Giovanni Cardone Agosto 2022
Fino al 7 Gennaio 2023 si potrà ammirare la mostra al Museo di Capodimonte Napoli Oltre Caravaggio. Un nuovo racconto della pittura a Napoli a cura di Stefano Causa e Patrizia Piscitello la mostra si sviluppa nelle ventiquattro sale del secondo piano del Museo e di Capodimonte , in esposizione duecento opere provenienti tutte dalle collezioni permanenti del museo, senza prestiti esterni. Una mostra, realizzata in collaborazione con le associazioni Amici di Capodimonte Ets e American Friends of Capodimonte, che si propone di rilanciare il dibattito presentando un’altra lettura del Seicento napoletano, diventato per amatori e storici il secolo di Caravaggio. Il Seicento napoletano è una ‘invenzione’ recente. È stato riscoperto e definito meno di un secolo fa dallo storico d’arte Roberto Longhi . Secondo lo studioso, il naturalismo di Caravaggio sarebbe la spina dorsale dell’arte napoletana. Gli studi seicenteschi sul Sud derivano, quasi senza eccezione, dalle sue proposte formulate in una serie di saggi che sono stati pubblicati essenzialmente nel secondo decennio del secolo scorso.
Dall’inaugurazione della Pinacoteca di Capodimonte nel 1957 fino ad ora, l’esposizione dei dipinti del ’600 napoletano è stata in gran parte il risultato di quest’analisi. La realtà è più complessa e i curatori della mostra, Stefano Causa e Patrizia Piscitello, sulla base degli studi degli ultimi decenni, propongono di riconsiderare lo schema di Longhi, ormai ampiamente storicizzato, e di ripensare l’intera articolazione di un secolo che non fu solo quello di Caravaggio, ma soprattutto quello di Jusepe de Ribera, uno spagnolo arrivato a Napoli nel 1616, sei anni dopo la morte di Caravaggio. La mostra “Oltre Caravaggio” porta Ribera, rappresentato nelle collezioni di Capodimonte da opere sacre, mitologiche e nature morte, al centro della scena artistica napoletana. Presentare la civiltà artistica napoletana vuol dire mettere in giusto risalto gli apporti esterni e gli scambi con gli altri centri, l’invio da fuori di opere e progetti, la residenza in città degli artisti ‘forestieri’. Napoli, infatti, era ed è una grande città portuale, crocevia della vita e della cultura italiana. Nel XVII secolo era diventata una delle megalopoli più popolose del mondo esercitando una profonda influenza sulla cultura europea; la sua storia si presenta come una ricca stratigrafia, fatta di diverse civiltà, popoli e espressioni artistiche che hanno lasciato tracce nel patrimonio artistico e monumentale. Per secoli ha subito attacchi, invasioni e distruzioni, facendo fronte a numerose catastrofi naturali: eruzioni vulcaniche, terremoti, maremoti e pestilenze. In quest’ottica si può spiegare il ruolo centrale che hanno in questa rassegna, dedicata al XVII e XVIII secolo, lombardi come Caravaggio , emiliani come Giovanni Lanfranco , Domenichino e Guido Reni , lo spagnolo ma napoletano d’adozione Jusepe de Ribera, i francesi Simon Vouet e Pierre-Jacques Volaire , il bergamasco Cosimo Fanzago , i romani Artemisia Gentileschi e Gregorio Guglielmi , il belga François Duquesnoy , che aveva collaborato all’altare per il cardinale Ascanio Filomarino nella chiesa dei Santi Apostoli, imponente macchina realizzata tra il 1638 e il 1647 dall’architetto Francesco Borromini, tra i principali esponenti del barocco romano. Gli artisti napoletani traevano ispirazione da questi apporti, rielaborando in maniera del tutto personale iconografie, tagli compositivi e utilizzo delle luci, esportando il loro linguaggio in Italia e in Europa. Un esempio tra tutti è Luca Giordano , che, campione della pittura barocca napoletana, viene chiamato a Venezia , a Firenze e in Spagna lasciando traccia sui pittori locali. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla pittura a Napoli nel dopo Caravaggio apro il mio saggio dicendo : In pieno agosto ho visto sia la mostra su Battistello Caracciolo e questa meravigliosa che descrive la Napoli spagnola del Seicento che è in contatto diretto con Roma.
Con la morte di Sisto V si fermano i lavori della riforma urbanistica romana, Domenico Fontana tracciando una nuova strada lungo la marina e allargando alcune arterie del vecchio centro guida l'espansione della città verso il mare e la mette in rapporto col suo ambiente paesistico naturale. L'artista che determina il volto barocco della città è il bergamasco Cosimo Fazago , la cui attività vastissima ma spesso ridotta a interventi parziali in chiese e palazzi segna piuttosto una riforma del gusto che l'instaurazione di una nuova concezione dello spazio architettonico. Non c'è, come a Roma, un problema ideologico di fondo, la volontà di dare un significato profondo alla forma urbana, di caratterizzarla con il prestigio degli antichi e dei nuovi monumenti. Lo sviluppo della cultura figurativa barocca si innesta sulla tradizione cinquecentesca e manieristica: ciò che da un lato lo limita e dall'altro gli apre infinite possibilità di soluzioni occasionali, spesso improvvisate, talvolta felici, specialmente nella tipologia planimetrica delle chiese. Il Fanzago fu pure scultore e, come tale, ottimo ritrattista: lo si vede anche nel grande busto d'argento di San Bruno nella Certosa di San Martino dove lavorò come architetto e dov'è il meglio della sua scultura d'una intensità plastica e luministica che lo avvicina alla pittura contemporanea, specialmente del Ribera. Delle scuole pittoriche del Seicento la napoletana è, dopo quella di Roma, la più importante. Ne dipende, in gran parte, anche per i vari artisti che, come Domenichino e il Lanfranco, giungono da Roma. Il passaggio più sensazionale è certamente quello del Caravaggio che, nel suo doppio soggiorno partenopeo che va dal 1607 al 1610 lascia a Napoli un numero consistente di opere, tra cui la Flagellazione e le Sette opere di misericordia entrambe pagate nel 1607. La sua lezione luministica è sùbito raccolta da Battistello Caracciolo che già nel 1615 dipinge, per il Pio Monte, San Pietro liberato dal carcere, dando un'interpretazione del Caravaggio c he sarà fondamentale per lo sviluppo della cultura napoletana. La luce non estrae dalle tenebre l'historia senza azione, il flagrante dramma della realtà che la coscienza rivela; rende incandescente, abbagliante, il bianco della veste dell'angelo, fa brillare l'elmo del soldato, suscita un'ombra che serve a tornire i volumi, a renderli turgidi, quasi scultorei, come nelle contemporanee nature morte di Luca Forte. Si spiega: non esiste a Napoli una tensione tra la tradizione manierista e le correnti rinnovatrici, e il Caravaggio stesso, nel 1607, aveva da tempo superato la fase della polemica antimanieristica. L'incontro con il Caravaggio non determina dunque, nel Battistello, una brusca conversione, ma un approfondimento e un arricchimento della sua cultura essenzialmente disegnativa. Un segno incisivo, analitico, seguita a spezzare i contorni, a precisare l'andamento dei piani. La luce caravaggesca si rifrange così ai limiti delle forme, lungo le diverse pendenze del modellato; ed alle sue variazioni corrispondono quelle delle ombre. Non rivela la cruda, incontestabile presenza del reale; anzi dà alla figur azione, con la singolarità dei suoi effetti, un senso di mistero, di vita sospesa. È dunque l'iniziatore di una tendenza poetica, che non contraddice neanche quando, come negli affreschi più tardi, quasi ritorna alla sua prima educazione manierista, sia pure rinforzata dalla conoscenza della "riformata" pittura fiorentina e dei carracceschi. A suscitare per reazione questa inclinazione poetica concorse probabilmente la ricerca opposta, realistica, del valenziano Jusepe De Ribera formatosi a Roma tra il primo e il secondo decennio del secolo, si trasferisce, nel 1616, a Napoli. Dipinge, ancora a Roma, la serie dei cinque sensi, recentemente ricostruita dal