Giovanni Cardone Maggio 2023
Fino al 21 Luglio 2023 si potrà ammirare al Museo dell’Arte Classica de La Sapienza Università di Roma la mostra di Gianni Dessì. Tutto Pieno a cura di Claudia Carlucci e Gaetano Lettieri. L’esposizione viene a conclusione del progetto che ha visto Dessì nominato artist in residence per il 2020-2021 presso il Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo, SARAS, diretto da Gaetano Lettieri. A chiudere il ciclo la mostra, dedicata a Marcello Barbanera scomparso lo scorso anno. Professore di Archeologia Greca e Romana, presidente del Polo Museale dell’Ateneo e direttore del Museo dell’Arte Classica, da subito aveva immaginato la possibilità di una mostra all'interno del museo,per mettere in relazione il suo patrimonio composto da oltre 1.200 gessi, tratti perlopiù, tra la fine dell'Ottocento e metà del Novecento, a calco da originali greci, con l’opera di un artista contemporaneo quale quello prescelto.

Nasce così l'esposizione, il cui titolo, scelto dall’artista trova fondamento sia nella tridimensionalità della scultura che nella realtà di uno spazio gremito e percorso, dove alle opere spetta trovare un equilibrio a stabilire connessioni anche con la presenza viva e costante degli studenti che di quegli spazi fanno un uso quotidiano. Una mostra quindi che oltre alla eccezionale raccolta della quasi totalità dei gessi del Museo vedrà esposte circa 19 opere tra sculture e dipinti di Gianni Dessì,a testimoniare il suo percorso artistico dove i termini di scultura, pittura, installazione trovano un originale punto di incontro nella potenza dell’immagine, fulcro e sintesi di innumerevoli altri approdi fisici e mentali. In una mia ricerca storiografica sulla figura di Gianni Dessì apro il mio saggio dicendo: La storia dell’arte si fa solitamente a partire dalle personalità degli artisti o dalle loro opere, dalle tendenze di una scuola o di un gruppo in una determinata epoca. In tal modo la coerenza della ricerca è garantita dai percorsi biografici degli artisti e dalle caratteristiche comuni di correnti riconosciute, legittimate da documenti teorici, analisi critiche e sintesi storiche. Mettere un edificio al centro di una ricerca storico-artistica appare dunque in questa prospettiva come una possibile forzatura storiografica. Il “dove” e il “quando” divengono prioritari rispetto al “chi” e al “cosa”: il luogo e il momento storico al centro dell’analisi assumono la funzione di contenitori di significato, capaci di determinare e influenzare le caratteristiche degli eventi (“cosa”) e i percorsi delle personalità artistiche (“chi”) che hanno vissuto e operato in quel “dove” e in quel “quando”. La storia dell’Ex Pastificio Cerere di Roma dagli anni Settanta a oggi offre quindi una prospettiva nuova, una sfida all’analisi storico-critica. Esso si presenta come un teatro di eventi diversi e personalità singolari, come un luogo problematico di incontro e scontro, come fabbrica di pensiero e creazione da cui è possibile gettare uno sguardo più ampio alle dinamiche generali del mondo dell’arte romano (e non solo) degli ultimi quattro decenni. In linea con l’antica funzione industriale dell’edificio, un tempo fabbrica di farina e pasta, è possibile guardare all’Ex Pastificio come a un grande laboratorio in cui nel tempo si sono mescolati vari ingredienti, hanno agito diverse personalità, si sono generati prodotti e “ricette” culturali variegati e multiformi. A partire dai primi insediamenti artistici, dalla metà degli anni Settanta, fino alle ultime iniziative promosse in questo luogo, sperimentazione e innovazione hanno trovato tra le mura dell’edificio lo spazio ideale in cui esprimersi.

