Di Giovanni Cardone , Giugno 2021
 
Fino al 28 Settembre 2021 si potrà ammirare la mostra L’Ultima Grande Battaglia dal Barocco di Salvator Rosa al contemporaneo di Max Coppeta la mostra è stata promossa dalla Baccaro Art Gallery e la Fondazione De Chiara De Maio a cura di Alessandro Demma testo critico di Sandro Barbagallo, il progetto di Davide Caramagna. L’intero progetto nasce da un’idea di Davide Caramagna Presidente dell’Associazione Culturale MM18, che apre un ciclo di esposizioni che hanno il fine di mettere in dialogo l’arte di Max Coppeta con alcuni capolavori dei più celebri artisti del Barocco napoletano partendo da Francesco Guarini, Francesco Solimena, Luca Giordano, Marco Pino da Siena e Salvator Rosa tutti provenienti dalla Fondazione De Chiara De Maio, con l’eccezionale contributo critico dello storico dell’arte Sandro Barbagallo. In questa prima esposizione,tutto ruota attorno all’opera ‘La Battaglia tra cristiani e turchi’ di Salvator Rosa del 1630, voluta dalla Galleria Baccaro per celebrare i suoi vent’anni di ricerca e concessa grazie alla visione e alla generosità del Presidente Diodato De Maio della Fondazione De Chiara De Maio. Nel vedere questa bellissima mostra ti accorgi che c’è un grande connubio tra tradizione ed innovazione anzi possiamo dire che Max Coppeta ha la capacità, la forza di suggestionare, in particolare di commuovere, di far insorgere sentimenti elevati. Le opere di Max Coppeta sono una ridda ubriacante di ossimori, di coerenti contraddizioni sono immobili tempeste, sono lampi fatti di materia spirituale, sono funambolici giochi tra disequilibrato equilibrio, criptiche rivelazioni di un caos ordinato, superfici tridimensionali fatte di narrazioni contemporanee, ricche, colte e preziose. La forza primigenia e raffinata di queste opere e che affascinano il fruitore, questo deriva dall’innata capacità dell’artista di conciliare gli opposti. Di fondere nel crogiolo incandescente della sua sapienza alchemica elementi opposti per dar vita ad opere di un linguaggio unico. Le opere di Max Coppeta non ci raccontano soltanto questo ma molto altro e in particolar modo quel conflitto tra Cosmo e Caos che simboleggia la nascita del mondo. Oppure come dice Max Coppeta: “ Se tu osservi bene l’opera Mani, che è dedicata alla memoria di tutte le vittime del cemento e non solo perché sono tante le battaglie che, nel corso della storia, siamo chiamati a dare voce. In questo caso mi sono ispirato a due tragedie del territorio campano, il terremoto del 1980 che sconquassò tutta l’Irpinia e la frana che colpì Sarno nel 1998. Per me questa scultura rappresenta in pieno tutta la mia produzione, ho scelto materiali sintetici e industriali. Mani è una scultura intagliata a fuoco nel polistirolo, poi in garzata e dipinta con acrilici metallescenti. L’opera è parte del ciclo di lavori “scultura pigra” poiché viene lavorata in assenza di sforzo fisico. Ogni battaglia è un atto di forza tra vincitori e vinti. Corpi mutilati, sottratti alla vita diventano ritratti in teche trasparenti, ma questi uomini siamo noi, che nell’atto di specchiarci vediamo la nostra immagine riflessa alterata, irriconoscibile”. Mentre Alessandro Demma è stato il demiurgo, ovvero colui che ha saputo mettere ha confronto i due linguaggi che si sono fusi magistralmente, il suddetto ha affermato che : “L'esposizione vuole essere un omaggio all'opera barocca, come testimoniata un evento ricco di significato e che invita ad una rilettura, con gli occhi della contemporaneità. Le opere di Max Coppeta, fanno parte della ricerca Riflessi e deformi, presentata a Los Angeles e per la prima volta esposta in Italia, Max Coppeta esplora la proprietà dell’acqua e dei liquidi di ingrandire oggetti immersi in essa a causa della differenza dell’indice di rifrazione. Questa indagine è una metafora sulla percezione della realtà, spesso distorta dalla fame di sopraffazione. Oppure possiamo dire che le opere di Max Coppeta nascono da un’attenta riflessione sul linguaggio, la tecnica e la materia, da un’analisi dei rapporti tra lo spazio dell’opera e quello della vita. Sono proprio la forma e la materia, gli elementi che sostengono il percorso compositivo dell’artista, l’alfa e l’omega di un complesso universo visivo che assume sembianze in continuo mutamento, in un divenire possibile che sfida l’impossibilità del divenire. Quello costruito dall’artista è, quindi, una galassia in cui galleggiano la geometria pura, le sue derive metamorfiche e i sentieri naturali e artificiali della materia, “pianeti metamorfici” che occupano la superficie dello spazio espositivo per creare un cortocircuito pluri percettivo. È a partire da questi principi che prende forma la nuova sfida di Coppeta, un dialogo aperto, fluido, essenziale con il barocco, con una grande battaglia, con il capolavoro La battaglia tra turchi e cristiani di Salvator Rosa del 1630 (collezione Fondazione De Chiara De Maio). Max Coppeta si concentra proprio su queste tensioni, su questo brivido, su questa dimensione degli spazi infiniti, su questa nuova avventura