Longhi con l'aiuto di alcune copie: si serve del lume caravaggesco per mettere a nudo il lato fisico, carnale, delle cose. Nel Gusto, la luce fredda, avvolgente, incide le pieghe del giubbotto troppo stretto, dà risalto alla faccia un po' stupida del personaggio, rivela la cosalità degli oggetti sul tavolo. Forse con intento polemico rifà, per un colto collezionista e mercante d'arte di Napoli, Gaspare Roomer, una scena antica, derivandola da un bassorilievo ellenistico; mostra di conoscere la cultura classica e i suoi significati reconditi; firmandola, si vanta accademico romano, ma anche l'antichità diventa una sguaiata scena di ebbrezza che si svolge in uno spazio ristretto, tra botti di vino, il sileno ebbro dalla grande pancia un po' ributtante è quasi ridimensionalmente appiattito dalla luce frontale. Non meraviglia che si dedichi, nella città di Della Porta, all'analisi fisiognomica; ma si tratta di una ricerca sperimentale dettata dalla curiosità per la varietà del naturale, trascritto a mo' di esempio, non rifuggendo anzi compiacendosene dal grottesco, dal deforme, dall'orrendo. Altro che ideale classicistico: i filosofi antichi sono raffigurati come straccioni e vagabondi, gli apostoli come vecchi dalla pelle flaccida, grinzosa; i martiri, poi, sono dei poveretti torturati nel modo più efficace possibile efficace, naturalmente, dal punto di vista dell'effetto pietistico. Il senso della polemica è scoperto: non c'è ideale che riscatti la volgarità, la bestialità umana. Il suo realismo non è affronto diretto del reale; è soltanto l'opposto dell'ideale. Si capisce quindi come più tardi, a partire dal quarto decennio, possa cambiare il senso della ricerca, volgendolo dal brutto al bello: e si avrà la entusiasmante libertà cromatica, la gioia della pittura come poesia pura dei dipinti mitologici, dai colori spiegati, dalla luce tersa, che gioca, impreziosendola, sulla materia. Poesia e realismo, lirismo e commedia, ispirazione colta e ispirazione popolare rimangono i temi, talvolta intrecciati, della pittura napoletana del Seicento. Accanto alla storia-poesia fiorisce infatti il "genere": pittori di "lazzaroni" e di vagabondi, come Micco Spadaro , di battaglie, come Aniello Falcone. Anche nella fiorente produz ione di "nature morte" - fiori, frutta, pesci, interni di cucina, bodegones ricolmi di cibi - si possono distinguere due filoni, tuttavia mai drasticamente separabili: un senso di partecipazione emotiva alla dolente realtà delle cose, più lirico in Giuseppe Recco , di maggior impegno naturalistico e drammatico in Giovan Battista Ruoppolo e Giovan Battista Recco, e uno scenografico, tripudiante decoratismo barocco, che ha in Paolo Porpora il suo massimo rappresentante. La tendenza naturalistica ha un esponente di levatura europea, tra Velazquez e Le Nain, in un anonimo pittore, chiamato il Mastro Dell'Annuncio ai Pastori Napoli, secondo quarto del XVII secolo, dal tema che spesso ripete nei suoi dipinti: in quello di Capodimonte, la serrata struttura compositiva è determinata da rette diagonali, verticali, orizzontali, che si incrociano e si spezzano: lo spazio affollato, ma senza alcuna profondità, è un mondo di cose indagate a fondo nella loro effettiva presenza visiva e sensoriale: anche la luce non ha altra funzione che svelare, traendone raffinatissimi effetti cromatici, la lanosità del vello delle pecore, la pesantezza delle stoffe vestite dai pastori e del sacco incastrato al centro della composizione, il segno della materia di ciascuno degli oggetti partecipanti all'insieme. Il passaggio del ligure G. B. Castiglione proveniente da Roma, dove è in contatto con Testa e Mola e la lunga permanenza di Artemisia Gentileschi rafforzano la tendenza alla pittura-poesia: ad una poesia che nasce da una ferita dell'anima, da un'esperienza da cui ci si ritrae dolenti. Eros e pathos sono i motivi dominanti nella pittura di Massimo Stanzione il "Guido napoletano", vero contraltare del Ribera, e di Andrea Vaccaro .
Non già il furor caravaggesco con le sue gravi ragioni morali; ma una pittura appassionata, che non vuol sorprendere, dimostrare, ma toccare il cuore: anche con le accentuazioni patetiche, i trasalimenti, le note cupe e strazianti del colore. Al vertice di ques ta tendenza è Bernardo Cavallino, l'interprete più sottile dell'ambigua poetica di Artemisia, il pittore-letterato che si ispira alla sofferta poesia del Tasso. Il luminismo, in lui, è un'illuminazione innaturale, un raggio che estenua, quasi distrugge le figure, risparmiando soltanto la grazia neo-manieristica delle mosse, i riflessi delle stoffe, i pallori o i rossori improvvisi dei volti: così come nel melodramma, alla cui forma più alta può accostarsi la sua pittura, la vicenda e la figura stessa del personaggio si dissolvono all'arabesco prezioso del canto. Un impulso nuovo, che la riscatta dall'eccesso del patetico e del melodico, imprimono, alla scuola napoletana dopo la peste del 1656, due grandi artisti, Mattia Preti e Luca Giordano. Il primo, calabrese, già nel 1630 è a Roma, dove frequenta l'ambiente caravaggesco; più tardi è in Emilia, poi a Venezia. La base della sua cultura è la pittura larga, d'effetto, del Guercino e del Lanfranco; ma la sorgente da cui trae l'impeto drammatico delle grandi composizioni, l'ampiezza dei suoi scenari percorsi da correnti e lampeggiamenti di luce è, chiaramente, la pittura veneta del Tintoretto e del Veronese. Nel 1656, è a Napoli, dove incontra il giovane, ma già affermato astro nascente della pittura napoletana, Luca Giordano. Nei bozzetti per i distrutti affreschi votivi dipinti sulle porte della città per la fine della pestilenza, Mattia Preti sfodera tutto il suo repertorio, dai ricordi caravaggeschi i morti, dal corpo livido, in primo piano al Guercino, e attraverso di lui i veneti, e ancora la contemporanea pittura romana, per costruire una composizione teatrale, consapevolmente drammatica. Nella decorazione di San Pietro a Maiella, sfoggia la sua visione in grande, al posto di affreschi incassa tele nel soffitto fastosamente adorno, perché la pittura non rinunci al brillante colore ad olio e alle spavalde pennellate a corpo. Le esigenze della decorazione lo portano a ridurre gli scuri e a rialzare le gamme dei colori, facendo prevalere l'elemento veronesiano sul tintorettesco, ma non può contrastare, su questa strada, il crescente successo del più giovane Luca Giordano. Nel 1661, sconfitto, parte per Malta, dove, senza rivali, continuerà, fino allo scadere del secolo, la sua pittura raffinata, colta, rimuginando dentro sé tutta la pittura del Seicento, producendo ancora brillantissimi capolavori come la decorazione ad olio su muro nella volta della cattedrale di La Valletta. Come Preti, anche Luca Giordano predilige i veneti; come Preti, si forma, sia pure attraverso Ribera, sul realismo caravaggesco; conosce i bolognesi, e in particolare Lanfranco; ama Pietro da Cortona, e la sua spiegata decorazione: lo scontro non è quindi tra due riferimenti culturali diversi, ma tra due concezioni differenti della tecnica. Se Preti appartiene in pieno al Seicento, e anzi è il Seicento, dalle sue radici caravaggesche fino al Berrettini, Luca Giordano fa a buon titolo parte del secolo seguente, quello dei virtuosi del pennello; troppo spesso sottovalutato per l'enorme abbondanza e la qualità ineguale della sua opera, conosce tutta la pittura del suo tempo e del Cinquecento, può rifarla a memoria, contraffare anche artisti stranieri come Rubens e Rembrandt; ma soprattutto è inventore ed esecutore rapido, di getto. I veneti, che può studiare direttamente nel 1667, rimangono i suoi modelli: specialmente il Veronese, da cui deduce il suo colorismo estremamente vivace, fatto di giustapposizioni tonali così vicine e frequenti da sprigionare luce dall'impasto stesso, animatissimo, del colore a tocco.
