In mostra al Museo del Novecento di Firenze
Giovanni Cardone Maggio 2024
Fino al 9 Giugno 2024 si potrà ammirare al Museo del Novecento di Firenze la mostra dedicata ai disegni di Jannis Kounellis “La stanza vede. Disegni 1973-1990” con la direzione artistica di Sergio Risaliti e a cura di Dieter Schwarz. L’esposizione è realizzata in collaborazione con Spirale d’Idee.
La mostra al Museo Novecento tiene quindi conto del disegno sia come progetto e idea, sia come pratica a sé stante, e del suo ruolo centrale nella storia dell’arte fiorentina. Proprio in base a questo presupposto storico, dal 2018 il Museo Novecento ha avviato un programma di mostre dedicate alle opere su carta. Ne sono nate diverse esposizioni come
Il Disegno dello scultore, alla quale hanno fatto seguito le personali di Henry Moore e Tony Cragg e molte altre. Anche nella personale dedicata a Jenny Saville del 2021 i disegni hanno avuto un ruolo centrale. Adesso, il museo accoglie con emozione questa serie di cento e più disegni realizzati da Kounellis dal 1973 in poi, fino agli anni Ottanta.
L’esposizione suggella il forte legame umanistico di Kounellis con la città di Firenze: una relazione e una presenza dipese, a partire dai primi anni Settanta del secolo scorso, dall’attrazione esercitata su di lui dalla cultura figurativa del primo umanesimo rinascimentale.
Un legame sottolineato anche da alcuni eventi che restano nella memoria della città e che hanno visto come protagonista la grande arte di questo maestro del Novecento: dalla sua performance nella Galleria Area del 1975, all’installazione in Santa Maria Novella del 1977, fino al 2017, anno in cui la presenza di Kounellis a Firenze si è fatta sentire di nuovo con la mostra Ytalia, quando le sue opere sono state esposte a Palazzo Vecchio e Galleria degli Uffizi. L’arte di Jannis Kounellis torna adesso a Firenze con una mostra che presenta un centinaio di disegni eseguiti su carta, per lo più a china, matita, carboncino, tra gli anni Settanta e Ottanta, esposti integralmente per la prima volta nel 1990, in una esposizione curata da Rudi Fuchs dal titolo
La stanza vede al Gemeentemuseum Den Haag dell’Aia. La mostra fu l’occasione per verificare un diverso aspetto della poetica dell’artista, conosciuto come uno dei protagonisti dell’Arte Povera, e della sua indubbia qualità di grande maestro del disegno, secondo le inclinazioni più ricorrenti degli artisti moderni dal Quattrocento in poi. I disegni erano appunti di concetti che interessavano Kounellis e sui quali rifletteva assiduamente. Alcuni di questi, che sviluppava e variava continuamente, trovarono la loro materializzazione nelle sue opere. Essi rappresentavano un’idea di radicalità che, rapportata a quella dei suoi contemporanei americani, Kounellis descrisse come “un diverso concetto della radicalità, meno formale, più fluido e meno dogmatico, senza protezioni, più folle.” Per Kounellis con il disegno era possibile trascendere i limiti e conquistare delle potenti metafore. In una mia ricerca storiografica e scientifica sull’Arte Povera e in particolar modo sulla figura di Jannis Kounellis apro il mio saggio dicendo : Il lasso di tempo compreso tra il 1966 e il 1972 è stato consacrato a quella che Lucy Lippard definisce la “smaterializzazione dell’oggetto artistico”, quella tendenza volta a riconsiderare l’arte come processo fisico e mentale che caratterizza fenomeni coevi variamente etichettati come Antiform, Body Art, Land Art o Arte Concettuale. Nel testo introduttivo al catalogo di When Attitudes Become Form, tenutasi alla Kunsthalle di Berna nel 1969, Harald Szeemann fa notare però che ciascuna di queste esperienze colga e sviluppi solo un singolo aspetto di un fenomeno ben più complesso e unitario. Alla base di simili osservazioni vi è infatti coscienza del fatto che le ricerche incentrate sulle proprietà chimiche e fisiche della materia, sulla verifica del proprio essere-nelmondo e sul linguaggio, facciano capo a un medesimo problema, quello del rapporto tra l’uomo e il suo ambiente. Per questo motivo il critico svizzero trova un denominatore comune a tutte queste esperienze nel concetto di “attitude”, indicando con esso attività continuative svolte mediante l’applicazione di specifiche capacità operative. La proposta szeemanniana trova rapida ricezione in Italia dove si inizia a utilizzare in modo sempre più consapevole il termine di “comportamento” che, pur apparendo in vari testi critici già a partire dal 1967, trova la sua sanzione definitiva al Padiglione Italia della Biennale di Venezia del 1972. A differenza di etichette come Antiform, Body Art o Land Art, quella di Comportamento assume un ruolo di sistemazione critica e teorica, provvedendo a una possibile unificazione delle esperienze menzionate, individuando un denominatore comune nell’agire dell’artista, nell’esercizio di facoltà fisiche e mentali, estetiche e noetiche. La vasta ed eterogenea area di ricerche comportamentali degli anni Sessanta e Settanta mira infatti a indagare gli infiniti modi in cui l’uomo si relaziona al proprio ambiente, mettendo in luce la natura profondamente “transattiva” dell’esserci, il profondo legame tra uomo e mondo. È ciò che insegnano le filosofie della percezione e dell’esperienza come la fenomenologia e il pragmatismo, che costituiscono difatti i più sicuri poli teorici per comprendere simili ricerche artistiche, nate in sintonia con una rivoluzione mediale che amplia e velocizza in modo significativo le possibilità comunicative e percettive dell’uomo, stimolando indagini estetiche a tutto campo. Se la stagione artistica precedente, con l’esplosione della Pop Art, veicolava i valori di una società dell’avere, con ingombranti soluzioni oggettuali che riducevano il soggetto a un grado minimo o nullo, la stagione del Comportamento riabilita i valori dell’essere e riscopre il soggetto umano come entità mutevole e ricca di energie fisiche e mentali cui dare nuova voce.