Mura insieme dense e rarefatte: dense di una storia e di un’identità molto forti, che hanno determinato struttura e forma di un edificio che ancora conserva la propria veste industriale e che hanno avuto un’influenza innegabile sul lavoro degli artisti che qui hanno trovato luogo di residenza e attività; rarefatte perché permeabili, non setti separatori, ma filtri attraverso cui la comunicazione e la prossimità fisica e ideale tra artisti hanno determinato quello che Bruno Ceccobelli, tra i maggiori protagonisti della storia del Pastificio, definisce “scambio di energie magnetiche”. Tendo di analizzare le produzioni culturali che si sono succedute nel tempo, guardare a come esse si sono proposte all’esterno, a quali legami si sono intessuti, e sono tuttora in via di creazione, tra l’Ex Pastificio Cerere e le altre realtà culturali della città di Roma. Carattere specifico dell’approccio a tale soggetto sarà di conseguenza la varietà dei documenti e delle testimonianze da cui trae la propria validità storica e i propri stimoli critici. I percorsi personali dei singoli artisti residenti alla Cerere hanno poi costituito i fili con cui tessere la storia comune di questo luogo. Ognuno con la propria specificità, il proprio spessore, la propria consistenza, ha contribuito a disegnare la trama di una ricerca composita e complessa. Le testimonianze orali e la frequentazione diretta di alcuni tra gli artisti che hanno vissuto o tuttora vivono e lavorano nell’Ex Pastificio hanno costituito certamente la base più consistente dell’analisi. È prima di tutto nelle parole di Giuseppe Gallo, Nunzio Di Stefano, Piero Pizzi Cannella, Luigi Campanelli, ma anche dei più giovani Pietro Ruffo, Maurizio Savini (solo per citare alcuni nomi), che sono emerse l’importanza e la fisionomia del luogo che qui è descritto. L’Ex Pastificio costituisce lo scheletro strutturale dell’analisi storica qui intrapresa e in un certo senso ha influenzato la conformazione della ricerca stessa. Le mura di cemento esterne trovano corrispondenza nella solidità dei riferimenti alla base dal mio studio, rappresentati dalla specificità spazio-temporale del luogo e dei limiti storici dell’analisi. Tuttavia, come le mura dell’edificio industriale in questione sono aperte dalle grandi finestre che illuminano gli spazi interni, così la presente ricerca sarà caratterizzata da continui e frequenti “uscite” verso l’esterno, sia nella realtà del quartiere in cui il palazzo sorge, sia nella più generale situazione dell’arte romana, italiana e internazionale nel periodo storico di riferimento. Le finestre del Pastificio diventano dei punti di osservazione privilegiati su tali realtà, dei binocoli attraverso cui poter guardare da vicino alle dinamiche artistiche del tempo. Tale apertura ci è stata suggerita anche dalla recente pubblicazione di un volume dal titolo storie. Pastificio Cerere andata e ritorno, che raccoglie gli scatti del fotografo Ottavio Celestino, anch’egli residente presso l’Ex Pastificio, aventi come protagonisti undici artisti della Cerere: Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Ileana Florescu, Rossella Fumasoni, Giuseppe Gallo, Nunzio, Oliviero Rainaldi, Pietro Ruffo, Maurizio Savini, Marco Tirelli. Roma, nella lunga prospettiva che va dagli anni Sessanta ad oggi, si sono avvicendate almeno quattro generazioni di artisti ed una quantità di scuole romane da rendere una complessa, quanto interessante, geografia cittadina. Una delle più note denominazioni e forse anche la più ambigua, nata in questo periodo, è la Scuola di Piazza del Popolo. Come ha rilevato recentemente Cesare Vivaldi, con questa definizione si vuole designare un gruppo di artisti, riuniti intorno alla galleria La Tartaruga, che in quegli anni aveva sede nella piazza, e non per "la presenza in quel luogo del Caffè Rosati punto tradizionale di incontro degli artisti a Roma".

Eppure, a leggere una testimonianza di Fabio Mauri, dal significativo titolo: Nel 1960 gli anni cinquanta avevano 10 anni, si avverte il vitale clima di quegli incontri, degli scambi, delle discussione, degli amori e degli interessi degli artisti che si incontravano, al primo piano del Caffè Rosati, all’ìnizo degli anni Sessanta. Basterebbe scorrere i nomi degli artisti ricordati per comprendere quali e quanti intrecci si intessevano in quel luogo: Afro, Mìrko. Burri, Scialoja. Perilli, Novelli. Dorazio, Turcato e De Kooning, Kline, Guston, Rothko, Marca-Rei i, Twombly, Rauschenberg, Stella. Saul e altri ancora. Tutti, come ricorda Vivaldi, "bazzicavano da Rosati", così come Restany, Eco, Castellani. Rotella e gli artisti più giovani che timidamente si affacciavano all’angolo della piazza, ed ancora Castelli e la Sonnabend. Dunque, un luogo di scambio e di confronto continuo: ai sostenitori imperituri dell’Informale sì avvicendavano i promotori di quel nuovo linguaggio che presto si connoterà, nella sua fase matura, come Neo-dada. Di fatto, era già in atto una revisione del linguaggio informale, dominatore indiscusso degli anni ’50, che approderanno da li a poco, ad un definitivo logoramento.