È, la sua pittura, il "miracolo tecnico" del Seicento napoletano: da valutare, più che nelle singole opere, nella continuità e nella massa della sua produzione d'immagini. La pittura - ed è questo che lo differenzia dal Preti non ha più contenuti che le siano proprii, non uno specifico campo in cui agisca come mezzo di ricerca: non tende neppur più a illudere, a darsi come rappresentazione di qualcosa di vero o di possibile. Ciò che deve sorprendere e suscitare ammirazione non è il fatto rappresentato e neppure il modo con cui è rappresentato, ma la fattura brillante, la tecnica prodigiosa: come un discorso di cui la mente distratta non segue il filo, ma tuttavia ci eccita con l'enfasi del tono e il suono delle parole o come una musica a cui non si pone attenzione e di cui tuttavia, inconsciamente, battiamo il tempo col piede. La sensazionale ma peric olosa scoperta del Giordano è proprio questa: una pittura che si può guardare distrattamente, senza neppur chiedersi che cosa rappresenti, e che tuttavia ci comunica il suo ritmo visivo e mette in moto, magari a vuoto, il meccanismo dell'immaginazione. Domina, fino alla morte, ma anche dopo, la pittura napoletana; è conosciuto dappertutto, le sue opere sono richieste in tutta Italia, lui stesso si reca a Firenze, è perfino chiamato in Spagna, ad affrescare le dimore reali. È un fenomeno, ha del prodigioso; è lo straordinario tecnico della comunicazione visiva, il pennello di Luca-fa-presto addirittura anticipa l'immaginazione creativa, anzi ne può fare a meno, ricorrendo all'inesauribile mestiere pittorico. Una posizione a parte ha Salvator Rosa, napoletano per nascita e formazione, ma attivo soprattutto a Roma e a Firenze: curiosa figura di pittore, di uomo di teatro e di poeta, autore di sette Satire in cui se la prende con i costumi del suo tempo ed anche con la pittura, specialmente "di genere". Pittore di genere, di paesaggi e battaglie, era stato lui stesso prima di dedicarsi, con l'idea di confondere i suoi detrattori, alla grande pittura sacra e di storia. La sua pittura, come videro i contemporanei, è più spiritosa che originale. Combina formule eterogenee; riflette interessi culturali disparati e superficiali ma vivaci, letterari, scientifici, filosofici. È in aperta polemica con la rettorica barocca, ma anche con quella che considera la volgarità della pittura di genere. Si interessa a tutto ciò che è fuori delle correnti ufficiali , principalmente agli stranieri. A Roma si accosta alla concezione paesistica classica di Claude Lorrain; ma mescola al tema aulico di Claude l'elemento che chiamerà "pittoresco" un termine che avrà una grande importanza nelle poetiche figurative europee del Settecento e che discende dagli olandesi con gusto degli aspetti curiosi ed anche paurosi della scena naturale.
Nel periodo fiorentino, prendendo lo spunto dai fiamminghi e dai tedeschi, inventa il "genere" della veduta fantastica: paesaggi selvaggi e tenebrosi con scene di stregoneria e di magia. È, insomma, l'intellettuale che ostenta, per spirito di contraddizione, il gusto del popolaresco. "Questo modo di sentire la tesi dell'indipendenza della fantasia dall'intelletto, il mito del selvaggio, del primitivo pongono il Rosa sulla linea di sviluppo che va dall'affermazione del suo grande compatriota, il Vico, fino al romanticismo rousseauiano" (Salerno). E fanno di lui, più per le sue idee che per la qualità dell'arte, uno dei nessi essenziali tra l'Italia e la cultura artistica del resto d'Europa. Certamente Caravaggio con la sua pittura ha lasciato la sindrome di ‘Caravaggio’ che si manifesta in maniera diversa a seconda di chi colpisce, un comune mortale o un celebre studioso, eventualmente specialista riconosciuto dell’opera del sommo pittore lombardo. Nel primo caso si avverte in maniera lampante, soprattutto se si è al cospetto dei dipinti dell’ultima fase, pregni di sangue e di dolore, di patimento e di morte, la presenza del male, una sensazione che toglie il fiato ed induce a pensieri tristi e commendevoli. Nei bambini induce spesso un pianto disperato alternato a singhiozzi. Ne ebbi la conferma quando, in occasione della mostra napoletana sull’Ultimo Caravaggio, a Capodimonte, le maestre si lamentavano di non poter portare in visita le loro scolaresche, perché la visione delle opere era traumatizzante per i pargoli. Una sottovariante della morbosa patologia, una sorta di sindrome di Stendhal al massimo grado, si avverte poi nel guardare la celebre Medusa degli Uffizi, un quadro straordinariamente bello ed orrifico in egual misura, che induce una vertigine di sensazioni terebranti da indurre la perdita dell’equilibrio, mentre alcuni soggetti urlano a squarciagola. Ma lo scopo di queste brevi considerazioni sulla sindrome era a margine dell’esaustivo articolo dell’amico Pietro Di Loreto sull’ondata incontenibile di nuove attribuzioni a Caravaggio di quadri assolutamente inadeguati, da parte di critici anche di fama internazionale. Si potrebbe ipotizzare un motivo meramente economico alla base di questa mania attribuzionistica, perché un quadro che diventa Caravaggio al posto di copia o di ignoto caravaggista aumenta di oltre mille volte il suo valore venale. Da poche decine di migliaia di euro a svariate decine di milioni. Invece l’ansia incontenibile che spinge a dare la paternità del Merisi a quadri improbabili è dettata dal desiderio per ogni studioso di divenire famoso per la scoperta, carpendo la celebrità dell’artista. Non si potrebbero spiegare altrimenti errori clamorosi del passato: uno fra tutti quello di battersi per l’autografia del Cavadenti, un quadro di una mediocrità sconcertante, da parte di una studiosa dell’autore riconosciuta internazionalmente come Mina Gregori. Ed all’incontrario la vicenda del Martirio di S. Orsola, già di proprietà della sede napoletana della Banca Commerciale non inseguiamo di chi è ora dopo infiniti accorpamenti tra istituti di credito, che nonostante richiamasse a viva voce l’autografia, anche per la presenza in primo piano dell’autoritratto del pittore, è rimasta a lungo nell’anonimato o sotto nomi assurdi come il Preti, prima della decisiva scoperta dei documenti. Alla mostra attualmente a Firenze, affianco a capolavori, si presentano due nuovi Caravaggio, mentre l’ultima rivista di storia dell’arte ne presenta addirittura sette. Dobbiamo giustamente dire Basta, un minimo di serietà ci vuole. Gli studiosi affetti dalla sindrome e sono molti farebbero meglio a farsi curare da uno psicanalista, invece di vaneggiare con nuove sensazionali scoperte. Sulla mostra fiorentina fa testo il competente commento del professor Di Loreto, vorrei solo aggiungere, da napoletanista immarcescibile, un parere sui due pseudo Ribera: il primo è copia da un originale perduto, il secondo è di un ignoto spagnolo, contemporaneo del valenzano, di cui non mi sento di dare un nome preciso.
Il Percorso della mostra è così suddiviso :
Il primo Seicento
La Napoli di inizio secolo (Sala 79)
All’ingresso del ’600 la scena napoletana è molto variegata, difficilmente racchiudibile nella definizione “tardo manierismo”. Alla vigilia dell’arrivo del Caravaggio dominano in città pittori ad affresco, imprenditori e scopritori di talenti, come Belisario Corenzio , con cui si forma il giovane Battistello Caracciolo . Spicca, tra tutti, uno dei grandi maestri di secondo ’500 come Francesco Curia , la cui Annunciazione, del 1597, Caravaggio avrà potuto ammirare al suo arrivo a Napoli nella chiesa di Monteoliveto, per la quale il Merisi realizzò la Resurrezione, purtroppo perduta. L’Annunciazione di Curia è qui presentata a confronto con quella di Scipione Pulzone da Gaeta , del 1587, manifesto devozionale della Controfirma, e l’altra di Louis Finson , firmata e datata 1612, che apre la storia, anche commerciale, del naturalismo dei cosiddetti “amici nordici” del Caravaggio. Tra i sodali napoletani del Merisi, certamente Battistello Caracciolo è il più stretto, come dimostra il confronto tra il Cristo alla Colonna, 1620 e la Flagellazione, 1607 di Caravaggio. I rapporti con l’ambiente romano in avvio di secolo sono testimoniati dal San Sebastiano di Domenico Cresti detto il Passignano , pittore fiorentino attivo a Roma e in relazione tangenziale con il verismo caravaggesco. La grande Adorazione dei pastori, 1612-1614 ca di Fabrizio Santafede documenta un aggiornamento del maturo maestro, ultracinquantenne all’arrivo di Caravaggio a Napoli (1606), al “lume” del naturalismo.