Da qui anche l’attenzione rivolta ai processi primari della materia, alle reazioni fisiche e chimiche dei materiali e alle loro attività energetiche, paradigmi di un divenire vitale del mondo in progressione continua. Le spinte dell’organico e quelle di una corporalità vissuta nelle sue manifestazioni più essenziali ed elementari tornano perciò a farsi sentire, come ai tempi dell’Informale, ma con la possibilità di lasciare tracce più estese, affidandosi a dotazioni tecnologiche portatrici di un’energia affine a quella umana. È ciò che emerge con particolare forza dalle prime soluzioni dell’Arte Povera, una tendenza articolata e polimorfa volta ad azzerare i significati, a impoverire il portato semantico di azioni e situazioni in favore del loro puro valore di esperienza. Ciò avviene tanto sul piano di una ricerca fisica che Piero Gilardi ha definito “microemotiva”, ossia volta a esaltare l’operosità delle energie primarie e naturali, quanto su un piano largamente concettuale, dove ogni aspetto del mondo, dal più elementare o banale al più colto e sofisticato, viene sottoposto a una ridefinizione estetica, secondo l’importante lezione di Marcel Duchamp. Lo spostamento della pratica artistica dal piano delle forme a quello delle azioni e delle idee viene a coincidere inoltre con una radicale differenziazione operativa interna al percorso di ogni singolo artista che mette in crisi la secolare convenzione della coerenza stilistica. A una simile problematica la critica militante ha spesso risposto avanzando motivazioni di ordine ideologico, correlando l’estrema varietà operativa degli artisti del Comportamento alla libertà di azione sottesa al clima rivoluzionario del Sessantotto, sintetizzato nel famoso slogan dell’“immaginazione al potere”. A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta si registra infatti una spiccata disinvoltura tra gli artisti nel passare dalle pratiche del processo a quelle della performance o del concetto, dall’uso di materie naturali all’uso di citazioni colte, dal ready-made alla fotografia, dal video alla scrittura. In proposito si è spesso insistito su una voluta incoerenza di questi artisti che, secondo l’ottica poverista, tendono a un “libero progettarsi”, attestando una necessità di eludere categorie e incasellamenti di sorta. Questa apparente incoerenza si può motivare anche ragionando in una prospettiva non ideologica ma estetica, secondo quel paradigma che Enrico Crispolti ha definito “extra-mediale”. In quest’ottica, la pluralità di proposte di un singolo artista viene intesa come la naturale conseguenza dell’adesione alla varietà dell’esperienza, solcando il livello esistenziale-pragmatico e assumendo nella propria gamma mediale l’illimitato serbatoio dell’esistente. Operando, come nella vita di tutti i giorni, tramite una mutevole e progressiva pluralità di segni, mezzi e materiali, l’artista postmoderno non distrugge quindi la coerenza del proprio lavoro, ma la sposta dalla somatica delle forme, dalla pelle dello stile, all’intenzione e alla pertinenza estetica del mezzo di volta in volta selezionato e adoperato. Non si tratta dunque di un attacco al dogma della coerenza, ma di una coerente apertura al molteplice nella misura in cui il mondo e l’esperienza si danno come molteplicità. Di fronte a una così oscillante e mutevole eterogeneità di pratiche, il metodo di studio più fertile ai fini di una sistemazione critica è risultato essere quello, definito da Luciano Anceschi, di una fenomenologia delle poetiche, un approccio che nasce dalla crisi delle estetiche sistematiche volte ad assunzioni universalizzanti di aspetti parziali e, come tali, incapaci di risolvere la comprensione della realtà estetica nella sua complessità e nella sua variabilità. A fronte di quei sistemi “chiusi” che tendono a unificare il reale attorno a un principio assoluto e pretenziosamente immutabile, il sistema “aperto” della fenomenologia delle poetiche tende a ragionare per integrazioni continue a partire da quella che si configura come la riflessione degli artisti sul loro stesso fare, includendo i valori procedurali, ideativi e culturali che la alimentano. Valori che sono impliciti alle soluzioni attuate, ma che possono anche trovare esplicitazione attraverso dichiarazioni dell’autore stesso. In quanto tale, ogni poetica tende a imporsi come sistema universale, esclusivo e dogmatico, in corrispondenza alle necessità dell’artista di agire secondo una specifica visione del mondo e dell’arte, dando agli strumenti di volta in volta adottati significati storicamente o individualmente determinati. Il metodo della fenomenologia critica tende perciò a un’integrazione continua e mai definita una volta per tutte delle parzialità poietiche, rilevandone e rispettandone le intenzioni che le animano, poiché riconosce in ciascuna di esse uno sforzo teso ad arricchire la nozione stessa di arte. Opponendosi a qualsiasi rigidità essenzialistica, normativa e dogmatica, una simile impostazione metodologica si traduce in un mai esausto impegno a rilevare le strutture secondo cui una data cultura e una data realtà estetica si articolano e si organizzano. L’adozione di questo metodo in relazione alle vicende del Comportamento in Italia favorisce la possibilità di una rilettura critica del complesso fenomeno dell’Arte Povera, permettendo di rilevare la natura controversa e problematica dei suoi precetti teorici. Un riesame delle poetiche messe a punto dai suoi esponenti, in aperta comparazione con quelle di autori internazionali ascritti ai filoni dell’Antiform, della Land Art o dell’Arte Concettuale, fa emergere affinità operative sovranazionali utili a delineare in modo più chiaro le tendenze interne al movimento italiano, valutando inoltre la criticità di alcune inclusioni, come quella di Pino Pascali, e di alcune esclusioni, come quelle di Eliseo Mattiacci e di Paolo Icaro. Ragionando al di là di settarismi e schieramenti o, in altri termini, delle “chiusure” sistemiche del paradigma poverista, si è provveduto a una larga ricognizione delle esperienze concettuali-comportamentiste sorte e sviluppatesi negli stessi anni sul territorio italiano, individuando, per affinità o per differenza, forme e modalità mediante cui si articola il fenomeno artistico preso in esame. Affidandoci a una lettura comparata delle singole poetiche in relazione ai modelli teorici e alle nozioni critiche di quel periodo, è possibile rilevare, infine, tipologie operative e scelte estetiche peculiari che risultano peraltro determinanti nel porre le basi di futuri sviluppi dell’arte. Si rileva, infatti, in Italia, una precoce emersione di poetiche comportamentiste volte non a fredde verifiche e analisi di carattere esistenziale, ma a una totale ed entusiastica rivalutazione dell’immaginario, coadiuvata tanto dall’inevitabilità di un confronto con la tradizione artistica quanto dalla possibilità di un suo ripensamento mediante più aggiornati mezzi e materiali. Queste esperienze sono, a nostro avviso, agli albori della postmodernità più matura e, ancora oggi, ispirano e alimentano molta della migliore ricerca artistica in tutto il mondo. Nella seconda metà degli anni Sessanta, dopo una stagione dominata dalle forme chiuse della Pop Art e del Minimalismo, la ricerca artistica si orienta a un nuovo rapporto con la materia, optando ora per forme morbide e flessuose. Questa tendenza, rilevata e battezzata come Astrazione Eccentrica dalla critica statunitense Lucy Lippard nel 1966, promuove la valenza estetica delle proprietà fisiche dei materiali, in anticipo su quel fenomeno che l’artista statunitense Robert Morris avrebbe codificato nel 1968 come Antiform, rivendicando la priorità del processo sulla compiutezza della forma.