Alcuni artisti si impegnarono nell’ampliamento del repertorio espressivo a partire da quelle posizioni. II risultato sarà quello di una pittura ancora fatta dì densa materia, di gesto, di segno. Una pittura carica di umori interiori su cui campeggiano, e questa è la novità, oggetti di uso comune, provocatori di una imagerie del quotidiano. Da più parti si rivendica la precedenza degli artisti romani su quelli nord-americani. L’affermazione di Mauri vuole alludere proprio a questa maturità, raggiunta a Roma già alla fine degli anni Cinquanta, con cui bisogna fare i conti.
Nel ’59 presentando la mostra Giovane pittura di Roma, proprio alla Tartaruga, Vivaldi scrive: " La prospettiva non è più l’astratto-concreto, non è più ì’informel, non è più nemmeno l’action painting. L’uomo faticosamente sta recuperando quanto di sé ha potuto salvare da innumerevoli naufragi. Memorie, conoscenza, sogni. Quel che è sopravvisuto del vecchio mondo e del visibile si fonde ed integra con i risultati sempre nuovi dell’esplorazione interiore" Anche il gruppo di Continuità, formato nel 1961 da Consagra, Dorazio, Novelli, Perilli a cui si aggiunsero, in un secondo momento Bemporad, Fontana, Giò e Arnaldo Pomodoro e Turcato reagì allo svuotamento espressivo della pittura informale ridotta, ormai, a puro gioco stilistico. In questi termini si esprimeva Argan presentando la mostra Continuità a Torino un gruppo e non hanno una direzione comune. Cercano di uscire da una situazione, senza chiedere scusa e impegnarsi a mettere giudizio. Questa, di non sconfessare la situazione da cui si vuole uscire, è già una prova di serietà. All’arte di materia e di gesto questi artisti non obiettano, com’è stolto costume, d’essere diventata un’accademia, ma solo di essere ancora, suo malgrado, arte di rappresentazione o di forma". Ma se l’intento comune con gli altri artisti era di uscire dall’impasse informale, le possibili vie da intraprendere erano diverse. Nel 1963 due avvenimenti decretano te il superamento dell’informel, il nume dedicato al tema. Dopo l’Informale ed una mostra, realizzata nell’ambito della Biennale d’Arte di San marino, dal titolo Oltre l’Informale. In particolare, nell’anno seguente, il successo degli artisti neo-dada americani alla XXXII Biennale di Venezia segna il definitivo superamento di quella espressione che oggi possiamo considerare inequivocabilmente legata agli anni Cinquanta. Posso dire che la Nuova Scuola Romana è stato un movimento nato in contemporanea allo sviluppo della Transavanguardia italiana, ma rimase nell’ombra del gruppo di Bonito Oliva. Il gruppo di via degli Ausoni si costituì in maniera misteriosa e silenziosa senza fare uso delle tecniche di pubblicizzazione impiegate dalla Transavanguardia. Essa venne, infatti, “scarsamente veicolata dai media”. Roberto Gramiccia in La Nuova Scuola Romana.
