtiano trova un terreno reso fertile dalle suggestioni simboliste che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, attraversano il panorama artistico italiano. Tra i pittori divisionisti, ad esempio, c’è chi si rivolge a temi ideali e al mondo dello spirito prediligendo toni sognanti, come Galileo Chini che, con Plinio Nomellini e Gaetano Previati, cura la decorazione della “Sala dell’Arte del Sogno” alla Biennale di Venezia del 1907. In questa occasione, l’artista presenta anche delle opere sul tema del mito di Icaro. Riferimenti all’arte simbolista europea si riconoscono anche nei bassorilievi di Leonardo Bistolfi e nella figura allungata e flessuosa della Fanciulla tra i gigli di Domenico Baccarini, esempio di quel gusto Liberty o floreale assai diffuso in quest’epoca. Mentre a Venezia luogo che lo aveva prima ispirato e poi accolto  è la città in cui la lezione di Klimt trova il terreno più fertile. Qui il suo linguaggio viene reinterpretato in un fondersi di antiche suggestioni e ricerca di una nascente modernità da Vittorio Zecchin, artista e artigiano di origini muranesi, figlio di un maestro vetraio. Il suo lavoro spazia dalla pittura alla creazione di mobili, arazzi, mosaici, pizzi e vetri, con una vocazione all’opera d’arte totale particolarmente vicina al gusto delle Secessioni.  Affascinato dal misticismo esotico di JanToorop, simbolista belga che espone alla Biennale del 1905, e dal decorativismo di Klimt, Zecchin rappresenta un immaginario onirico, fiabesco e orientaleggiante che trasforma la città lagunare in un luogo di sogni e incanti. Nel 1914 realizza un grandioso ciclo pittorico per l’Hotel Terminus di Venezia che ha per tema uno dei racconti delle Mille e una notte, dove rappresenta il fastoso corteo nuziale della principessa promessa sposa di Aladino. La processione di ancelle e guerrieri si sviluppava, originariamente, in dodici pannelli per una lunghezza di ben ventidue metri, scandita da figure elegantemente allungate, vestite con tessuti decorati da motivi a rosoni con dorature in rilievo. L’artista veneziano interpreta questo mondo fiabesco con un linguaggio che accentua la bidimensionalità e il carattere ornamentale dello stile secessionista e, al contempo, trova le sue radici nelle vetrate antiche e nei mosaici bizantini.  Posso dire che come Zecchin, Chini è un artista eclettico  pittore, ceramista, decoratore impegnato ad annullare i confini tra le arti, in sintonia con lo spirito delle Secessioni. Nel 1896 fonda, in Toscana, la manifattura “Arte della ceramica” e, nel 1906, le “Fornaci di San Lorenzo”, dalle quali escono oggetti che intrecciano le suggestioni preraffaellite e Liberty con i riferimenti all’antico e, in seguito, interpretano magistralmente il nuovo gusto Art Déco. L’artista è presente alle Biennali veneziane fin dai primi anni del secolo, anche in veste di decoratore di alcune sale. Nel 1914, dopo aver trascorso due anni a Bangkok su invito del re del Siam, che lo aveva chiamato a decorare il Palazzo del Trono, Chini dipinge un ciclo formato da diciotto grandi tele sul tema della primavera che perennemente si rinnova. Un soggetto che nell’arte della Secessione viennese ha un ruolo centrale, come testimonia la pubblicazione della rivista Ver Sacrum, dove la “primavera sacra” è simbolo della rinascita delle arti. In questi dipinti di abbagliante suggestione visiva, l’influsso di Klimt è particolarmente evidente nella profusione di motivi ornamentali che alternano forme circolari e triangolari, all’interno di cascate di fiori simili a murrine veneziane, nonché nella composizione verticale delle figure. Esse scorrono con un moto ascensionale accanto al fluire delle decorazioni, la cui straordinaria ricchezza si spiega, anche, con le impressioni ricavate dal soggiorno in Oriente dell’artista. Nei territori che, fino al 1918, hanno fatto parte dell’Impero austroungarico il rapporto con le Secessioni è, naturalmente, più stretto. Ai confini dell’impero gli artisti assorbono una cultura che oscilla tra germanesimo e latinità e possono scegliere se studiare nelle Accademie di Milano e Venezia oppure rivolgersi a quelle di Monaco e Vienna.  