Napoli crocevia di culture (Sala 88)
L’arte napoletana del primo Seicento riceve un grande impulso grazie alle committenze ecclesiastiche sia degli ordini religiosi sia dei privati, che rinnovavano e arricchivano le cappelle di famiglia. La struttura architettonica ad aula unica di questa galleria, scandita da ambienti laterali, a mo’ di cappellette, ben si adatta ad accogliere queste opere: dipinti, sculture, argenti, con, in posizione centrale, secondo la liturgia, il ciborio di Cosimo Fanzago in bronzo dorato, rame dorato, marmi policromi, pietre dure (diaspri, ametista, agata, lapislazzuli) proveniente dalla chiesa di Santa Patrizia a Napoli. Il monumentale tabernacolo, realizzato per contenere il Santissimo Sacramento nella chiesa, è una vera e propria architettura in miniatura, impreziosita dalla tecnica del commesso marmoreo che imita tralci vegetali, vasi con fiori e uccellini. Iniziato nel 1619 e terminato nel 1623 su progetto di Cosimo Fanzago, l’architetto bergamasco che diede l’impronta al barocco napoletano, costò l’ingente cifra di 5000 ducati, a testimonianza della ricchezza del monastero. In ambito pittorico coesistono nella Napoli del primo ventennio del Seicento maestri come Luigi Rodriguez, la cui Trinità è un raro esempio di pittura atmosferica e visionaria in quegli anni, e un manipolo di artisti che, già pochi anni dopo la morte di Caravaggio (1610), combina l’eredità del Merisi con impulsi e istanze diverse. Nel corso degli anni ’20, accuserà una flessione anche il caravaggismo di Battistello Caracciolo che rivolgerà il suo interesse alla pittura emiliana e, specialmente alle tele e affreschi del parmense Giovanni Lanfranco realizzati durante i soggiorni romani, fin dal 1602. Anche Carlo Sellitto tra i caravaggeschi napoletani della prima ora, guarda alle opere romane di Lanfranco, come testimonia la figura di San Carlo Borromeo. Lanfranco avrà un’importante stagione napoletana e sarà attivo nei principali cantieri cittadini, dal Duomo alla Certosa di San Martino alla Cappella del Tesoro alla chiesa dei Santi Apostoli, a partire dal 1633.
Sala 89
Il naturalismo di stretta influenza caravaggesca comincia a stemperarsi; spingono in questa direzione i lavori del francese Simon Vouet , attivo a Roma dal secondo decennio del secolo, che invia a Napoli la Circoncisione per la chiesa di Sant’Angelo a Segno che dialoga in sala con la Madonna col Bambino con le sante Maria Egiziaca e Margherita di Giovanni Lanfranco . I nessi con la coeva scena romana tendono ad infittirsi: lo testimoniano le opere mature di Massimo Stanzione , intento a smussare le esperienze del caravaggismo declinandole in una versione temperata dalla conoscenza dei capolavori romani di maestri bolognesi come Guido Reni e Domenichino . Il bolognese Domenico Zampieri detto il Domenichino , che a Napoli lascerà, dal 1631, nella Cappella del Tesoro di San Gennaro dipinti su rame e affreschi, aveva realizzato nel 1615 per la chiesa di San Francesco a Palermo l’Angelo custode. L’iconografia dell’Angelo custode fu un’immagine devozionale di vasta diffusione, come testimoniato nella scultura, forse della bottega dell’intagliatore napoletano Aniello Stellato (documentato dal 1605 al 1643) proveniente dalla chiesa napoletana di SS. Filippo e Giacomo. Andrea Vaccaro , nella produzione pittorica della maturità, qui con Il Trionfo di David (1650-1655 ca.), uno dei suoi capolavori realizzato per una committenza privata, dimostra un sensibile adattamento agli elementi di recupero cinquecentesco dei bolognesi attivi tra Roma e Napoli, da Guido Reni a Domenichino.
Ribera e il primato dello Stile (Sala 90)
Sulla base degli studi di Roberto Longhi il ’6oo napoletano è identificato come il secolo di Caravaggio. Ma se sostituissimo al nome del Caravaggio quelli di Ribera e Fanzago. Caravaggio soggiorna a Napoli due volte (ottobre 1606-giugno 1607 e ottobre 1609-inizi luglio 1610, per un totale di 18 mesi), mentre Jusepe de Ribera spagnolo di nascita, vi arriva nella primavera 1616 e lo scultore e architetto bergamasco Cosimo Fanzago nel 1608, stabilendosi entrambi in città fino alla morte. I due artisti sono pertanto le personalità cruciali per gli sviluppi della cultura figurativa nel Viceregno, per la loro presenza stabile sul territorio e la formazione di articolate botteghe che lavoravano sui modelli dei maestri. Lo stile di Ribera, partendo da una esasperata rappresentazione della realtà, si evolve verso un intelligente recupero della grande lezione cinquecentesca di Tiziano , con ampie stesure di colore e paesaggi luminosi che fanno da sfondo ai personaggi raffigurati, segnando in maniera indelebile tutti i pittori napoletani della sua e delle generazioni successive. Napoli come pure la Trinitas terrestris con san Bruno, san Benedetto, san Bernardino e san Bonaventura, tra il 1626 e il 1630, tra i dipinti sacri più importanti alla fine degli anni venti del ’600 per la complessità dell’invenzione e il virtuosismo nell’esecuzione. Raffigura san Bruno, fondatore dell’ordine certosino, san Bernardino e san Bonaventura, santi legati a ordini monastici, intorno al gruppo centrale della Vergine, Gesù e san Giuseppe. Gli angeli in alto creano profondità e un senso di movimento alla composizione. Un’intera generazione di maestri locali ha guardato e annotato con cura ogni particolare di questo capolavoro: da Andrea Vaccaro a Pietro Novelli fino a Francesco Guarino. Un altro capolavoro di Ribera è il San Girolamo e l’angelo del Giudizio, del 1626 proveniente sempre dalla chiesa della Trinità delle Monache. Fu un’opera di capitale importanza per la scena napoletana. Sul lato destro l’inserto del teschio, del volume e delle carte, conferma al livello più alto il talento di Ribera nel dipingere nature morte autonome. Il leone, attributo iconografico del santo, emerge dall’ombra sulla sinistra. In dialogo sono esposte due opere più antiche di diversa cultura: una tela di eguale soggetto del bolognese Agostino Carracci, databile intorno al 1600, e la Disputa sull’Immacolata Concezione tra il 1529 e il 1530 del friulano Giovanni Antonio de' Sacchis, detto il Pordenone proveniente dalla chiesa dell’Annunciata di Cortemaggiore, in provincia di Piacenza. Tra il 1610 e il 1611 Ribera aveva soggiornato a Parma, la capitale del Ducato Farnese di Parma e Piacenza, realizzando un perduto San Martino a cavallo per la chiesa di San Prospero. Avrà dunque avuto una familiarità con queste opere, e se il San Girolamo del Carracci poteva fargli intendere i nudi michelangioleschi della volta della Cappella Sistina quello del Pordenone era una premessa alla fisicità antieroica dell’anziano San Gerolamo realizzato dal pittore spagnolo. All’arrivo di Ribera a Parma, l’artista ufficiale della corte di Ranuccio I Farnese è Bartolomeo Schedoni . Non è certo se i due artisti si conobbero direttamente, ma il naturalismo con cui sono rese le figure del cieco e del mendicante nell’Elemosina di Sant’Elisabetta di Schedoni suggerisce una possibile influenza esercitata a Parma da Ribera. Il dipinto raffigura l’attimo precedente al "Miracolo delle Rose" compiuto da Sant’Elisabetta nel 1235. La santa, con i capelli celati nel turbante, porge del pane ad un mendicante e ad un cieco, che rivolge verso lo spettatore i suoi bulbi oculari malati. Elisabetta viene presto scoperta da suo marito, che le chiese di mostrare ciò che nascondeva sotto il mantello per placare i sospetti che stesse rubando un tesoro. Alla sua richiesta, lei rivelò il pane trasformato in rose, prova dell'intervento di Dio. Il bambino in primo piano è forse un'allegoria del "vestire gli ignudi", uno dei sette atti di misericordia. I colori brillanti e la luce che si sofferma sui corposi panneggi accentuano la drammaticità della scena.