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I sei artisti di via degli Ausoni aveva definito il fenomeno della Scuola Romana come un “insider-legend”, formato da giovani artisti esordienti della Roma degli anni Ottanta . Gli artisti del gruppo condividevano ideologie simili ed erano uniti da uno spirito di amicizia e di affinità che li portava a lavorare fianco a fianco all’interno dell’ex Pastificio Cerere. Proprio per questo il gruppo può essere considerato quasi come una “comunità”. Gli artisti operavano mediante una forma di autogestione, avevano infatti il desiderio di esprimersi liberamente. È interessante analizzare come nell’evoluzione del gruppo, lo stesso pastificio in cui lavoravano gli artisti aveva rappresentato il nucleo, il cuore pulsante del movimento . Fu proprio grazie allo spazio entro cui realizzavano le loro opere che crebbe in loro una “poetica di recupero di una valenza individuale di continuo rapporto col fare nel silenzio sedimentato di quello spazio” . L’ aria malinconica del complesso, la struttura in declino, il cortile buio e decadente, i corridoi labirintici rappresentavano quindi l’anima del gruppo. L’edificio era composto da quattro piani in mattoni e colonne di ghisa. L’immobile dalle imponenti forme si trovava all’incrocio tra via Tiburtina e via degli Ausoni. Il complesso in cui lavorarono gli artisti della Nuova Scuola Romana si chiama tutt’oggi con l’appellativo “Cerere”, esso comprende gli edifici ed i cortili che si affacciano su via Tiburtina, via degli Ausoni e la piazza dei Sanniti . Il complesso industriale è uno dei più antichi del quartiere San Lorenzo che in quegli anni venne arricchito da un’aura artistica; è infatti in tale periferia che si svilupparono vibrazioni politiche e culturali. Il molino Cerere era stato abbandonato nel 1960 a causa della profonda depressione economica che colpì gli anni precedenti e la distruzione di gran parte dell’agglomerato fu dovuta alla Seconda Guerra Mondiale. Successivamente, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta che gli spazi abbandonati dell’edificio vennero occupati da giovani artisti che vi fondarono il proprio atelier . Tra i primi partecipanti del gruppo della Nuova Scuola Romana, coloro che occuparono inizialmente gli spazi dell’ex pastificio Cerere furono Nunzio e Luigi Quintili (1946) e solo successivamente Walter Gatti (1949) e Giuseppe Gallo (1954). Li seguirono poi Luigi Campanelli (1943), Angelo Calligaris, Gianni Dessì (1955) e Oscar Turco (1949). Come ultimi affittuari arrivarono anche Marco Tirelli (1956), Pizzi Cannella (1955) e Bruno Ceccobelli (1952). Negli anni nel pastificio giunse una moltitudine di personalità, ricordiamo Sabina Mirri (1957), Guglielmo Conte (1952), Michele Melotta, Maurizio Savini (1962), Enrico Gallian (1945), Fabio Ventura e tanti altri . Nel panorama artistico tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta trovarono spazio personalità quali Fabio Sargentini, Ugo Ferranti e Gian Enzo Sperone che si fecero forti promotori dei giovani artisti dell’ex pastificio Cerere . Degli artisti di via degli Ausoni si è venuti a conoscenza solo posteriormente alla loro nascita, nel momento in cui diversi partecipanti del gruppo lo abbandonarono dopo il fermento artistico degli anni Ottanta. Tuttavia una delle particolarità dell’ex pastificio Cerere, ancora oggi attivo, consiste nel fatto che nessuno dei suoi artisti ha davvero lasciato gli “Ausoni”. Come aveva teorizzato anche Bonito Oliva, negli anni Ottanta si è assistito alla fine degli ismi, non esistevano più veri e propri gruppi entro i quali identificarsi, ma assumeva importanza ciascuna personalità del gruppo che lavorava in maniera indipendente e autonoma rispetto al resto degli artisti. Si attribuiva dunque importanza alle “piccole narrazioni” come affermava Roberto Gramiccia secondo cui “l’ex pastificio di via degli Ausoni era un’officina di questa nuova ‘piccola narrazione’ che incarnava un’attitudine melanconico-intellettuale, scettico-manieristica, alla ricerca di una propria, specifica posizione dopo lo Sturm und Drang della Transavanguardia”. L’indagine artistica del movimento aveva come obiettivo il raggiungimento dell’isolamento poetico. Gli artisti del gruppo erano spinti dal desiderio di analizzare le tradizioni culturali romane, allontanandosi tuttavia dai modelli di pensiero conosciuti. A differenza degli altri movimenti degli anni Ottanta che stavano acquisendo fama anche a livello internazionale, il gruppo di via degli Ausoni ne era distante, gli artisti preferivano infatti un’atmosfera delicata, sensibile ed elegante come quella di Roma, non erano dunque interessati ad un riconoscimento oltre i confini regionali. Roberto Gramiccia all’interno del suo testo ricorda il ricercato lavoro degli artisti della Nuova Scuola Romana, in quali esploravano “le strade dell’intensità, delle raffinate indagini, ricercavano la legittimazione alla raffigurazione