A Trieste, i cugini Piero e Guido Marussig optano per l’ambiente veneziano, mentre Viktor von Thümmel, che in seguito italianizza il suo nome in Vito Timmel, si forma a Vienna. La sua pittura rivela l’intensa fascinazione delle sensuali figure femminili klimtiane, come si può vedere nella tela intitolata Gli infelici (Gli eroi), caratterizzata da figure incastonate tra geometrie dorate, arabeschi floreali e tessuti preziosi, e in Fochi, un dipinto animato da un vortice di fuochi d’artificio dal sapore quasi futurista. L’artista trentino Luigi Bonazza frequenta la Kunstgewerbeschule di Vienna tra il 1898 e il 1901, sotto la guida di Franz von Matsch, socio dei fratelli Klimt in numerose imprese decorative. Sono gli anni in cui si impone il nuovo linguaggio Jugendstil e il gusto della Secessione, e la pittura di Bonazza ne assorbe gli stimoli affrontando soggetti legati al sogno, al mito e all’allegoria. La leggenda di Orfeo, realizzata a Vienna nel 1905 è, infatti, un’opera compiutamente secessionista, nella raffigurazione sospesa tra amore e morte, tra spirito apollineo e dionisiaco, nella struttura tripartita e nella preziosa cornice decorata in ottone e avorio con i simboli della Poesia e della Musica. La tendenza all’arte totale, principio fondante della WienerWerkstätte, troverà piena espressione nella decorazione della casa di Bonazza a Trento, dove il tema di Orfeo, caro a molti artisti di inizio secolo, ritorna in visioni notturne influenzate dalla poesia di d’Annunzio. All’inizio del Novecento, dopo essere stato donato al Comune di Venezia dalla duchessa Bevilacqua La Masa, Palazzo Pesaro diventa sede della Galleria d’Arte Moderna diretta da Nino Barbantini, che ne fa un centro di produzione ed esposizione all’avanguardia. Ca’ Pesaro ha un ruolo importante nel favorire l’incontro tra i giovani talenti italiani e il panorama artistico internazionale, divenendo un’alternativa al clima culturale più tradizionalista delle Biennali. In questa sede espongono artisti che guardano con particolare attenzione al contesto mitteleuropeo, come Teodoro Wolf Ferrari che aveva frequentato la Secessione di Monaco. Questo interesse è rafforzato dall’eco suscitata dalla presenza di Klimt alla Biennale, che in quell’occasione aveva esposto un certo numero di paesaggi dalle affascinanti tessiture cromatiche. Queste opere stimolano il rinnovamento della pittura di paesaggio di Garbari, Marussig e Wolf Ferrari: salici, betulle, specchi d’acqua – soggetti cari al maestro viennese –  sono protagonisti di vedute che tendono alla bidimensionalità, dove la lezione secessionista si fonde con influssi francesi e un gusto japoniste ampiamente diffuso nell’arte tra Ottocento e Novecento. Poi in seguito espone a Ca’ Pesaro anche Felice Casorati in una delle stagioni più felici dei suoi anni di formazione, prima di approdare alle mature interpretazioni delle poetiche del ritorno all’ordine e di un Realismo magico pervaso di silenzi e incanti. Negli anni trascorsi a Verona, tra il 1911 e il 1915, l’artista piemontese interpreta in maniera originale lo stile secessionista, superando quello tardo-ottocentesco dei suoi esordi e giungendo a un linguaggio rarefatto, di intensa spiritualità, di cui La preghiera è un perfetto esempio. “Sono diventato un visionario, un sognatore e non dipingo più che le immagini che vedo nei sogni: le notti stellate, gli esseri invisibili, gli spiriti puri, le allucinazioni” scrive l’artista nel 1913, in una lettera a un’amica. In questi anni Casorati frequenta con assiduità gli artisti veronesi Attilio e Guido Trentini. Rinomato decoratore, formatosi a Monaco, Attilio realizza, nella dimensione ridotta di tempere su carta, vivaci e preziose composizioni. Alla decorazione di gusto klimtiano fa riferimento anche il figlio Guido, talvolta con puntuali citazioni come nella Fanciulla sommersa concepita come testiera di letto – dove le linee