Questa processualità costituisce il cardine di una generale tendenza alla “smaterializzazione” dell’arte che tra gli anni Sessanta e Settanta si manifesta in numerose varianti, dagli interventi territoriali della Land Art alle azioni corporali della Body Art fino alle investigazioni noetiche della cosiddetta Arte Concettuale . Sono queste le tendenze che costituiscono quell’eterogeneo plesso di ricerca estetica cui si è attribuita l’etichetta di Comportamento , a indicare gli infiniti modi in cui l’artista può condursi nello spazio concreto dell’esistenza, divenuto ora il suo nuovo campo operativo. I primi sintomi di questa nuova situazione sono stati registrati in Italia da due mostre dell’estate 1967 che però vedevano ancora soluzioni acerbe, implicate con ricerche di stampo oggettuale e neo-concreto. In Fuoco Immagine Acqua Terra , tenutasi a L’Attico, a Roma, l’impiego di materie naturali provvede a vitalizzare lo spazio dell’arte facendolo quasi coincidere con quello fisico. Come rileva Maurizio Calvesi nel testo di presentazione, le opere in mostra si sottraggono sempre più a uno spazio illusivo per proiettarsi in quello reale, “esistenziale”, in un nuovo “rapporto d’attrazione dialettica”. Più intime relazioni tra materia e ambiente contribuiscono ora a convertire “la rappresentazione in presenza”, dandosi nell’attualità di uno spazio “esteso e coinvolgente” . Lo spazio dell’immagine, inaugurata a Foligno poche settimane dopo, mostra altre e più significative aperture in direzione di questo rapporto con lo spazio della vita, seppure ospitando ancora soluzioni plastiche ascrivibili agli ambiti pop-oggettuale e cinetico-programmato . La riflessione di Calvesi, nel testo in catalogo, si volge qui più apertamente a quelle che egli stesso ha definito le “strutture del primario”, in antitesi alle Primary Structures del Minimalismo newyorkese, alle stimolazioni percettive e agli elementi fisici e naturali che alimentano ora l’aspirazione al recupero di una dimensione primordiale del mondo: l’opera “si confronta, occupandolo, con lo spazio della vita” e assume adesso “la struttura di una esperienza aperta, collettiva, che implica relazione” . Nella stessa occasione interviene anche il critico genovese Germano Celant volgendo la sua attenzione alle ricerche plastiche e formulando la nozione di Im-Spazio, contrazione dell’espressione “immagine di spazio”, per definire proiezioni ambientali di soluzioni iconiche, di matrice pop-oggettuale, e aniconiche, di origine spazialista e cinetico-programmata, in cui l’immagine passa “dal significare lo spazio ad essere lo spazio” . Occupando delimitate porzioni di ambiente, ogni im-spazio si configura come un’entità artificiale a se stante che si addiziona all’ambiente stesso istituendo nuove ipertrofie plastico-visuali. Con una mostra alla galleria La Bertesca di Genova nell’autunno del 1967 Celant affianca poi alla nozione di Im-Spazio quella di Arte Povera, con la quale battezza un più immediato modo di relazionarsi con l’ambiente mediante l’esercizio di comuni facoltà comportamentali che riducono l’opera all’esibizione diretta di realtà fisiche . Ponendosi al di qua di ogni “complicazione retorica”, spiega Celant nel testo di presentazione della mostra genovese, l’Arte Povera non rielabora il mondo attraverso filtri formalizzanti ma si limita a presentare, a verificare, a constatare e a prendere atto dell’esistente nella sua flagranza perché crede “nel togliere, nell’eliminare, nel ridurre ai minimi termini, nell’impoverire i segni, per ridurli ai loro archetipi”. I linguaggi, i simboli e le convenzioni iconografiche si sbriciolano per lasciare il posto alle più elementari situazioni umane, secondo un carattere “empirico e non speculativo” della ricerca che punta soltanto a sottolineare “il dato di fatto, la presenza fisica di un oggetto, il comportamento di un soggetto”. La povertà dell’arte sta proprio in questa riduzione dei significati, in un impoverimento semantico dell’opera che si ridefinisce come mera presenza: si hanno così “la catasta come accumulo, l’incastro come incastro, il taglio come taglio, il mucchio come mucchio, equazioni matematiche di reale = reale, azione = azione”. La constatazione materica si evidenzia, presentandosi” e i più comuni oggetti dislocati nell’ambiente si costituiscono come “tautologie usuali di un nostro essere con e nello spazio”. La materia, l’azione e il processo dati nella loro nudezza, nel loro divenire, attuano ora un lavorio energetico di fondo che può avvenire tanto sul piano fisico quanto sul piano mentale, coinvolgendo indistintamente spazio, materia, sensi e pensiero. In quest’ottica l’estetica poverista trova un fondamentale appiglio epistemologico in John Dewey, osservatore dell’esperienza nella sua veste più grezza e primitiva secondo cui “il pensiero non è differente di specie dall’uso delle materie e delle energie naturali”. Le filosofie della percezione e dell’esperienza come il pragmatismo, l’esistenzialismo e la fenomenologia, costituiscono infatti i più adatti sostegni teorici in difesa di questa nuova concezione dell’arte . Quando Celant afferma che l’artista poverista “sceglie il direttamente vissuto, non il rappresentato” e che “si immerge nell’individualità perché sente la necessità di lasciare intatto il valore dell’esistenza delle cose” , sembra infatti accettare quell’invito di Maurice Merleau-Ponty a “ritrovare i fenomeni, lo strato di esperienza vivente attraverso cui l’altro e le cose ci sono originariamente dati” . L’esibizione della materia nei processi attivi della sua struttura biologica e l’esaltazione di ogni minima attestazione di esistenza, sono i presupposti di un agire multiforme, di un “libero progettarsi” volto a restituire degnità estetica ai processi del rapporto uomomondo. La ricerca poverista decreta infatti una piena “affermazione del presente e del contingente” promuovendo “una regressione dell’immagine allo stadio preiconografico” e intonando “un inno all’elemento banale e al primario” per un rinnovato ritorno agli elementi primigeni . Opponendosi alle logiche consumiste che hanno ridotto l’artista a “ingranaggio del meccanismo”, Celant entra infatti in aperta polemica con la Pop Art e con il Minimalismo, predicando per l’artista una condotta volta al recupero dell’esserci, all’evasione dal dogma della coerenza e alla conquista di una mobilità operativa “tesa all’identificazione azione-uomo, comportamento-uomo” volta al “senso emergente del vivere dell’uomo”. Riprendendo e approfondendo tali riflessioni, nel 1969, il critico genovese pubblica per l’editore milanese Mazzotta il volume Arte Povera includendo anche artisti europei e statunitensi afferenti ai filoni dell’Antiform, della Land Art, della Body Art e dell’Arte Concettuale, perseguendo un atteggiamento che non appare votato a istituire un movimento artistico chiuso e autonomo, quanto a rilevare una più generale tendenza, non soltanto italiana, dell’arte contemporanea, attribuendo alla definizione da lui coniata il carattere di una più ampia categoria estetica.
L’Arte Povera sembra perciò imporsi in quel momento come un modo per etichettare le ricerche di Comportamento nel loro complesso, proponendosi come un campo aperto di convergenze poietiche. Nel corso dei decenni, tuttavia, la trattazione critica di Celant ha comportato un riassorbimento di questa apertura, finendo per indicare l’avventura di un limitato gruppo di artisti italiani frattanto avviatisi su percorsi autonomi e di grande fortuna critica e commerciale. La rinascita del movimento negli anni Ottanta, voluta dal suo teorico in funzione di “conflitto”, contro il ritorno alla pittura di quel decennio, ha favorito sia la sua cristallizzazione sia la sua consacrazione nel solco di una presunta identità italiana proprio nel momento in cui il sistema artistico mondiale ne decreta una collocazione internazionale. Nel corso degli ultimi trent’anni circa è venuta perciò a imporsi, nel susseguirsi di grandi retrospettive, l’idea di un movimento circostanziabile a un ristretto numero di artisti italiani, in evidente contraddizione con le premesse storiche del fenomeno, che ha visto transitare al suo interno o al suo fianco anche altre e valide personalità. A ciò si aggiunge un’altra aggravante, ossia la scelta di esporre o di pubblicare anche nei cataloghi più sistematici opere estranee a quell’area di ricerca e appartenenti a periodi precedenti al 1967, atto di nascita dell’Arte Povera, o successivi al 1971, anno in cui lo stesso Celant aveva dichiarato conclusasi e fallita l’avventura poverista, facendole così rientrare nel suo alveo, ingenerando non poche confusioni sul piano della ricezione critica. Non si può certo negare un’operatività di gruppo in quello stretto giro di anni, ma non si può neppure ignorare l’eccessiva varietà delle soluzioni messe in atto, al punto da portarci ad asserire che quell’attività sia stata dettata perlopiù da contingenze, dalle occasioni espositive volute da Celant, piuttosto che da strette consonanze poietiche tra gli autori. Né possono bastare motivazioni di ordine ideologico, anch’esse dettate da un preciso e circoscritto clima, quello del Sessantotto, che non era esclusivo appannaggio dei Poveristi, perché sentito e sostenuto anche da artisti italiani pop, neo-concreti e cinetico-programmati.