I Trionfi di Bacco (Sala 91)
Tra la fine degli anni ’20 e gli anni ’30 del Seicento, sullo stimolo di Ribera, inizia, tra i pittori napoletani, un progressivo recupero delle iconografie e dei cromatismi del grande maestro veneziano del ’500, Tiziano, come si evidenzia nel confronto tra il Sileno Ebbro, del 1626, di Ribera , e il Trionfo di Bacco di Francesco Fracanzano , databile nel corso degli anni ‘30. Il Sileno ebbro, un olio su tela del 1626, raffigura Sileno, un seguace di Dioniso, dio del vino, mentre alza la coppa per accettare altro vino dalla figura alle sue spalle mentre Pan, dio della natura selvaggia, lo incorona con delle viti. L'asino che raglia e l'ambientazione rustica accentuano, ai limiti della caricatura, il ricordo dei baccanali di Tiziano. Si tratta di uno dei capolavori di Ribera, la cui firma si trova sul cartiglio in basso a sinistra strappato dal serpente, simbolo di immortalità. A questi due capolavori della pittura a Napoli del secondo quarto del ‘600 si accosta una copia, forse ottocentesca, del dipinto dei Borrachos di Diego Velázquez , oggi al Museo del Prado a Madrid. Il soggiorno napoletano del grande maestro sivigliano nel 1630 lascia una traccia nel percorso di allievi di Ribera come Aniello Falcone , nell’intensità espressiva e nelle fisionomie dei personaggi; anche il cosiddetto “Maestro dell’Annuncio ai pastori” è ancora oggi non identificato con un nome preciso nonostante diverse proposte Juan Do, Bartolomeo Passante, Pietro Beato partecipa di questo clima culturale, e, ancora una volta, si può confrontare con il linguaggio maturo di Ribera. La sala offre una piccola antologia di un pittore olandese, Matthias Stom (o Stomer) , formatosi ad Anversa, cresciuto a Roma con i maestri nordici vicini al linguaggio del Caravaggio e morto in Sicilia dopo il 1650. I suoi dipinti con esperimenti a ‘lume di notte’ incontrarono ogni favore sul mercato locale. Il biennio napoletano del pittore, stretto tra le estati del 1635 e del ’37, contribuì ad arricchire la cultura napoletana: se ne colgono echi, ad esempio, in un maestro come Vaccaro o in alcuni satelliti dello stesso Ribera, dal cosiddetto Maestro degli Annunci ai Fracanzano fino a Giovanni Battista Recco . Nella stessa sala, Stomer, che soggiornò in Sicilia alla fine della sua vita, si confronta con il siciliano Pietro Novelli , detto il Monrealese, e con il fiammingo Anton van Dyck , che soggiornò a Palermo negli inoltrati anni ’20 del Seicento, influenzando i maestri locali con la sua tavolozza chiarissima e ricca di effetti pittorici.
Napoli barocca
Barocco da boudoir (Sala 93)
Nel corso degli anni ’40 del Seicento si affermano botteghe come quella di Massimo Stanzione e Andrea Vaccaro anche nella produzione di dipinti da stanza, perlopiù a mezza figura, destinati alla devozione privata. L’insinuante profanità che trapela da queste figure di sante ed eroine, caratterizzate da una quota di erotismo, indica un allontanamento dal rigore e dalla gravità di maestri napoletani come Battistello Caracciolo e Carlo Sellitto . Sotto il profilo dello stile, questi artisti sono tutti dipendenti degli effetti di superficie importati a Napoli da Ribera, combinati alla conoscenza di maestri forestieri o romani che avevano lasciato opere in città: da Simon Vouet a Charles Mellin fino ad Artemisia Gentileschi , che ebbe una ricca e fertile stagione napoletana, a partire dal 1630, anno in cui realizzò l’Annunciazione. In sala Rinaldo e Armida, 1640-1650 di Andrea Vaccaro il dipinto rappresenta un passo tratto dal XVI canto della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso quando i due compagni di Rinaldo, Carlo e Ubaldo, ritrovano l’eroe nelle isole Fortunate in compagnia dell’amata Armida. Il tema amoroso, trattato in area bolognese innanzitutto da Ludovico e poi da Annibale Carracci, conobbe un notevole successo nel Viceregno di Napoli a partire dagli anni ’30 del Seicento; numerose sono le versioni eseguite da Finoglio, Cavallino e Giordano.
Purismi nostri (Sala 94)
A Napoli il bolognese Domenichino , attivo dal 1631 nella Cappella del Tesoro di San Gennaro contribuisce a riaccendere, tra i maestri locali, un interesse per il linguaggio classicista degli affreschi di Raffaello delle Stanze Vaticane. Dal suo lavoro muoveranno Andrea Vaccaro e Pacecco De Rosa, soprattutto negli anni della maturità, che si può anche confrontare con Giovan Battista Salvi, detto il Sassoferrato , maestro marchigiano, allievo a Bologna di Domenichino. Di Pacecco De Rosa è esposto in sala il Bagno di Diana, 1645 ca., soggetto tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (III, 225 – 252): Atteone osserva di nascosto Diana nell'intimità del bagno mentre è accudita dalle ninfe, in un momento di riposo dalla caccia; per questo suo oltraggio sarà punito e tramutato in cervo. Pacecco, con equilibrata grazia, compone una scena che si esalta nella ricerca di un gusto classico e di un “bello ideale”. Nell’Adorazione dei pastori (1653 ca.) Sassoferrato limita i colori primari - rosso, blu e giallo - alla Vergine, al Bambino e a Giuseppe, mentre rende i pastori, gli animali e gli angeli in tonalità tenui di terracotta e beige. I maestri napoletani mostrano di fare un pezzo di strada con artisti forestieri di generazioni diverse: dal veronese Alessandro Turchi detto l’Orbetto al fiammingo italianizzato Michele Desubleo qui è esposta la sua Ulisse e Nausicaa, post 1665 raffigurante l’episodio tratto dall’Odissea (VI, 127–216) in cui Nausicaa, circondata da ancelle, offre una veste a Ulisse, naufragato nell’isola dei Feaci. Le fanciulle sono ritratte mentre stavano giocando a pallacorda, antenato del moderno tennis. La stessa Nausicaa, infatti, ha in mano una racchetta mentre la palla è in basso sulla sinistra. I toni freddi, le carni marmoree e le citazioni da Raffaello, Reni e Domenichino producono un tono languido e aggraziato ben inserito nel filone purista. Il controllo del disegno e la materia pittorica smaltata costituiscono alcuni dati distintivi di queste nuove esperienze puristiche di cui, a Napoli, risentirà lo stesso Luca Giordano nel dipinto Madonna del Rosario. Firmato e datato 1657, il quadro è stato dipinto per la chiesa della Solitaria, distrutto all’inizio del ’800. La Madonna porge il rosario a San Domenico. Gli altri santi nella composizione sono Francesco e Nicola da Tolentino sulla sinistra, Caterina da Siena, Teresa d’Ávila ed Elisabetta d’Ungheria sulla destra. Al centro del dipinto due putti recano tra le mani il giglio, simbolo di purezza, e il cuore ardente, attributo di Santa Teresa.