plastica e visuale in un periodo in cui nessuna narrazione poteva aspirare a una legittimazione universale, in un’epoca in cui non c’era un indirizzo unico, omogeneo, monolitico e valido per tutti” . Il loro lavoro era caratterizzato proprio da una forza nascosta, da una costante ricerca di energie alternative. Come la Transavanguardia ed i gruppi contemporanei alla Nuova Scuola di via degli Ausoni, la loro ricerca si sviluppava intorno alla volontà di recuperare la figurazione impiegando come mezzo prediletto la tecnica pittorica. Il loro scopo era infatti di riconoscere l’importanza all’attività manuale, dell’artigianalità del loro lavoro. Gran parte delle loro opere possono infatti essere associate alle opere degli artisti del rinascimento per una ragione tecnico-strumentale. La principale differenza che intercorse tra gli artisti della Nuova Scuola Romana e i gruppi coevi consiste nella diversa concezione della “storia”. Mentre per la Transavanguardia italiana e altri gruppi postmoderni la storia veniva considerata come un concetto oramai finito, per il gruppo dell’ex pastificio quest’ultima non era ancora terminata, anzi, sentivano ancora di farne parte. La particolarità del gruppo consisteva nella scarsa rilevanza che attribuivano gli artisti agli esiti delle loro opere, il loro era infatti un atteggiamento mentale, essi appartenevano ad un “gruppo-non gruppo” proprio perché non pubblicizzarono mai il loro operato, non esisteva quindi neanche un manifesto del movimento. Un’altra delle differenze sostanziali è il diverso atteggiamento nei confronti del mercato dell’arte, realtà fondamentale per Bonito Oliva e superflua per la Nuova Scuola Romana.
Gli artisti appartenenti al secondo movimento erano difatti liberi da qualsiasi tipo di condizionamento. Quest’ultimi avevano così delle caratteristiche analoghe a quelle delle avanguardie dei primi del Novecento e alle neoavanguardie, proprio per la totale libertà espressiva che li caratterizzava. Ciò che rifiutavano era infatti una etichetta, erano contrari a qualsiasi tipo di categoria e si rifiutavano quindi di partecipare a programmi e progetti comuni . Una delle peculiarità del gruppo consisteva nella volontà di lavorare in consonanza con le linee guida di quello che Gramiccia definisce come uno “strabismo” progettuale, che si concretizzava nella convinzione che l’aspetto più importante dell’indagine artistica fosse la possibilità guardarsi intorno e non verso il passato. È proprio per queste ricerche che il “gruppo-non gruppo”, così definito da Gramiccia in La Nuova Scuola Romana. I sei artisti di via degli Ausoni, può essere categorizzato nella dimensione del postmoderno. Gli artisti, attivi alla fine degli anni Settanta, nel periodo in cui si andava verso un ritorno al figurativo, e alla ricerca di esperienze poetiche legate alla tradizione, erano consapevoli di questa duplice esistenza di “astratto” e di “figurativo”: “entro questo orizzonte ‘l’astratto’ non si dava più in divenire. Entro questo orizzonte ‘l’astratto’ non si dava più solo come espressione soggettiva autoreferenziale. E il figurativo non si dava più come, più o meno politicizzata, meccanica traduzione in pittura del reale. Aniconico e iconico convivevano quindi in un unico archivio linguistico in grado di racchiudere scuola e tradizione, ma anche invenzione e spericolatezza” – Roberto Gramiccia . La personalità principe, se non la più influente del gruppo della Nuova Scuola Romana, fu quella di Toti Scialoja, che durante la sua cattedra presso l’Accademia delle Belle Arti di Roma, aveva avuto modo di conoscere Ceccobelli, Dessì e Tirelli. Toti Scialoja come affermo l’artista Tirelli, nel suo lavoro era in grado “di rapportarsi alle cose in maniera profonda e sensata” . Aveva una visione del mondo e dell’arte che oltre ad una dimensione estetica, ne aveva altre, come quella etica e gnoseologica. La sua carriera era iniziata già nei primi anni Trenta. Dopo una prima carriera da scenografo, nel dopoguerra l’artista entrò a far parte del gruppo “Quattro artisti fuori strada”. Pochi anni dopo, agli inizi degli anni Cinquanta fu anche illustratore, poeta e scrittore. La sua peculiarità fu infatti la capacità di far diventare l’arte un’esperienza totalizzante, capace di annoverare oltre alla pittura altri campi della cultura come la musica, la letteratura e la poesia. È sempre in questi anni che abbandona quasi del tutto il figurativo e si avvicina all’astratto. L’artista viene spesso ricordato per aver realizzato nel corso degli anni Sessanta le “impronte”, realizzate su qualsiasi tipo di supporto . Tra gli artisti che si unirono per primi al gruppo ricordiamo Ceccobelli, Dessì e Gallo, i quali avevano partecipato ad una delle loro prime mostre presso la galleria Ferranti. È da ricordare, tuttavia, che già nell’anno precedente Giuseppe Gallo insieme all’artista Nunzio, avevano iniziato a condividere lo spazio entro l’ex panificio Cerere.