La proposta celantiana di un’arte da definirsi “povera” presenta, già a partire dalle sue origini, incongruenze e contraddizioni che non permettono di individuarne una specifica natura. In primis, l’utilizzo ambiguo del termine “povero” che, dichiaratamente riferito alla dimensione semantica dell’opera, è stato spesso declinato dallo stesso Celant anche nella sua altra accezione di “umile”, a indicare l’ideologia di un rifiuto dei valori di una società borghese e consumista, con rimando al grande esempio di San Francesco , spogliatosi dei suoi averi in favore di un rinnovato contatto con la natura. Non manca certo, in alcune opere poveriste quali Il mio letto così come dev’essere del 1968 di Pier Paolo Calzolari oppure a Pane Alfabeto del 1969 di Giuseppe Penone, l’anelito a una riscoperta di una dimensione umile, di quello “stile dello stretto necessario” che trova solidi sostegni ideologici in Herbert Marcuse e in Goffredo Parise . Ma proprio la presenza di valori simbolici e retorici così forti in simili opere, cariche di afflato panico, contravviene al fondamentale proposito di un impoverimento semantico dell’opera. La contraddizione si fa ancora più evidente se si considera anche che inizialmente, secondo Celant, l’attenersi alla pura esistenza fisica debba implicare il rifiuto “di ogni scolastica concettuale”, mentre solo pochi mesi dopo definisce l’Arte Povera come “un ritorno al medioevo, non soltanto dal punto di vista tecnico” ma “anche poetico”. Si tratta di un legame ribadito con forza anche negli anni Ottanta, attraverso riconosciute radici, oltre che nel Medioevo, anche nel Barocco e nel Neoclassicismo, a detta del critico genovese, al fine di “sostenere l’impatto analitico del riduzionismo americano”, ma in evidente discordanza con i precetti della regressione deculturale e del ritorno al primigenio che ispirava le sue mosse iniziali. Suona poi come una contraddizione in termini quell’affermazione di Celant per cui l’Arte Povera costituisca “un inno all’elemento banale e primario” se si considerano le specifiche accezioni dei due aggettivi e i correlati valori estetici e sociali. Se il primo suole infatti indicare tutto ciò che si pone come ovvio, scontato o di scarso pregio nel mondo della secondarietà, cioè dei prodotti artificiali, il secondo indica invece le forze e le proprietà naturali e psichiche, come già rilevato da Calvesi, al punto da rendere impossibile la loro assimilazione. Questa impossibilità è stata rilevata e problematizzata già nel 1968 da Francesco Arcangeli, con il giusto ammonimento che i due attributi non potessero che fare capo a poetiche opposte, sull’esempio dello scarto che correva tra l’infocata primarietà del gesto informale e la celebrata banalità dell’oggetto pop. Il critico bolognese definisce infatti quella descritta da Celant come “una poetica, se non schizofrenica, perlomeno schizoide” , in cui la pur prolifica proposta di un’infrazione del dogma della coerenza stilistica rischia di annichilire la genuinità delle sue istanze se eccede nel diventare incoerenza teoretica e operativa. Si deve rilevare, inoltre, che il ritorno alla natura e agli elementi primigeni dell’Arte Povera non ha mai rinunciato, a dispetto delle più diffuse affermazioni di Celant, a un utilizzo sensibile della tecnologia coeva, dalle barre al neon ai moduli industriali, dalle serpentine frigorifere a mezzi come fotografia e videotape per la documentazione di gesti e azioni, ragionando piuttosto sulla conciliabilità tra le materie organiche e naturali e le nuove forme di una cultura materiale che, attraverso i portenti dell’elettronica, si è fatta sempre più leggera e dinamica. È questa la prospettiva teorica offerta, proprio in quegli anni, anche dal culturologo canadese Marshall McLuhan, non a caso menzionato da Celant nei suoi Appunti per una guerriglia, che vede nella sollecitazione sinestetica offerta dalle nuove tecnologie la restaurazione di condizioni percettive assimilabili a quelle delle culture primitive, aprendo a molteplici e fruttuosi dialoghi estetici tra la società postmoderna e più antiche civiltà. L’ostinata opposizione dell’Arte Povera al secolare paradigma della rappresentazione porta inoltre il critico genovese a proscrivere qualsiasi soluzione rispondente all’ordine di un’iconografia, di un repertorio visivo codificato, promuovendo una regressione agli elementi primigeni dati nella loro più immediata e bruta materialità. Si tratta di un punto cruciale per l’impresa poverista, dato che il suo piglio “iconoclasta” viene ribadito con forza anche al momento della sua rinascita negli anni Ottanta. Eppure alcuni degli artisti coinvolti hanno messo a punto sin da subito soluzioni facenti leva su un preciso e riconoscibile repertorio di icone, con tanto di citazioni colte, come dimostrano opere del 1967 divenute ormai emblematiche dell’Arte Povera quali la Venere degli stracci di Pistoletto o il Giovane che guarda Lorenzo Lotto di Paolini. Esiti certo di una ricerca d’avanguardia che avverte la necessità di confrontarsi con una consolidata e secolare eredità culturale, forse anche per potersene riscattare, quasi in funzione omeopatica. I capolavori dei musei vengono, infatti, riconsiderati al pari di altri oggetti banali, insignificanti, e messi in relazione con essi, secondo un approccio che guarda al primo De Chirico, ora praticabile anche sul piano del ready-made grazie alla possibilità di riprodurli in serie o in fotografia. Nonostante questa loro valenza indicale, oggettuale, risulta tuttavia assai difficile trascurare il loro portato iconografico e culturale, tanto più se la scelta degli artisti è ricaduta su quelle istanze proprio per quei loro connotati.