ondulate rimandano ad analoghi motivi del, eseguito da Klimt nel 1902 nel Palazzo della Secessione di Vienna. È unanimemente riconosciuto dalla critica che le scintille del rinnovamento in chiave moderna della scultura del Novecento italiano vadano rintracciate nella produzione plastica di alcuni scultori già attivi nell’ultimo quarto del XIX secolo. Le novità apportate in questo campo da Medardo Rosso e da Leonardo Bistolfi furono fonte di ispirazione per più generazioni di scultori attivi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Sia Rosso che Bistolfi, infatti, sebbene con risultati diversi, indirizzarono la propria ricerca verso una nuova concezione dello spazio della scultura, dove la figura non fosse più concepita isolata dall’ambiente circostante ma ‘immersa’ in esso e in stretto dialogo con il fruitore. Il primo giunse a questi risultati attraverso un modellato scabro, sensibile agli effetti luministici, in cui la materia, preferibilmente cera o argilla, veniva lavorata con le mani e lasciata allo stato di abbozzo. Il secondo invece puntò a una accentuazione della linea curva di ascendenza liberty, per modellare figure che si inserivano nello spazio attraverso un movimento sinuoso e grande naturalezza. Entrambi gli artisti si mossero sull’onda dell’idea di rinnovamento che caratterizzò le arti europee di fine Ottocento, in aperta polemica con gli stilemi accademici. In questo contesto la scultura trovò, rispetto alla pittura, più difficoltà nell’attuare questo processo di trasformazione essendo legata, per sua natura, a una materia dura e pesante come il marmo e il bronzo. Per tali motivi Medardo Rosso preferì modellare le sue opere con l’argilla e soprattutto con la cera, materia, quest’ultima, tenera e traslucida, particolarmente adatta a fermare quell’impressione momentanea e fuggevole, tipica della sua produzione artistica, come si nota nell’opera La portinaia (1883-1884). Nelle opere di Rosso il riferimento al dato concreto e la ricerca di realismo si espletano nella fusione della figura con l’atmosfera, attraverso una sorta di abolizione dei contorni. L’autore stesso affermava che: “Nulla è materiale nello spazio. La luce è essenza stessa della nostra esistenza. Noi non siamo che scherzi di luce. La materia non esiste” , per questo motivo le immagini ci appaiono come improvvise e fuggevoli apparizioni ottenute da un modellato sensibile agli effetti luministici. Fu sempre Rosso ad affermare: “quello che importa in arte è far dimenticare la materia ”. La portata innovatrice della plastica rossiana non passò inosservata neanche ad Umberto Boccioni, il più radicale promotore del processo di rinnovamento della scultura italiana di inizio Novecento. Egli, infatti, nel Manifesto tecnico della scultura futurista, pubblicato a Milano l’11 aprile 1912, lodò l’attività dello scultore torinese: “Poiché nell’opera di rinnovamento non basta credere con fervore, ma occorre propugnare e determinare qualche norma che segni una strada. Alludo al genio di Medardo Rosso, a un italiano, al solo grande scultore moderno che abbia tentato di aprire alla scultura un campo più vasto, di rendere con la plastica le influenze d’un ambiente e i legami atmosferici che lo avvincono al soggetto ”. Boccioni, però, per quanto vedesse in Rosso un innovatore ne riconosceva anche i limiti: “Purtroppo le necessità impressionistiche del tentativo hanno limitato le ricerche di Rosso ad una specie di alto o bassorilievo, la qual cosa dimostra che la figura è ancora concepita come mondo a sé, con base tradizionale e scopi episodici. La rivoluzione di Medardo Rosso, per quanto importantissima, parte da un concetto esteriormente pittorico, trascura il problema d’una nuova costruzione dei piani e il tocco sensuale del pollice che imita la leggerezza della pennellata impressionista, dà un senso di vivace immediatezza, ma obbliga all’esecuzione rapida del vero e toglie all’opera d’arte il suo carattere di creazione universale. Ha quindi gli stessi pregi e difetti dell’impressionismo