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È nei primi anni Ottanta che critici e galleristi del tempo iniziarono ad etichettare i gruppi che stavano prendendo forma in quegli anni. Nello specifico è proprio a partire dal 1983- 1984 che i critici iniziarono a delimitare e definire teoricamente i gruppi. In occasione di una rassegna Bolognese che vide protagonisti Nunzio, Pizzi Cannella, Tirelli, Sergio Ragalzi, Enrico Luzzi e Giancarlo Miloni, quest’ultimi vennero inclusi nella “Nuova Scuola Romana”. Anche Maurizio Calvesi aveva cercato di trovare un appellativo che chiarisse ciò che li accumunasse e aveva ideato a tal proposito la denominazione “Scuola di via del Paradiso”, indicandone la nascita presso la galleria “attico di Sargentini” a Roma e non presso l’ex pastificio Cerere. Tra gli altri appellativi che gli hanno attribuito: “Gruppo di Sal Lorenzo” e “Gruppo di via degli Ausoni” . Altra mostra che definì le personalità più rappresentative del gruppo, che si tenne nel dicembre del 1983 presso la galleria Extemporanea organizzata da Fabio Sargentini, con la durata di tre giorni, parteciparono in totale ben otto artisti: Marco Tirelli, Giancarlo Limoni, Luzzi, Pietro Pizzi Cannella, Nunzio, tutti di Roma e Ragalzi di Torino, Merlino di Napoli e Corona di Milano. Gli artisti non erano soliti aprire i propri spazi al pubblico, era difficile infatti che si potesse accedere liberamente alle sale dell’ex pastificio.
Tuttavia, in occasione della mostra “Ateliers” organizzata nell’estate del 1984 dal critico Achille Bonito Oliva, gli artisti decisero di aprire le porte al pubblico, offrendogli così la possibilità di conoscere gli spazi entro cui abitavano e lavoravano gli artisti del gruppo. Questa mostra sancì definitivamente la nascita della Nuova Scuola Romana, con la partecipazione delle personalità chiave del gruppo: Ceccobelli, Dessì, Pizzi Cannella, Nunzio e Tirelli. La mostra parte dalla Facoltà di Lettere e Filosofia e si snoda negli spazi della gipsoteca e nelle aree limitrofe, in un’aula per la didattica, nei vani scale sino a occupare il soffitto del quinto piano dell’edificio di Letteree si concentra particolarmente su quegli esiti che hanno visto la materializzazione di ‘figure’ a fare ‘spazio’. Ciclo, questo, che fa seguito a quello delle cameraepictae spazi dove a un solo colore, il giallo o talvolta il rosso, veniva dato il compito di abitarlo e ridefinirlo, mettendofuori chi guarda,a trovare, come nell’anamorfosi, il punto di vista. Qui, invece, è l’apparizione delle ‘figure’ a prendere lo spazio, a costituire una relazione, spesso riempiendolo, come accadde nel 2006 a Roma a Villa Medici, con “Bianco e Nero”, primo lavoro di questo ciclo. La mostra prende avvio sul primo pianerottolo di sinistra appena percorso il corridoio centrale della Facoltà di Lettere con “
Nome e cognome” (2015), sorta di ritratto/autoritratto/campana, in ceramica raku, appesa in alto trattenuta solo da fili usati per la pesca d’altura, che a raggera, partendo dalla sommità della testa, vanno ad annodarsi su diversi punti nei lati del soffitto. Sul pianerottolo di destral’opera “
Confini l” (2007), appesa anch’essa al soffitto dal polsoa farci segno, segnando sul pavimento un cerchio bianco. Uno sguardo in su ci fa scorgere “
Quadro Ovale” (2023), riedizione di un’opera presentata a Parigi nel 1994, all’Istituto Italiano di Cultura. Varcata la porta del museo, è “
Confini lll” (2009) a venirci incontro, due enormi piedi sovrapposti che vanno quasi a congiungersi all’altezza degli stinchi, al centro di un vasto cerchio nero e giallo posto sulla parete dietro.