Se così fosse, l’Arte Povera troverebbe allora quella sua presunta identità italiana nella citazione del classico e del passato (in quegli anni appannaggio pressoché esclusivo di artisti nazionali) o nella riedizione di codificate simbologie, perseguendo però un atteggiamento del tutto incompatibile con i presupposti originari del movimento stesso. Le contraddizioni critiche e teoriche cresciute in seno all’Arte Povera negli ultimi quarant’anni richiedono dunque un suo netto ripensamento sia alla luce di paradigmi critici alternativi sia attraverso quelle che si offrono come le più incontestabili “verità” dell’arte, ossia le poetiche, le scelte pratiche e operative degli artisti, le sole atte a indicarci una più obiettiva via di comprensione dei fenomeni . Una simile indagine, condotta su un periodo in cui i dialoghi tra le nazioni e i continenti sono continui e fertili, non può inoltre non tenere conto delle proposte teoriche e pratiche avanzate sul piano internazionale e porle in stretta correlazione con quelle italiane, al fine di offrire una più chiara e completa visione d’insieme. Il rapporto con la materia e la ridefinizione estetica delle sue proprietà fisiche assumono un ruolo centrale nell’esperienza poverista. Le forze di compressione, di dilatazione, di disgregazione e i differenti impulsi direttivi della materia si costituiscono nelle ricerche italiane come espedienti plastici atti a garantire una vitalistica mutevolezza, accordando all’opera una valenza processuale, istanza di una più generale vocazione “performativa” dell’opera poverista . Il greco Jannis Kounellis cerca e concentra l’energia di elementi e materiali naturali come terra, carbone, caffè in polvere, cotone, fagioli, lana cardata, granaglie, in accumulazioni e stratificazioni che fungano da catalizzatori estetici, ponendo spesso in dialogo l’informità dell’organico con il rigore e la rigidità di elementi geometrici di derivazione minimalista, per un conflitto tra pesi e specificità iletiche. L’attenzione alla materia viva, data nella sua più incontaminata immediatezza, si estremizza nell’esibizione diretta del fuoco e di fiamme vive, di un cactus o di un pappagallo, fino all’occupazione di una galleria con dodici cavalli per suscitare una “epifania” dello spazio , evocando l’eterno conflitto tra natura e cultura. Posso dire con certezza che Kounellis rifiuta sia la riduzione dell’opera a mera tautologia, come avviene per la linea analitico-concettuale dell’arte contemporanea che l’abolizione di ogni riferimento all’oggetto come avviene nella linea astrattista pura. Nondimeno non segue quella smaterializzazione progressiva dell’oggetto che orienta, per esempio, la pittura di un Giorgio Morandi. Il suo minimalismo rigoroso reagisce e resiste alla tentazione teoretica dell’arte concettuale per farsi concreto, fisico, povero e vitale. Mentre la Minimal art esalta il formalismo geometrico senza pathos dell’oggetto, l’Arte Povera, nei suoi esiti più alti, intende mettere al centro il “sentimento metafisico della forma”, “la forma come dignità e come punto d’incontro”, “il dogma come ordine compositivo”. Se la poetica di Kounellis punta da subito, come abbiamo visto, ad allargare l’orizzonte del quadro, o, più radicalmente, ad “uscire dal quadro”, questo allargamento e questa uscita puntano a difendere la trascendenza dell’opera stessa, la sua eccedenza verso ogni sua riduzione a mera tautologia. Per questo nella storia dell’arte egli predilige quegli autori che in modi differenti da Boccioni, Pollock, Burri e Fontana hanno messo in questione radicalmente l’egemonia della superfice bidimensionale e del carattere meramente rappresentativo del quadro. Sospingendola rappresentazione verso la scultura di Boccioni estendendo la superficie del quadro in uno spazio abitato dal gesto di Pollock esplorando materiali inediti di Burri che bucando letteralmente la superficie del quadro; mostrando l’eccedenza di un altro spazio di Fontana. Ma è soprattutto dal magistero di Alberto Burri che Kounellis si autorizza a riprendere, sin dagli esordi, materiali umili e semplici (terra, carbone, pietre, sacchi di juta, lana, legni) ai quali associa anche, diversamente dal grande maestro umbro, delle presenze viventi come i cactus o le piante, i cavalli o gli uccelli. E’ una materia che la dimensione illusionistica del quadro vorrebbe occultare e alla quale egli assegna invece un ruolo decisivo nella sua ricerca. Si tratta di una materia che viene ereditata, appunto, da Burri e Fontana più che dall’espressionismo informale americano. “Nella mia formazione – dichiara Kounellis - , le opere di Burri e di Fontana hanno avuto un ruolo primordiale….trovavano nella materia una via di ricerca”.
Questo significa che la materia – come accade in modo esemplare per Burri – viene subordinata con decisione alle esigenze della forma. Solo che mentre in Burri, come ci ha ricordato Argan, è la materia che mima la pittura, in Kounellis è la pittura che vive mimando la condizione della materia. E’ qui che si deve porre la differenza più essenziale con l’informale di Pollock; mentre l’artista americano usa ancora la materia pittorica all’interno del quadro per rifondarne lo spazio interno, in Kounellis la materia eccede la “spazialità pittorica” ristretta per guadagnare un altro spazio che dilata quello del quadro. E’ lo spazio dell’oggetto, spazio abitato dalla nuda esistenza dell’oggetto come avviene, per esempio, nei suoi celebri sacchi di carbone o nelle pietre sparpagliate per terra. Anche in questo senso la “teatralità” di Kounellis non concede mai nulla alla narrazione, alla descrizione o, tano meno, al simbolismo perché appare interamente attraversata da una esigenza esclusivamente poetico-evocativa. La sua opera è un esempio luminoso di come l’icona non sia mai riconducibile a nessun coinema, ma debordi sempre di fronte ad ogni tentativo di riduzione. L’applicazione tradizionale della psicoanalisi si trova così totalmente spiazzata: ogni lettura simbolica non riuscirebbe in nessun modo a dare ragione del lavoro di Kounellis perché tutti gli elementi della sua poetica non sono significanti che rinviano a dei significati primi, ma tagli incisi sulla catena significante per isolare alcuni significanti elevandoli ad indici segnici – icone – che non rinviano a null’altro se non a se stessi. Prendiamo per esempio un’opera nota come Senza titolo del 1969, dove sopra una mensola sullo sfondo di una lastra d’acciaio scura e segnata dal tempo – che ricorda certi muri di Tàpies, ma anche un piccolo palcoscenico – viene esposto un semplice uovo bianco. Sarebbe sbagliato qui andare a ricercare un significato simbolico psicoanalitico proprio di quest’oggetto – madre, maternità, fecondazione, vita, generazione, come se fossimo di fronte ad un’immagine onirica – perché in primo piano non c’è alcun simbolo, ma solo la purezza nuda e fragilissima del segno, di una immagine-segno che affiora da un tempo remoto e si offre nella sua sparuta, fragile ma compatta bellezza in contrasto con lo sfondo compatto che la ospita. In gioco non è un simbolismo ingenuo, retorico, persuasivo ma la semplice esposizione di un oggetto nella sua più nuda esistenza. La sua trascendenza dell’opera non consiste allora nel fatto che essa rinvia a significati primi latenti (inconsci), ma nel rivelare una presenza che realizza un altro modo possibile della presenza. Nel farsi apertura interna all’apertura del mondo senza che si possa ricondurre l’immanenza della sua presenza a nessun significato ad essa trascendente. E’ un esempio straordinariamente efficace di cosa significhi disgiungere l’icona dal coinema: l’uovo appare come una presenza misteriosa che si sottrae ad ogni possibile traduzione significante; è una presenza che eccede la semplice presenza. Per Kounellis l’adesione al movimento dell’Arte povera risponde alla sua esigenza di trovare, grazie all’esaltazione del valore estetico di materiali e di oggetti prelevati direttamente dalla realtà, una terza via rispetto alla deriva geometrico-ornamentale dell’astrattismo e alla teoreticità mentale del minimalismo. Ai suoi occhi il comune denominatore di queste due tendenze non è solo l’evaporazione della materialità, dello spessore reale dell’opera, ma il venire meno del suo carattere di evento.