pittorico, dalle cui ricerche parte la nostra rivoluzione estetica la quale, continuandone, se ne allontana fino all’estremo opposto10”. Da queste premesse partirà la ricerca plastica di Boccioni che giungerà in breve tempo a risultati straordinari. Partendo dall’assioma di Rosso che: “La natura non ha limiti” e “L’opera d’arte deve far dimenticare la materia, perciò è impossibile racchiudere una scultura entro linee”, Boccioni affermò nel suo Manifesto: “proclamiamo l’assoluta e completa abolizione della linea finita e della statua chiusa. Spalanchiamo la figura e chiudiamo in essa l’ambiente”. È in quest’ambito di ricerca che nascono le sue prime opere plastiche come Testa + casa + luce (1912), Sviluppo di una bottiglia nello spazio (1912), dove l’autore mette in pratica la sua idea di compenetrazione dei piani già sperimentata in pittura. Egli inoltre spinse le sue ricerche anche nell’utilizzo di materiali nuovi e insoliti nel campo della scultura come in Fusione di una testa con una finestra (1913), dove il mezzo busto femminile, realizzato in gesso, è caratterizzato nel viso da un occhio di vetro e da veri capelli e presenta al centro della testa una putrella di finestra, in consonanza a quella sua idea di compenetrazione degli spazi. La scultura realizzata attraverso l’assemblaggio di materiali non convenzionali si caratterizza per una rottura radicale della concezione classica e trova i suoi precedenti nei collage polimaterici di Picasso realizzati a partire dal 1912 e in generale nell’ambito delle sperimentazioni tridimensionali cubiste. Prima ancora di Boccioni è Picasso a mettere in discussione il procedimento tradizionale di realizzazione di una scultura che concepì, in primo luogo, dall’annullamento dell’idea di opera come modellazione di un solido corpo plastico pieno, e, in secondo luogo, attraverso l’utilizzo di materiali estranei alla statuaria, come la carta, il cartone, la stoffa e la plastica. Con Forme uniche nella continuità dello spazio (1913) Boccioni realizzò una delle sculture più famose del Novecento e sicuramente la più dirompente dell’inizio di quel secolo. Lo scopo dell’autore fu quello di rendere in scultura la deformazione di un corpo umano in movimento attraverso una forma stilizzata al limite della riconoscibilità, capace di trasmettere una grande sensazione di forza e di potenza. La statua divenne il simbolo stesso dell’uomo futuro, così come lo avevano immaginato i futuristi. Sia Forme uniche nella continuità dello spazio che Sviluppo di una bottiglia nello spazio si caratterizzano da linee-forza che, sebbene di vaga ascendenza liberty, si dipartono nette e scandite dal nucleo centrale dell’immagine prolungandone l’energia nello spazio circostante fino a coinvolgerlo per poi ritornare al nucleo generante, in un continuo moto centrifugo e centripeto. Il 1912 segna non solo l’anno della pubblicazione del Manifesto tecnico della scultura futurista e della realizzazione da parte di Boccioni delle sue prime sculture rivoluzionarie ma è anche l’anno del rientro in Italia, dopo un lungo periodo di soggiorno in Germania, dello scultore Adolfo Wildt. Gli anni che egli visse nella grande villa di Doehhlau di proprietà di Franz Rose, suo mecenate, dal 1894 al 1912, furono fondamentali per la sua formazione. In quell’ambito culturale, infatti Wildt arricchì la propria visione artistica, di base fortemente classica, con nuove e stimolanti influenze di stampo liberty mitteleuropeo, secessioniste, simboliste ed espressioniste che lo condussero all’elaborazione di uno linguaggio figurativo unico e inconfondibile, al di fuori di ogni etichetta o di collocazione di corrente. Senza alcun dubbio Wildt rappresentò in Italia, negli stessi anni, un polo di ricerca plastica alternativo rispetto a quello capeggiato da Boccioni. I due artisti elaborarono due concezioni della scultura assolutamente divergenti. Si trovarono accomunati solo su due punti rappresentati dalla violenta negazione della scultura di matrice accademica e dal rigetto della produzione