Testa, dunque, mano e piedi, i tre limiti, i confini.
Sulla sinistra, e poi ancora sulla destra, due altre opere attirano l’attenzione: “
Uno, due e tre”(2004/2005), gruppo a tre figure, appunto, che accostato sembra quasi stabilire una conversazione, unita e accecata dal rettangolo nero che le invade stagliandosi netto se visto dal suo proprio punto di vista. Al suo opposto “
Intreccio” (2007): figure acefale, intrecciate in una presa erotica a suggerire il tatto. Continuando nei due corridoi, anch’essi gremiti da grandi calchi classici, sul lato sinistro la mostra prosegue con il grande dipinto “
Conversationpieces XIX”(2021) olio su tela e tempera su muro, diciannovesima e ultima opera del ciclo da cui prende nome, dove l’immagine stavolta è bidimensionale e appare grazie al bianco della tela e alla pastosità del nero. Il ciclo di queste opere sono della stessa dimensione e tecnica, aperte alle immagini multiple dove al gesto dell’apporre colore sulla superficie che le conforma sembrano rispondere immagini strette nel loro fare, di qui la ‘conversazione’ tra i due moti, a celebrare la pittura come produzione di immagine. In mostra altre opere si inseriscono tra le alte figure dei gessi a creare veri e propri contrappunti visivi, come i tre quadri, realizzati anch’essi con un unico colore, questa volta dorato, riflettente alla luce. Diversi, per quantità, sono i ritratti che vanno a costituirsi come luoghi, dove è ai tratti somatici che viene dato il compito di definire lo spazio e al colore quello di sottolineare la ‘gravitas‘. L’opera di Gianni Dessì si costruisce intrecciando trame di colore con materiali vari sino a farsi visione, come in molte di queste opere, dovele superfici di rete metallica, torcendosi, trovano volume e immagine su cui anche la pittura interviene introducendo ulteriori spazi in un gioco di fughe sempre in bilico tra fisico e virtuale. A questo dilemma e a questa temperatura l’artista consegna il proprio senso, in questa mostra, dove le tante storie si fanno storia: presenze del nostro immaginario che si materializzano, occupano spazio e si accalcano quasi a dar conto della propria fantasmaticità, per dire di noi, della nostra presenza. In occasione della mostra è prevista la pubblicazione di un
libro-catalogo (Campisano Editore. Collana Saggi di storia dell’arte) a cura di Paola Bonani, che conterrà una prima parte a commento dell'opera ”Controluce” oggetto della donazione, con testi di Micol Forti, Carla Subrizi e Claudio Zambianchi e scritti sulla mostra di Giovanni Careri e Denis Viva.