Kounellis non è disposto a sacrificare la trascendenza dell’opera, a schiacciarne l’esistenza sulla dimensione auto-identitaria della tautologia. Se l’opera significa solo se stessa non vuol dire che essa, nella sua immanenza, non possa aprire sul mistero dell’Altro. In questo senso essa, nella sua immanenza, veicola sempre una trascendenza, una - apertura possibile all’interno dell’apertura già avvenuta del mondo. Contro ogni logificazione concettuale dell’opera si tratta di rivendicarne lo statuto “tragico” che contrasta con ogni tentativo di concepirla come spazio neutro, staccato dal vortice del reale, isolato, chiuso nella propria circoscritta autoreferenzialità. In gioco è una critica severa della disgiunzione tra la rappresentazione e gli affetti – secondo la clinica psicoanalitica caratteristica fondamentale della nevrosi ossessiva – che orienta quelle tendenze dell’arte contemporanea che vogliono dissolvere la pittura nella dimensione puramente filosofico-concettuale dell’arte. In questo movimento Kounellis si schiera con Nietzsche capovolgendo la tesi di Hegel sulla “morte dell’arte”: se per il filosofo dello spirito assoluto il carattere sensibile dell’opera è destinato ad essere trasceso dalla superiorità del logos - del lavoro faticoso del concetto che finalmente si libera dell’impiglio della materia sensibile per adeguare il suo contenuto sovrasensibile ad una forma adeguata - , per Kounellis, sulle orme dello spirito greco della tragedia ricuperato da Nietzsche “mia made è Itaca, la mia gioventù è Itaca, la mia vecchiaia è Itaca, la mia morte è Itaca”, si tratta di ribadire il carattere traumatico dell’opera, la sua eccedenza reale nei confronti del concetto. L’opera non è destinata ad essere sostituita dall’azione del logos tesi hegeliana che può giustificare la superiorità della cosiddetta linea analitico-concettuale dell’arte contemporanea, ma si incarica piuttosto di mostrare il limite del logos, di condurre il concetto sul punto dove esso naufraga. Per questa ragione Kounellis assimila l’arte alla poesia: “Voglio il ritorno alla poesia con tutti i mezzi”, afferma risolutamente. Come la poesia, infatti, anche l’arte disattiva non solo ogni rapporto utilitaristico col mondo, ma anche ogni tentativo di riassumere il mondo stesso in un ordine concettuale superiore. Il fine della poesia non è quello di comprendere il mondo, di usare il linguaggio per riflettere l’esistenza del mondo, ma generare nuove possibilità di mondo, nuove aperture in seno all’apertura da sempre aperta del mondo, sconvolgere l’assetto già stabilito del linguaggio. Se, come precisa Kounellis, l’arte, come la poesia, non serve a niente – deborda la dimensione pragmatico-edonistica dell’utile - è perché sono porte che aprono sul “mistero delle cose”, sull’evento del mondo in quanto tale. Non si tratta allora di dire l’essenza del mondo - di ordinare attraverso il simbolico tutto il reale - , ma piuttosto di cogliere il limite del simbolico di fronte al reale. Per questo egli si definisce “un poeta muto, un pittore cieco, un musicista sordo”, ovvero qualcuno che fa esperienza radicale del limite delle possibilità espressive del simbolico del limite del linguaggio -, del loro cedimento di fronte all’impossibilità del reale. L’artista, infatti, lavora sul limite e sulla mancanza interna del simbolico, sulla lacuna della lingua, su ciò che sfugge al lavoro del concetto. Diversamente dall’estetica hegeliana che concepisce il concetto come compimento di ciò che nell’arte resta ancora solo sensibilmente abbozzato, Kounellis ribadisce che solo dalla esperienza della mancanza, di ciò che eccede il logos, può scaturire l’evento poetico dell’opera: “un’opera afferma - nasce dalla mancanza. La situazione non è risolta: questo è il motivo per cui è ancora possibile essere creativi. Il reale eccede il simbolico pur essendo prodotto dal simbolico stesso; è una tesi di Lacan che orienta la mia lettura dell’opera d’arte, la quale non può che essere un evento di linguaggio pur esponendosi all’incontro con il limite interno del linguaggio. In questo senso l’opera d’arte è l’evento dell’incontro con il reale come impossibile da significare. L’opera custodisce così la trascendenza interna del reale senza sottometterla al potere teleologico per Lacan “convergente” - della ragione dialettica. Non a caso tutto il lavoro artistico di Kounellis rifiuta la “sintesi, la “riconciliazione”, la “mediazione”, il “superamento” - parole chiave della dialettica - per esporsi come radicalmente “asimmetrico”. Reagendo contro il primato idealistico della pittura astratta o concettuale Kounellis vuole riportare nell’arte il senso greco più alto della tragedia. In questo programma si manifesta indubbiamente la sua provenienza greca e la sua insofferenza per una forma sterilmente apollinea dell’arte che non sia attraversata dal sentimento dell’enigma, del mistero, dell’abisso senza fondo del dionisiaco. Al tempo stesso, un’altra istanza centrale della sua poetica è quella del rifiuto della scorciatoia di un certo espressionismo astrattista che rifiuta l’imperativo etico della necessità della forma - il “dogma della forma” – nel nome di una immediatezza - pulsionale priva di filtri simbolici. L’esigenza della forma, avvertita da Kounellis, come da Burri del resto, come imprescindibile non è finalizzata alla ricomposizione del dissidio e delle dissonanze – come accade nella dialettica hegeliana dove reale e razionale finiscono per coincidere – ma ad un loro potenziamento che finisce per elevarle ad uno stato drammatico. Anche Kounellis, come Burri, non opta per il Caos contro il Cosmos, non s’infila nelle secche di una contrapposizione ideologica rigida tra forma e informe, ma si mantiene costantemente in rapporto alla necessità di fornire una forma adeguata al carattere informe del reale. Se il quadro è ancora una sopravvivenza antiquata e modernista della “forma” apollinea contrapposta alla forza dionisiaca, lo scopo del suo lavoro non è quello di liquidare la forma come scoria di una ideologia (modernista) al tramonto, ma di mettere in scena una forma capace di ospitare la forza, ovvero una forma che sappia farsi davvero evento. Il carattere “asimmetrico” che Kounellis attribuisce alle sue opere riguarda proprio il rifiuto della bella forma e del suo carattere feticistico di velo sul reale; della forma come esorcismo ossessivo nei confronti del magma incandescente del reale. Anche per Kounellis, come per Burri, l’esigenza prima resta quella di pervenire ad una forma: “a me interessa l’avvenire e la possibilità che molti dei miei amici pittori si ritrovino in una nuova esperienza formale”. Ma questa forma, dopo i gesti di rottura di Pollock e Fontana e dopo il cataclisma della seconda guerra mondiale e della Shoa, non può che essere orientata da un principio di asimmetria che spezza irreversibilmente quella “centralità” della rappresentazione sulla quale si fondava ancora la pittura tradizionale sul cavalletto.