tardo-romantica, anche nelle declinazioni postscapigliate e realiste. Il rifiuto, inoltre, da parte di Wildt delle tendenze impressioniste in scultura implicava anche quello della produzione di Medardo Rosso di cui Boccioni, invece, si era fortemente nutrito. Per Wildt la scultura doveva essere orientata verso una “ricostruzione” che restituisse all’opera una sacralità e un’eloquenza nuove, contrariamente a Boccioni per cui la scultura doveva tendere verso una “distruzione” della forma quale principio di un nuovo dinamismo plastico. Se con Boccioni la scultura giunse a una sintesi dell’immagine ottenuta dalla compenetrazione della figura con lo spazio circostante, con Wildt la scultura giunse a risultati di grande raffinatezza ottenuti attraverso l’armonia delle forme e il perfetto equilibrio fra pieni e vuoti. Egli fu, infatti, un grande esperto nella lavorazione del marmo, dal quale riusciva ad ottenere effetto di straordinaria e inconsueta leggerezza, rovesciando così la tradizionale idea di pesantezza della materia. Anche sull’idea di polimaterialismo i due scultori si trovarono su posizioni diverse. Per Boccioni la combinazione di diversi materiali, a volte insoliti come il cartone o del crine, rientrava nella sua idea di scultura moderna quale specchio di una cultura oramai slegata da quella antica, per Wildt, invece, l’inserimento di parti in bronzo su opere in marmo trovava i suoi precedenti nella statuaria rinascimentale, così come la doratura del marmo risaliva a Bernini e a quell’idea di mistificazione dei materiali praticata in età barocca. Da ciò risulta chiaro che se per il primo il passato storico andava superato, per il secondo diventava fonte di ispirazione e di rielaborazione. Sebbene la critica odierna riconosca l’alto valore artistico del lavoro di entrambi bisogna ricordare che essi operarono all’interno di un clima culturale ‘borghese’ fortemente legato ai canoni accademici o a quelle tendenze che stancamente ripetevano stilemi di gusto tardo-realista o di un moderato liberty. La maggior parte degli scultori attivi nella prima metà del XX secolo, infatti, perseguiva la strada di una figurazione realizzata attraverso tecniche e materiali tradizionali. Ripercorrendo gli scritti critici che accompagnarono le varie esposizioni sia locali che nazionali almeno fino agli Venti, si evince che l’orientamento della scultura oscillava dai rimandi tardo-impressionisti a quelli tardo-simbolisti e liberty con sporadiche aperture avanguardiste. La critica sottolineava la presenza di influenze rossiane e bistolfiane, il persistere, quindi, di un gusto ancora ottocentesco nella plastica dell’epoca. Il motivo di tale attaccamento alla tradizione scultorea può essere rintracciato in due aspetti: da una parte la metodologia per l’insegnamento della scultura, intesa come disciplina di studi all’interno delle Accademie di Belle Arti, improntata sull’analisi dei valori tradizionali; dall’altro il ruolo fondamentale del mercato, orientato verso la promozione di ritratti e di statuine da salotto di gusto bozzettistico o folkloristico che rispondeva alle esigenze di gusto della committenza, in larga parte, borghese. Oggi la critica riconosce a Boccioni e a Wildt una posizione assolutamente centrale nel processo di rinnovamento del linguaggio plastico in Italia di inizio Novecento. Riflessi delle teorie di Boccioni si possono rintracciare sia nella produzione scultorea che nei programmi di alcuni artisti, come Fortunato Depero ed Enrico Prampolini. Boccioni fu inoltre il precursore di una concezione ambientale della scultura e il primo teorizzatore di opere polimateriche e anche cinetiche, due aspetti questi che furono molto indagati da Depero, come egli stesso affermò nel testo programmatico Ricostruzione futurista dell’universo, che con Balla firmò l’11 marzo 1915: “Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare complessi plastici che metteremo in moto”. Così come la ricerca del movimento in scultura fu anni dopo oggetto di riflessione e attuazione da