I colori smaltati, specialmente nel manto azzurro della Vergine, risentono delle esperienze puristiche sperimentate qualche anno prima da Pacecco de Rosa. Napoli è un crocevia di culture oltreché uno dei più importanti scali del Barocco. Le collezioni di Capodimonte documentano con dovizia e ricchezza questa trama di incontri, passaggi e contaminazioni.
Ribereschi a passo ridotto (Sala 95)
Alcuni maestri, attivi nel secondo trentennio del Seicento, sviluppano invenzioni tratte da Ribera in formato da stanza o da cabinet, riducendo composizioni più ambiziose in dipinti dalle dimensioni contenute e affollandoli di figure terzine (ossia a un terzo della grandezza naturale) dinanzi a paesaggi e a scenografie urbane. Questi maestri furono definiti da Roberto Longhi “caravaggeschi a passo ridotto”, ma, alla luce degli studi che hanno inquadrato Ribera come il pittore di maggiore influenza nella Napoli della prima metà del Seicento, forse la definizione migliore è quella di “ribereschi a passo ridotto”. Sono, tra gli altri, Aniello Falcone , Andrea De Lione , Domenico Gargiulo (detto Micco Spadaro) , Paolo Porpora di quest’ultimo è presente in sala un’opera della sua fase matura: la Natura morta con fiori, frutta, uccelli e pappagallo, 1660 ca. Ma non vi è dubbio che, se ci rivolgiamo ai forestieri, anche un prezioso maestro tedesco come Johann Heinrich Schönfeld attivo a Napoli a partire dal 1643, ne facesse parte. Schönfeld è un artista poliedrico, incisore e pittore dall’attenta vena indagatrice, diviene mediatore artistico tra le nuove correnti classiche di Poussin e il lessico barocco di Pietro da Cortona. Durante il suo passaggio a Napoli, non resterà insensibile all’arte di Cavallino (in sala rappresentato da La cantatrice, 1645 ca., Santa Cecilia in estasi, 1645 e Sant’Antonio da Padova, 1645 ca.) e al genere delle “battaglie” di Micco Spadaro. Nell’opera di Schönfeld in sala, Rinvenimento della vera croce, post 1640 le figure spiccano nella penombra della notte, rese come silhouette esaltate dal raffinato gioco di luci. I rapporti della scena napoletana del Seicento con Genova e Venezia sono suggeriti dal David con la testa di Golia di Giuseppe Diamantini , marchigiano formatosi nella città lagunare, dal Ritratto virile di Bernardo Strozzi e, tre decenni più tardi, nel 1663, dall’estremo capolavoro firmato del Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto i Predoni e armenti. Completano la parete due dipinti firmati di Salvator Rosa , in cui il pittore e poeta napoletano dispiega tutta la sua originalità nella trattazione dei temi religiosi. In particolare, La disputa di Gesù tra i dottori diviene una potente galleria di ritratti caratterizzati da un forte vigore espressivo, quasi una sorta di riunione tra pirati chini sulla mappa del tesoro. Altro filone presente a Napoli nello stesso periodo è quello legato alle stesure morbide e alle dolci eleganze del bolognese Guido Reni presente in città nel 1612 e nel 1619, e qui rappresentato dal San Rocco, a confronto con i San Sebastiano di Andrea Vaccaro , e del francese Nicolas Régnier .
Barocco da camera
Passetto barocco (Sala 96)
Il pittore francese Nicolas Poussin , operoso lungamente a Roma, influenzò anche la pittura napoletana tra gli anni ’40 e ’50 del ‘600. A lui allude il Gioco di putti di Bernardo Cavallino messo a confronto con un bassorilievo in marmo di orbita di François Duquesnoy , i cui putti entrarono finanche nella produzione della Manifattura di porcellana di Sévres, dove erano chiamati gli “enfants François”. Di qui, l’onda lunga di Poussin si riverbera sul trio di putti di Giuseppe Sammartino , tra gli scultori più importanti del ’700 napoletano. La fortuna del tema antichizzante è assodata, a Napoli, dai putti calibrati dal Duquesnoy del 1639 nell’altare del cardinale Ascanio Filomarino per la chiesa dei Santi Apostoli. Arcivescovo di Napoli per venticinque anni dal 1641 al 1666, Filomarino fu mecenate e collezionista di gusto raffinato, orientando le sue scelte verso il classicismo emiliano del Seicento Annibale Carracci, Domenichino, Lanfranco, Reni e le scuole francesi e fiamminghe Poussin, Vouet, Valentin, Duquesnoy la sua celebre quadreria comprendeva anche opere di Caravaggio, di Artemisia Gentileschi, del Cavalier d'Arpino. La presentazione di due spettacolari composizioni di frutta del fiorentino tardo barocco Bartolomeo Bimbi , Pere di giugno e di luglio e Pere di agosto del 1699 dove il pretesto scientifico si fa valore poetico - è intervallata, come in un palazzo patrizio, da un raro stipo seicentesco napoletano. Completano la sala dipinti di piccolo formato, tra cui due nature morte di Luca Forte , commessi marmorei e uno specchio a rievocare l’allestimento di una collezione aristocratica di quel tempo, dove convivevano liberamente oggetti d’arte di diversi temi e tipologie.
Fiori sull’acqua: Ipomee e boules de neige (Sala 98)
La sala è dedicata alla spettacolare cascata sull’acqua delle Ipomee e boules de neige di Andrea Belvedere si tratta di una delle più belle nature morte napoletane: la raffinatezza cromatica e la particolare qualità della materia pittorica ci fanno capire come l’eredità di Giordano, alla fine del secolo, arrivò a influenzare anche i pittori di genere. Nella sala, in un ideale prolungamento dell’arredo di un palazzo patrizio, i ricami da parata, realizzati per decorare i grandi saloni in occasioni solenni, mostrano i caratteri dell’ornato napoletano tipici di tanti altari marmorei derivati da Cosimo Fanzago . Tutti i ricami provengono dalla collezione d’Avalos, il cui stemma, uno scudo sormontato da corona che racchiude un castello a tre torri, è presente nel parato di maggiore formato. I d’Avalos, famiglia aristocratica di origine spagnola, diramatasi anche in Italia a partire dal XV secolo, raccolsero nel corso dei secoli una ricca collezione di dipinti di spiccato gusto laico, realizzati da rinomati artisti napoletani del Seicento, arazzi, ricami e armi. Don Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto e principe di Pescara, lasciò allo Stato italiano nel 1862 l’importante raccolta, acquisita di fatto nel 1882.
Il Trionfo della vita (Sala 99)
Dominata da dipinti da stanza per un pubblico di amatori e collezionisti, la sala celebra il primato raggiunto sulla scena locale negli anni ’60 del Seicento dal trentenne Luca Giordano . In sala Lucrezia e Tarquinio, 1663, Venere dormiente con Cupido, 1663, Leda e il cigno, 1670 ca., Diana saetta Niobe, 1660-1669. Questa antologia di Veneri ed eroine della storia romana costituisce, sul piano dello stile, una lezione - da pittore a pittore – su Tiziano . Per il cromatismo caldo e avvolgente e soprattutto per la forte sensualità delle immagini Giordano non smise mai di interrogarsi sui prototipi femminili del maestro. Diversamente da lui, Pacecco de Rosa con Venere dormiente scoperta da un satiro, 1645-1650 si appropria di stilemi della maniera italiana. In sala Venere e Amore, tratta da un’idea di Michelangelo , attribuita in passato a Bronzino , e poi a Hendrick van der Broecke detto Arrigo Fiammingo. Il dipinto è uno delle numerose repliche derivate dal cartone, con medesimo soggetto, che Michelangelo eseguì tra il 1532 e il 1533 su committenza del banchiere fiorentino Bartolomeo Bettini. Venere abbraccia Amore, sfilando di nascosto le frecce per privarlo del suo potere. Nella parte sinistra del dipinto, il vaso con le rose, le maschere e il busto di un giovane privo di vita all’interno di un’edicola dimostrano la fugacità e i rischi dell’amore carnale. Il linguaggio elegante e prezioso del manierismo toscano fu recepito in particolare da Pacecco de Rosa, come si evidenzia nelle due composizioni con Venere presenti in questa sala. Il linguaggio barocco di Giordano si diffonde anche tra i grandi specialisti di natura morta della fine del secolo, come Giuseppe Recco , in sala la Natura morta con pesci, 1665-1670, e Andrea Belvedere con Natura morta con pesci, 1680- 1690. Il biografo Bernardo De Dominici racconta che nella bottega di Giordano la prima formazione dei suoi allievi avviene su dipinti in cui erano accordate le figure ai fiori, alla frutta, ai pesci e altri animali, come nel Polifemo e Galatea, 1674 – 1675, in cui accanto alla sensuale scena marina viene rappresentato il gregge di Polifemo. Completano la sala nature morte raffiguranti pesci e animali marini, accordate ai dipinti di figura, come avveniva nelle raccolte nobiliari dell’epoca, e come probabilmente allestito nella collezione D’Avalos, da cui provengono le opere di Luca Giordano e di Pacecco de Rosa.