Kounellis, in altre parole, contrappone la centralità modernista del quadro alla teatralità asimmetrica della sua opera. L’idea moderna del quadro resta infatti nell’orbita di un Centro che non esiste più. E’ lo stesso movimento che ispira l’informale materico-espressionista di Vedova quando promuove la molteplicità mobile del Disco contro il carattere ontologicamente immoto del Cerchio. Anche per Kounellis, come per il pittore veneziano, sebbene con esiti profondamente diversi, lo spazio esige di essere liberato dalla prigione geometrale della rappresentazione. Si tratta di dare luogo ad un’opera all’altezza dell’esperienza vertiginosa dell’assenza di Centro. E’ questa, nuovamente, la radice greca, tragico-dionisiaca, anti-hegeliana della sua opera. Mentre l’esistenza del quadro suppone infatti quella di un Centro di cui esso sia il raddoppiamento riflessivo, sottrarre il Centro - fare esperienza del reale come impossibile - , significa vivere sino in fondo il naufragio del quadro. Quadro e Centro sono infatti termini che per Kounellis si sostengono reciprocamente: “dal momento che c’è una centralità c’è già un quadro, ma come non c’è una centralità, non è possibile che ci sia quadro”. Ed è proprio questa “mancanza di un centro” ad imporre all’opera una tensione che eccede il confine statico del quadro. Tuttavia, poiché l’opera vive solo grazie a questa mancanza, Kounellis continua a sentirsi a tutti gli effetti un pittore se il pittore è colui che sa entrare in rapporto con il limite della rappresentazione, con la mancanza, appunto, di rappresentazione, con il limite del linguaggio. Il reale per Kounellis e come per Lacan non è un in sé noumenico, una essenza alla quale attingere, un principio ontologico archetipico, ma assume le forme dinamiche di un incontro che spiazza, disorienta, scompagina l’ordine già costituito delle cose.
Si tratta ogni volta di una sorta di cortocircuito traumatico che genera l’effetto di un risveglio, di uno Stoss, un urto, come direbbe Heidegger, capace di rivelare la cifra enigmatica che accompagna l’evento del mondo. L’asimmetria indica proprio questo sbilanciamento, questo taglio nel quadro ordinato e stabile della realtà, dal quale si genera l’evento dell’opera come emergenza del reale. E’ l’incontro spaesante con l’angolo, lo spigolo, il punto di sospensione del senso canonico, con l’ombra, il buio spesso che sempre accompagna la luce. E’ questo innanzitutto un ricordo infantile di Kounellis. In una intervista ha confidato la sua strana attrazione-repulsione infantile per gli angoli bui: “La scoperta risale ad una sera lontana, quando mi pare avevo 10 anni e la luce tremante di una candela davanti alla Madonna e al San Giorgio Cavaliere appoggiata sul comò, lasciava intravedere a tratti l’angolo della stanza dover dormivo. Fu forse la paura che i fece notare il segno misterioso dell’angolo…la cui presenza si ingigantiva nella mia mente era così spaventoso che il suo ricordo ancora oggi mi riempie di terrore. L’angolo ispira dei bui canalizzati nel punto sacro dove le forze s’incontrano e vivono un’esistenza statica eterna, tesi verso il cielo dove risiede il loro punto di appoggio e dove è scritta la loro nascita e il loro destino grazie alla luce tremante davanti all’immagine della Madonna, l’angolo si è rivelato in tutta la sua grandezza.” L’angolo non è il Cerchio, il Centro, la Sfera del mondo platonico, né è il quadrato o il rettangolo di Mondrian; l’angolo non è una forma geometrica simmetrica. Il segno misterioso dell’angolo spezza la bella forma, la sua armonia dialettica, rovina il quadro illusorio della realtà. Il suo ricordo riempie il bambino di terrore: la luce trema, si perde, perde la sua unità, si frastaglia. L’angolo diviene, insieme, spaventoso e carico di mistero. Un incavo, una lacuna, una pietra di scarto che diventa, appunto, angolare. L’angolo non pacifica ma solleva il terrore; è il punto dove le forze della vita e della morte, Eros e Thanatos, si incontrano in una lotta perpetua. E’ “un punto sacro” che preserva l’impossibile, l’indeducibile, l’irrappresentabile; è il punto dove l’ordine liscio e simmetrico delle superfici si eclissa. E’ la radice tragica, il resto greco, che permea il lavoro di Kounellis dal quale scaturisce il mistero delle cose: “penso che l’asimmetria sia una specie di fonte misteriosa.. forse il senso del mistero è l’unica cosa che mi rimane della Grecia”. E’ da questo incontro – dall’incontro con l’ombra, con il buio dell’angolo - che Kounellis rintraccia l’ispirazione di fondo della sua arte: “io vorrei riscoprire il valore dell’ombra e del dramma non intendo illustrare l’ombra, ma piuttosto considerarla come realtà e come problema voglio valutare il dramma senza enfasi e senza retorica. Bisogna superare il decorativismo formale voluto dai media”. L’angolo, l’asimmetrico, l’ombra, il terrore, il mistero, il dramma: Kounellis frammenta l’impianto unitario dell’opera sottraendogli il suo Centro e dando corpo al tema controriformista dell’ombra in contrapposizione all’illuminismo critico della Riforma. Vede così in Caravaggio una fonte d’ispirazione inesauribile del suo lavoro. Lo interessa lo spirito della Controriforma che è “stata quella capacità di vedere la realtà ombrosa confrontata a una realtà luminosa”. Essere un pittore controriformista significa essere un pittore asimmetrico, ovvero un pittore che ricupera la grande lezione del nero, dell’ombra e che non si lascia catturare dalla luce facile della bella forma, né da quella artificiale che genera l’ambiente sterile dove avvengono le operazioni concettuali : “la luce fluorescente taglia le ombre, non fa per me. L’ombra per me è indispensabile, altrimenti avrei fatto il minimalista.” Dobbiamo immaginarci Jannis, il bambino di dieci anni che nella sua casa greca resta spaventato e affascinato dagli angoli dove nella notte apparivano ombre misteriose. Angoli, spigoli, anfratti, insenature; per Kounellis non c’è arte senza il senso del mistero, senza incontro con il buio dell’angolo. In questo senso, come afferma, l’opera è farsi penetrare dall’ombra. La drammaticità delle sue opere scaturisce sì, come per un altro grandissimo originario della sua terra come Giorgio De Chirico, dalla tensione e dalle dissonanze tra tempo presente e memoria, ma anche da quella, centralissima in tutta la sua opera, tra povertà e bellezza, abbandono e redenzione, luce e ombra. Si pensi, per esempio, all’importanza che egli assegna al carbone. In gioco non c’è solo la presa di posizione politicamente critica verso il regime capitalista, il processo forzato dell’industrializzazione, lo sfruttamento e la solidarietà nei confronti del mondo del lavoro, ma un’operazione estetica essenziale. Si tratta di elevare un materiale umile e facilmente a disposizione il carbone alla dignità di una icona, di un significante che si stacca dalla catena dei suoi rimandi storici per farsi segno della condizione umana in quanto tale. Il nero, lo scuro, l’ombra, il mistero, la morte, il fuoco, la vita, il segreto, ma anche la materialità dura dell’esistenza, la sua lotta per la sopravvivenza, il lavoro, la malattia, la lotta, la fatica. Allo stesso modo spesso troviamo la “macchia” nera (d’inchiostro, di petrolio, di pece?) a custodire il mistero di una presenza, di un angolo buio ancora, nel quale il reale si sottrae allo sguardo e ci vede, ci coglie sorprendendoci. Apparizione misteriosa e perturbante della macchia nera.