Gianni Dessì – Biografia
Nasce a Roma nel 1955, dove vive e lavora. Nel 1976 si diploma all’Accademia di Belle Arti con Toti Scialoja. Nel 1979 tiene la prima mostra personale alla Galleria Ugo Ferranti. Del 1984 espone alla mostra
Ateliers curata da Achille Bonito Oliva, in occasione della quale Dessì e gli altri artisti della Nuova Scuola Romana aprono al pubblico i loro studi nell’ex pastificio Cerere nel quartiere di San Lorenzo, luogo che diviene in quegli anni centro vitale per della cultura artistica nazionale e internazionale. Partecipa alla Biennale di San Paolo nel 1981 e alla
12e Biennale de Paris nel 1982. È invitato per due volte alla Biennale di Venezia nel 1984 e nel 1986, anno in cui partecipa per la prima volta anche alla Quadriennale di Roma. Nel 1995 si tiene un’ampia personale alla Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Trento, curata da Danilo Eccher. Nel 2006 tiene un’importante retrospettiva al MACRO di Roma. Nel 2009 espone al MART di Rovereto nell’ambito della mostra
Italia Contemporanea. Officina San Lorenzo. Dalla sua iniziale collaborazione con il gruppo teatrale de “La Gaia Scienza” a metà degli anni Settanta, Dessì ha costantemente lavorato per il teatro realizzando, fra le altre, le scenografie per il
Parsifal di Wagner, con la regia di Peter Stein e la direzione musicale di Claudio Abbado al Festival di Salisburgo del 2002; la scenografia, le luci e i costumi per
Il cielo sulla terra di Stefano Scodanibbio, presentato nel 2006 a Stoccolma; nel 2008 le scene per l’opera di Bela Bartok
Il castello del duca Barbablù al Teatro la Scala di Milano e nel 2015 le scene e costumi per l’opera
Il suono giallo di Alessandro Solbiati, ispirato al testo originale di Vassilij Kandinsky. Numerosissime le mostre personali presso le gallerie private: Ugo Ferranti a Roma (1980, 1981, 1982), Folker Skulima a Berlino (1981, 1982, 1985, 1987), Gian Enzo Sperone a Roma (1985, 1986, 1989) e Sperone Westwater a New York (1985, 1987, 1991), Triebold a Basilea (1989) e L.A. Louver a Venice, Los Angeles (1989), Alessandro Bagnai a Siena (1990, 1995, 2000, 2008), Volker Diehl a Berlino (1991), Gian Ferrari a Milano (1992), Galleria Otto a Bologna (1993, 1996, 2001, 2005), Galerie Di Meo a Parigi (1994,1999, 2005), Galleria dello Scudo di Verona (2001, 2010). Di recente importanti mostre dell’artista sono state ospitate in istituzioni pubbliche:
Tutto in un fiato al Musée d’Art moderne de Saint- Etienne (2011);
Vis à vis all’Accademia di Belle Arti di Carrara (2012);
Senza titolo al Museum Biedermann di Donaueschingen (2012-2013);
View Vista alla New York University (2013);
Tutto insieme al Museo d’arte contemporanea di Lissone (2014). Nel 2014 partecipa all’esposizione
Ambiguity and Destiny. The italian collection al Parkview Green di Pechino, in quell’occasione gli vengono commissionati tre grandi bronzi colorati, che sono istallati all’ingresso del grande centro a Pechino nel 2015. Le sue ultime esposizioni personali si sono tenute alla Fondazione Pastificio Cerere e alla galleria Progettoarte Elm di Milano nel 2015, alla Galleria Nicola Pedana di Caserta nel 2016, alla Raab Galerie di Berlino e al Parview Museum di Pechino nel 2017. Nel 2021 subito dopo la fine della pandemia è la volta di una mostra alla Nuova Pesa di Roma e alla galleria di Alessandro Bagnai vicino Cortona, l’una con il titolo
Per voce sola e l’altra con
Terra/Terre. Dal 2016 al 2018 è stato presidente dell’Accademia Nazionale di San Luca di Roma. Ha insegnato pittura all’Accademia di Belle Arti di Carrara e poi all’Accademia di Belle Arti di Frosinone. È stato
Artist in Resident del Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte (Saras) dell’Università La Sapienza Roma. Attualmente è Presidente dell’Accademia di Belle Arti di Macerata.
Museo dell’Arte Classica de La Sapienza Università di Roma
Gianni Dessì. Tutto Pieno
dal 4 Aprile 2023 al 21 Luglio 2023
dal Lunedì al Venerdì dalle ore 9.00 alle ore 19.30
Sabato e Domenica Chiuso
Foto Allestimento della mostra Gianni Dessì. Tutto Pieno credit © Andrea Veneri