parte dei gruppi ottico-cinetici. Con Boccioni sicuramente si dà avvio in Italia alla nascita di un linguaggio plastico moderno, inteso come totale distacco dai canoni accademici della statuaria e della ritrattistica. Boccioni per primo innescò il meccanismo del cambiamento che condusse sulla via della sperimentazione di nuovi materiali e di un rinnovato rapporto tra forma e spazio, che avrà larga eco su molte generazioni di artisti italiani. Riflessi, invece, delle teorie di Wildt si possono rintracciare in due suoi illustri allievi: Fausto Melotti e Lucio Fontana. Si è visto come il rapporto fra pieni e vuoti nella plastica wildtiana giunga a capovolgersi. Il vuoto in alcune sue opere sembra prendere il sopravvento sul pieno, facendo in questo modo apparire la figura come leggera. In alcuni lavori di Wildt gli occhi appaiono cavi mostrandoci in questo modo lo spazio interno dell’opera. Tutto ciò riporta alla mente la leggerezza della scultura astratta di Fontana sino all’operazione dei buchi e dei tagli, ma anche ai gessi sospesi, alle bande o ai riccioli di Melotti. Infine posso dire :  “ con quelle applicazioni di stelle, di croci dorate si potrebbe dire che Wildt è un po’ il Klimt della scultura e i disegni, con la loro esilità e astrazione lineare, danno il punto di inserzione per giustificare questo ravvicinamento”: così scrive Antonio Maraini nel 1922, recensendo le opere di Adolfo Wildt alla Biennale di Venezia. Animato da una spiritualità profonda e inquieta, lo scultore milanese dà vita a una ricerca di grande originalità, dove convivono un’antica sapienza nella lavorazione del marmo, l’amore per i maestri dell’arte gotica, barocca e neoclassica e una tendenza espressionista e decorativa di chiara ispirazione secessionista. Grazie al contratto esclusivo che, per diciotto anni, lo lega al mecenate prussiano Franz Rose, l’artista frequenta assiduamente la Germania, assorbendo suggestioni del mondo nordico. L’influsso di Klimt è particolarmente evidente nella produzione grafica, caratterizzata da figure di eterea bellezza ambientate in spazi rarefatti, attraversati da motivi decorativi di stelle, croci e volute. Motivi che ritroviamo anche in alcune sculture dove, tuttavia, l’oro assume un significato diverso rispetto all’arte del maestro viennese. Se in Klimt la preziosità di questo materiale è una sorta di “inno alla gioia”, alla felicità dell’arte e al trionfo della sensualità, in Wildt, invece, è simbolo di santità, proprio come nella tradizione più antica dell’arte cristiana. L’influenza della Secessione viennese si avverte anche in altri ambiti regionali. In Emilia, dove predomina ancora uno stile decorativo ispirato all’arte ottocentesca di stampo preraffaelita, si distingue il lavoro di Amedeo Bocchi per la Cassa di Risparmio di Pama. Qui l’artista rielabora le suggestioni ricavate dalla visione delle opere di Klimt per decorare la Sala consiliare, interpretando i temi suggeriti dalla committenza: il Risparmio, la Protezione e la Ricchezza. Tra il 1915 e il 1917, Bocchi realizza uno dei suoi capolavori in un stile raffinatissimo, sospeso tra Liberty e Art Déco, frutto di una concezione unitaria dell’ambiente dove pittura e arredi si integrano perfettamente. Verso gli anni Venti, infatti, il linguaggio klimtiano sfocia nel gusto Art Déco, che esalta il culto per la decorazione e la geometrizzazione tipico della Secessione. Al clima Art Déco appartengono, ormai pienamente, gli arazzi disegnati da un altro artista emiliano, Francesco Dal Pozzo e le ceramiche del faentino Francesco Nonni.  In alcuni ritratti di quest’epoca, infine, si riconoscono echi dei celebri soggetti femminili di Klimt, come nel dipinto di Arturo Noci, dove la sorella dodicenne di Roberto Rossellini posa in modo simile a MadaPrimavesi, ritratta dal maestro viennese nel 1913.
 
 
 
 
 
MART- Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto
Klimt e l’Arte Italiana
dal 16 Marzo 2023 al 18 Giugno 2023
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 21.00
 
Lunedì Chiuso