Il secondo Seicento
Staffetta Meridionale: Battistello, Preti e il secondo ’600 (Sala 100)
Gli inoltrati anni ’50 del Seicento sono caratterizzati, a Napoli, da una situazione in fermento. Nello spazio di pochi anni il talento precoce di Luca Giordano contribuisce a diffondere nel Viceregno la cultura del barocco romano di Gian Lorenzo Bernini e di Pietro da Cortona . Il Barocco in ‘dialetto napoletano’ di Giordano - giocato tra soggetti religiosi, mitologici e celebrativi - si coniuga, nel corso degli anni ’50, con le istanze di un maestro calabrese cresciuto a Roma, Mattia Preti . In sala il San Sebastiano del 1656 e il San Nicola da Bari del 1653 e il San Giovanni Battista del 1653 ., Cristo scaccia Satana che precipita da un monte, 1656 ca. A Napoli tra il 1653 e il ’61 Preti guarderà con rinnovato interesse alle opere di Battistello Caracciolo , di cui riprende alcuni tagli compositivi e l’intensità drammatica dei dialoghi tra le figure. In sala la Fuga in Egitto del 1622 al 1625 . e Andata al Calvario o L’addio di Cristo alla Vergine del 1622 . In sala anche il confronto tra Apollo e Marsia, 1637 di Jusepe de Ribera e Apollo e Marsia, 1657-1659 di Luca Giordano. Il satiro Marsia sfida Apollo in una gara musicale. Dopo aver perso, il dio lo punisce per la sua audacia e lo scortica vivo. Ribera raffigura il momento più drammatico del mito, con il satiro Marsia che urla di dolore per l’atroce supplizio. Ai due angoli estremi della composizione sono raffigurati gli strumenti musicali utilizzati nella gara: il flauto di Pan e il violino. Ribera coniuga il suo potente realismo con un trattamento brillante della materia cromatica e una vibrante rappresentazione del paesaggio, che gli deriva dallo studio della pittura veneta del ’500. Circa venti anni dopo il dipinto di Ribera, Luca Giordano si cimenta nella sua versione di Apollo e Marsia che richiama quella del maestro spagnolo nella ripresa iconografica e nella resa naturalistica del volto di Marsia, distorto dal dolore. Giordano attenua però il marcato naturalismo di Ribera, utilizzando una materia pittorica più sfumata ma soprattutto allentando la tensione emotiva tra i due protagonisti della storia, che distolgono lo sguardo rispetto allo spettatore.
Gli scali del Barocco. Preti tra Roma e Napoli (Sala 101)
Il soggiorno napoletano del calabrese Mattia Preti , durato meno di un decennio, dal 1653 al 1661, è carico di capolavori e segna il suo tempo migliore. Dopo una formazione avvenuta a Roma (con un occhio sempre aperto sui fatti napoletani), Preti mette a punto le risorse di uno stile luministico contrastato e di sicura efficacia, ricco di tagli scorciati e di sottinsù. Nel gruppetto di tele qui raccolte Preti, di innegabile virtuosismo, contempera ricordi dai caravaggeschi, dal parmense Lanfranco e dai maestri del Rinascimento veneto, rivestendo le scene bibliche d’una coloritura drammatica cui Giordano tesso guardò con ammirazione. La presenza di un capolavoro giovanile di Luca Giordano come la Santa Lucia condotta al martirio segna i termini di un incontro da considerare reciprocamente fruttuoso. La presenza nella sala di alcune composizioni di frutta e fiori Giovan Battista Ruoppolo, Natura morta con ortaggi, fiasca e fiori, ante 1670- before 1670, Natura morta con ortaggi e pani, del 1680 di Paolo Porpora, Napoli 1617-Roma 1673, Frutti, fiori e zucca, 1650 ca.; Christian Berentz, Amburgo 1658 – Roma 1722 - Hamburg 1658 – Rome, 1722 e Carlo Maratta, Camerano 1625 – Roma 1713, Fiori e frutta con donna che coglie l’uva, 1696 dimostra come gli effetti di quel dialogo ai massimi livelli del Barocco mediterraneo interessasse anche la migliore natura morta napoletana.
Il Trionfo della Morte (Sala 102)
A Napoli la peste imperversò nel 1656, mietendo più di 200.000 vittime, circa la metà della popolazione. Per i pochi artisti sopravvissuti, quel flagello fu una grande occasione di racconto: i più intensi quadri eseguiti negli inoltrati anni ’50 si richiamano, più o meno direttamente, alla Peste. Insieme al gran dipinto di Luca Giordano col San Gennaro che intercede per le vittime della peste, tra il 1660 -1661, sono esposti i due bozzetti di Mattia Preti . L’ex voto di Giordano, proveniente dalla chiesa di Santa Maria del Pianto, è pieno di echi del Barocco romano, da Pietro Cortona a Gian Lorenzo Bernini . Nel primo piano il pittore raffigura uno scorcio urbano, con i cadaveri in attesa di essere portati via dai monatti con la mascherina, per difendersi dal contagio. La stessa torsione di corpi si ritrova in Nicola Malinconico , al quale in questa sede viene attribuito l’Adamo ed Eva piangono la morte di Abele, 1690 ca. dopo un importante intervento di restauro. La presenza in sala del San Giorgio che uccide il drago, del 1601–1602 tratto da una composizione simile di Pieter Paul Rubens del 1607 circa, oggi al Prado, testimonia l’influenza che il magniloquente barocco del maestro olandese, i cui lavori erano presenti a Roma e Napoli, ebbe su Luca Giordano. Le due ceroplastiche, la Testa decollata e la Vanitas, si inseriscono nel contesto della religiosità barocca, tra devozione e anatomia, dove la morte e il dolore erano costantemente presenti nella vita quotidiana dell’epoca, segnata dalla guerra dei Trent’anni e dalle terribili epidemie di peste che, nel 1630 e nel 1656, falcidiarono buona parte della popolazione in Europa. Le due opere riflettono il clima della Controriforma, che esalta il martirio e il sacrificio, e assorbono gli stimoli provenienti dal progresso delle scienze mediche e degli studi di anatomia. In sala altre opere di Luca Giordano: Cristo morto, del 1663 , Elemosina di San Tommaso da Villanova, 1658, Sogno di Re Salomone del 1663 e Perseo e Medusa, post 1660.
Festa del Rosario (Sala 103a)
Al centro della sala la Madonna del Rosario, 1686 di Luca Giordano , è un omaggio alla religiosità istintiva e popolare tipica delle processioni sacre che si svolgevano nella Napoli vicereale. È rappresentata in basso una folla di fedeli, protagonista e spettatore insieme dell’evento miracoloso: la statua della Vergine portata in processione sotto il baldacchino si ‘fa corpo e carne’, tangibile metamorfosi del mistero della fede. La presenza delle quattro nature morte, di mano di alcuni dei massimi artisti del genere come Giuseppe Recco e Giovan Battista Ruoppolo , celebra nelle sue forme esteriori una religiosità spiccatamente barocca, della gioia di vivere attraverso i frutti della terra e del mare, che rinviano alle prosperità del mondo come dono di Dio. D’altronde nella bottega di Giordano la prima formazione dei suoi allievi avviene su dipinti in cui erano accordate le figure ai fiori, alla frutta, ai pesci; espressione della energia del Barocco che rompe gli argini delle regole e dell’equilibrio a Napoli, che ne moltiplica la spettacolarità. Dipinti con nature morte (pesci, fiori, frutti) e figure erano stati realizzati sotto la supervisione di Luca Giordano in occasione della festa religiosa del Corpus Domini nel 1684 su commissione di Gaspar Méndez de Haro marchese del Carpio, viceré di Napoli dal 1661 al 1687.