Qualcosa della vita eccede la vita, qualcosa non è governabile, qualcosa trascende l’ordine abitudinario delle cose. Possiamo accostare questa macchia e il suo carattere angosciante a quella che il piccolo Hans, nella lettura di Lacan, vede apparire sul muso del cavallo che causa le sue crisi fobiche. Il piccolo Hans ha paura che i cavalli mordano o cadano. L’animale incarna l’eccedenza reale della pulsione come ingovernabile. Nella “macchia nera” che ricopre la sua testa condensa la causa dell’angoscia: la vita non è ordinata ma attraversata dalla forza acefala e anarchica della pulsione. Nel cavallo e nella sua macchia nera il piccolo Hans vede l’eccedenza della realtà pulsionale del proprio corpo libidico. L’angoscia segnala il mondo come pericolo in attesa che la fobia offra una sua nuova strutturazione in grado di difendere il bambino dalla presenza imminente della pulsione. Ma l’artista, diversamente dal piccolo Hans, non risponde all’angoscia della macchia nera con la fobia; non si limita a difendersi dalla prossimità inquietante della macchia. Piuttosto vi è attratto, procede verso l’angolo buio, l’ombra straniera, dove, come ci ha detto Kounellis, “le forze si incontrano”. Come nelle ombre scure che attraversano l’opera di Caravaggio e di Goya, anche in Kounellis l’apparizione del reale che scardina l’ordine strutturato della realtà avviene nella forma di una dilatazione dell’imprevisto, dell’ingovernabile, della pura contingenza. La presenza della macchia scura in fondo al labirinto introduce un non-senso che costringe la nostra percezione del mondo a rinnovarsi integralmente. Essa è come la morte e come la vita stessa , secondo le parole di Lacan, un “centro esterno al linguaggio”. Come per Giuseppe Ungaretti, verso il quale non ha mai nascosto la sua profonda ammirazione, anche per Kounellis la poesia è la capacità di un’opera di saper custodire il segreto. In gioco è una vera e propria anamorfosi che scardina l’ordine stabilito della scena del mondo. La macchia è un’enigma irrisolvibile, punto di resistenza – asimmetrico che separa irreversibilmente l’icona dal coinema, l’ombra dalla luce. Posso affermare infine che molti fogli sono caratterizzati da vere e proprie prime prove progettuali: al centro della carta Kounellis ha tratteggiato in velocità la sagoma di una lastra su cui possono stare appesi cappotti, strumenti musicali, oppure, in una rigorosa costellazione di mensole, ciottoli anneriti, sacchi di iuta ripieni di carbone, legni macchiati di nero. In alcuni casi il groviglio rapido di segni lascia affiorare oggetti o minime tracce, ombre, impronte scure, germogli di future creazioni. Si riconoscono la sagoma di una ciminiera, quella di lampade ad olio o teste urlanti, che rimandano al celebre Urlo di Edward Munch, e perfino accumulazioni di teschi, come negli ultimi acquerelli di Cézanne. A volte i disegni sono minute annotazioni, forse esercizi di memoria nati all’impronta come risvegliandosi dopo un sogno, fantasie notturne, magari eseguite in un caffè, in una stanza di albergo, durante un viaggio in treno. La sua, infatti, è un’arte oracolare, pertanto misteriosa, seppure costruita con le cose tali e quali sono. Un’arte ermetica eppure eloquente ed epica, per la carica drammatica che è in grado di raggiungere. Mai come davanti alle opere di Kounellis è possibile vivere l’esperienza poetica dell’immagine artistica, l’aprirsi di un mondo nell’epifania gnostica di luce e ombra, di dramma e lirismo. Guardiamo con calma questi disegni dominati dal nero, che è il colore dell’inchiostro e del carbone, del fumo e della notte, della malinconia e dell’irrazionale, del tragico mondo di Amleto e dei corvi di van Gogh, così come del mare nero cantato dal poeta simbolista Arthur Rimbaud.
Biografia Jannis Kounellis - 1936, Il Pireo, Grecia - 2017, Roma
Tra i principali protagonisti dell’Arte Povera, Jannis Kounellis si trasferisce in Italia dalla nativa Grecia a metà degli anni Cinquanta. Le sue prime esposizioni risalgono a quando, studente dell’Accademia di Roma, lavora con la pittura realizzando grandi tele monocrome su cui campeggiano segni elementari (lettere, numeri e segnali direzionali). Fin dagli esordi la sua ricerca si inserisce in un dibattito culturale che ambisce a un rinnovamento del linguaggio visivo con il superamento della stagione artistica ‘informale’. A partire dalla metà degli anni ’60, Kounellis inizia a muoversi oltre la superficie pittorica e a realizzare le sue prime installazioni che, con intensità e potenza lirica, avvolgono lo spettatore ed esprimono la frammentazione e l’alienazione della società contemporanea. Nel corso degli anni la sua produzione rinuncerà ad inscriversi in uno stile univoco, promuovendo una pratica fondata sul riconoscimento del valore pubblico e collettivo dell’opera d’arte, nonché sull’impegno politico della figura dell’artista. Nell’arco della sua carriera ha costruito un vocabolario ibrido che respinge la presunta purezza del medium, scultoreo o pittorico, e implica l’impiego di materiali non propriamente artistici, come oggetti del quotidiano (sacchi di juta, sedie, brandine), elementi naturali (caffè, pietre, fuoco) e industriali (ferro, carbone), o organismi viventi (animali e talvolta persone), come nella celebre opera del ’69 in cui presentò dodici cavalli vivi all’interno della Galleria L’Attico di Roma. Ricchi di riferimenti al mondo arcaico, alla cultura classica e alla storia dell’arte, le sue opere alludono spesso ad un senso di sintesi e unitarietà perdute. Dagli anni Sessanta in poi Kounellis è stato tra gli artisti con maggiore influenza a livello mondiale e punto di riferimento imprescindibile per le generazioni successive. Oltre alla partecipazione alle principali rassegne internazionali, tra cui tre edizioni di documenta, Kassel e nove edizioni della Biennale di Venezia, tra le tante mostre dedicate al suo lavoro si ricordano quelle realizzate presso: Castello di Rivoli, Torino (1988); Stedelijk Museum di Amsterdam (1990-91); Galleria Tretjakov di Mosca (1991); PAC, Milano (1992); Kunsthalle di Amburgo (1995); Piazza Plebiscito a Napoli (1995); Centro de Arte Reina Sofía, Madrid (1996); MNBA, Buenos Aires (2000); la Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma (2002); Museo d'arte contemporanea Donna Regina di Napoli (2006); NeueNationalgalerie, Berlino (2007); Musée d’Orsay, Parigi (2007); Galleria Fumagalli e Museo Adriano Bernareggi di Bergamo (2009); Galleria Vannucci di Pistoia (2010); Today Art Museum, Beijing (2011); Musée de la Monnaie di Parigi (2016); Museo della scultura contemporanea di Matera (2016); Forte di Belvedere di Firenze (2017); Fondazione Prada di Venezia (2019); Walker Art Center, Minneapolis (2022),