I capisaldi del Barocco napoletano (Sala 103 b)
La sala accoglie tre vertici della pittura di Luca Giordano provenienti da altrettante chiese di Napoli e rappresentativi della pittura della seconda metà del Seicento. Si tratta de I santi protettori di Napoli Baculo, Eusebio, Francesco Borgia, Aspreno e Candida adorano il Crocefisso, dalla chiesa di Santa Maria del Pianto, della Sacra Famiglia con i simboli della Passione, dalla chiesa di San Giuseppe delle Scalze a Pontecorvo, e, infine, del gran teatro barocco del San Francesco Saverio che battezza i neofiti e San Francesco Borgia, dalla chiesa di San Francesco Saverio, oggi dedicata a San Ferdinando, nel quale, a uno sguardo paziente, non sfuggirà il monogramma del pittore nascosto nella fibbia del calzare del personaggio in basso a sinistra. Dobbiamo immaginare l’impatto che queste complesse pale d’altare, quasi delle macchine teatrali, sprigionavano all’interno delle chiese, poste a una congrua altezza.
Solimena e il Settecento
Ritorno all’ordine. Solimena e i suoi tra le corti di Napoli e Torino (Sala 104)
Apre la sala l’Assunzione della Maddalena di Sebastiano Ricci , il più vicino a Giordano dei grandi pittori veneti. Dopo la morte di Giordano, nel 1705, sia nella decorazione ecclesiastica che nei dipinti da cabinet, lo stile si fa più disciplinato, rientrando negli argini di un equilibrio accademico e scenografico. La pittura diventa sempre più una sorta di suggerimento del teatro. La grande tela con Enea e Didone, eseguita da Francesco Solimena negli anni ’20 del Settecento, ha riacquistato, dopo un importante restauro, il suo carattere monumentale e sontuoso, probabilmente ispirato dalla Didone abbandonata musicata e messa in scena nel 1696 da Alessandro Scarlatti . Questo eloquio, consono al gusto delle corti italiane ed europee prende, in pittori di indubbio mestiere come il romano Gregorio Guglielmi attestato a Napoli nel 1752 o il napoletano Francesco De Mura , una coloritura che, per usare un aggettivo preso in prestito dagli storici della musica settecentesca, potremmo definire galante.
Chi guarda e chi è guardato (Sala 105)
Come si offrivano gli artisti del passato allo sguardo altrui? In questa sala presentiamo due esempi emblematici: l’Autoritratto di Francesco Solimena , campione della pittura napoletana tra tardo Seicento e la metà del secolo successivo, e quello di Paolo de Matteis , artista molto apprezzato anche oltralpe, allievo di Luca Giordano , e, alla morte del maestro, concorrente dello stesso Solimena. Se un’orgogliosa ostentazione della sua professione d’artista contraddistingue il superbo autoritratto del Solimena del1715, una sottile ironia traspare da quello del de Matteis che si raffigura, in vestaglia e papalina, mentre sta dipingendo al cavalletto le personificazioni dell’Austria e della Spagna che si riappacificano. Completano la sala due ritratti, acutamente caratterizzati, di mano di Gaspare Traversi , che svelano le attitudini neoseicentesche di questo maestro, attivo per lo più a Roma. Di ambito non napoletano, l’Allegoria della pittura raffigura una singolare ed elegante figura femminile ritratta mentre è impegnata a dipingere, efficace metafora della creazione artistica.
Il paesaggio napoletano nella pittura degli stranieri (Sala 106)
Nel corso del ’600 l’arte napoletana si è nutrita ed arricchita dal contatto con i maestri forestieri come Caravaggio, Ribera, Fanzago, Domenichino o Lanfranco. Nella seconda metà del ‘700 il vedutismo napoletano è stato addirittura creato dallo sguardo degli stranieri sul paesaggio. Napoli è una tappa necessaria nell’educazione del Grand Tour. Gli scavi a Pompei e ad Ercolano, Paestum e i suoi templi, il Vesuvio in perenne attività dal 1770 al 1790, con eruzioni spettacolari e continue, il Golfo e le sue isole sono oggetti di maggiore curiosità tra gli artisti nordici, che scendono nel Regno di Napoli: tedeschi, inglesi, francesi, olandesi e danesi. Guardano tutto, ma selezionano i soggetti con cura, dando inizio al genere del vedutismo. I dipinti di un appassionato del Vesuvio come PierreJacques Volaire sono capisaldi in un genere di grande successo. Il pittore non varia una formula vincente che comprende l’inquadratura angolata, le figure che entrano da un lato, il contrasto fra il rosso della lava e il cobalto delle sere di luna oltreché il virtuosismo nel restituire i riflessi zigzaganti del fuoco a mare. Rappresentare i fenomeni naturali più impressionanti contribuisce a far nascere la poetica del Sublime, i chiari di luna ed eruzioni vulcaniche, contrasti cromatici e emozionali, che impronteranno gran parte della cultura europea della fine del ‘700.
Ottocento caravaggesco (atrio sala 61)
Aperto con il dipinto di Caravaggio, il percorso espositivo si chiude con tre capolavori napoletani di secondo ’800, che costituiscono altrettanti episodi di “caravaggismo moderno”. Sul piano della composizione e dei contrasti chiaroscurali, si riconoscono debiti con la pittura napoletana del Seicento, “una tradizione dura a morire”. Gli Iconoclasti di Domenico Morelli fu presentato alla mostra borbonica del 1855, e fu terminato dall’abruzzese Filippo Palizzi che vi appose il ‘fermo immagine’ potentemente neo seicentesco della natura morta in angolo. Quindi, lungo un arco di poco più di tre lustri, incontriamo lo zoo in movimento di Filippo Palizzi ,dopo il Diluvio, 1863per concludere con la corsa dei Bersaglieri a Porta Pia del 1871 dipinta da Michele Cammarano . Sebbene i fratelli Lumière arriveranno vemticinque anni dopo, con i Bersaglieri siamo già nei termini del cinema. Nel dipinto di Morelli la ripresa di un tema di storia medioevale rivive attraverso gli occhi della contemporaneità; Palizzi scatena questo sorprendente serraglio negli anni in cui Charles Darwin pubblicava l’Origine della specie del 1859 e dieci anni prima che, sul lungomare di Napoli, lo zoologo tedesco Anton Dohrn aprisse al pubblico la Stazione Zoologica del 1874, Cammarano con i Bersaglieri a Porta Pia del 1871 ha il potere di coinvolgere lo spettatore come forse soltanto, trent’anni dopo, Giuseppe Pellizza da Volpedo dipingerà il celebre Quarto stato che si trova al Museo del Novecento di Milano. Giunti alla fine del percorso della mostra “Oltre Caravaggio”, si invita a riflettere sulla storia, mai definitiva, che può essere riscritta e reinterpretata; allo stesso modo le collezioni di un museo, organismo che conserva il passato, ma si confronta continuamente col presente, possono essere rilette e così suggerire nuovi racconti. “Cosa significasse per Caravaggio l’incontro con l’immensa capitale mediterranea, più classicamente antica di Roma stessa, e insieme spagnolesca e orientale, non è difficile intendere a chi abbia letto almeno qualche passo del Porta o del Basile; un’immersione entro una realtà quotidiana violenta e mimica, disperatamente popolare” R. Longhi, Caravaggio, 1951
Museo di Capodimonte Napoli
Oltre Carvaggio. Un nuovo racconto della pittura a Napoli
dal 31 Marzo 2022 al 7 Gennaio 2023
dalle ore 10.00 alle ore 17.30
Mercoledì Chiuso