barocca, in cui la sinuosità e la complessità della materia (del presente), il suo dispiegamento e ripiegamento, la sua deformazione e riflessione, tendono a creare uno “spazio totale” che stabilisce legami e disaccordi tra l’interno e l’esterno, l’esterno e l’interno. D’altronde Wölfflin aveva avvertito, nei suoi Concetti fondamentali della storia dell’arte del 1915, questo trasformarsi dell’arte barocca ideale a partire dal confronto con la condizione antropocentrica e razionale rinascimentale: lo spostamento dal lineare al pittorico, dalla forma chiusa alla forma aperta, dalla visione in superficie alla visione in profondità, la dimensione della molteplicità, segnalano questo fenomeno spaziale altro, che oggi Max Coppeta affronta con sapiente coscienza e conoscenza. La materia è, infatti, lo spazio e il corpo dell’opera di Max Coppeta, lo strumento dove si formano e si disfano, in una vertigine, oggetti e forme, dove appaiono geometrie perfette e insane, dove campeggiano costruzioni che violano ogni rigidità e definiscono una battaglia strutturale multiforme. Le sue opere sono il luogo mobile e inquieto, sul quale si svolge la drammaturgia della forma e delle sue costruzioni, della geometria e del collasso della geometria, uno spazio aperto e metamorfico che non offre allo sguardo un punto di vista unitario, ma, continuamente, mette in discussione proprio la possibilità dinamiche, aperte e infinite dell’opera d’arte. Così, i riflessi e le deformazioni, queste pieghe deleuziane, che l’artista esplora e decostruisce per ridisegnare lo spazio dell’opera, si dilatano all’esterno, al soffio del vissuto, all’alterità. Un’arte essenziale e immediata che si apre allo spettatore, ma che, al contempo, ne mette in discussione le certezze. Infatti, il cambiamento, le distorsioni, e le rifrazioni, mettendo in scena un cortocircuito visivo e di senso che disorienta, spiazza lo spettatore. È proprio sul rapporto con lo spettatore e la sua visione che si gioca il finale di partita fondamentale dell’artista, una percezione straniante e ambigua che costringe l’osservatore ad uno sforzo fisico e mentale, ad una attenzione che genera uno stato di attrazione significativo, in cui gli specchi e le corde definiscono intense tensioni,  “effetti di visione” che affascinano, seducono e attraggono gli occhi dello spettatore e li legano all’opera”. In queste parole emerge tutta la visione della mostra architettata in un modo magistrale. Ma possiamo dire che da questa esposizione emerge anche una visione storica su Napoli che avuto tantissime dominazioni in particolar modo quella spagnola che è stata la più lunga si è potuto evidenziare che nei primi anni del secolo XVI, Napoli, a seguito delle lotte di potere dei sovrani Europei, perdette la sua indipendenza e rimase per più due secoli sotto la dominazione di potenze straniere. Durante la dominazione spagnola, che va dal 1503 al 1713 la città fu governata da un viceré che in nome di Madrid vi esercitava un potere assoluto. Nella capitale stanziava un esercito di fedelissimi pronti a tutto, che spadroneggiava con arroganza e faceva razzie e soprusi di ogni genere. Il Viceré era circondato da una pletora di nobili, che, insieme col clero, vivevano vessando con balzelli di ogni genere il popolo dei miserabili che affollava i vicoli del centro città. Non meno corrotta la borghesia fatta di giudici avvocati, commercianti, banchieri che speculavano sull’ignoranza dei nobili e la miseria del popolo. La riottosità, il fasto esibito, l’arroganza, l’abuso di potere saranno caratteristiche che rimarranno fino ai nostri giorni. Infatti la dominazione Spagnola fu quella che più di tutti ha lasciato un’impronta indelebile nell’aspetto della città, nel carattere del suo popolo, nelle tradizioni, nel dialetto. Il periodo dei Viceré fu anche funestato da una serie di tragici eventi: pestilenze, eruzioni del Vesuvio, carestie siccità, rivolte. Durante questa parentesi storica la città, però, non cadde in condizione di sudditanza rispetto alla capitale Madrid, ma assurse ad un grado di crescita demografica e urbanistica considerevole divenendo un centro di prestigio sociale, economico e politico nel Mediterraneo. Anche dal punto di vista artistico e culturale la città seppe reagire all’asfissia imposta dai governanti con espressioni di grandi qualità in tutti i campi, dall’architettura, alla scultura, alla pittura, al teatro, alla letteratura, costituendo il polo culturale più importante dell’impero spagnolo. Si può affermare che la prima fase della lunga stagione del barocco Napoletano inizia proprio durante il periodo del vicereame quando nel 1532 arriverà a Napoli in qualità di viceré Don Pedro Alvarez de Toledo, un moralista duro e autoritario ma efficiente. Egli nei suoi vent’anni di governo cambiò il volto della città e elevò il tenore di vita dei suoi abitanti. Egli mise un freno all’arroganza dei nobili, alla sfrenata condotta dei militari, alle ruberie della plebe, e alla corruzione delle istituzioni e alla prostituzione dilagante. Egli per prima cosa fece asfaltare le strade del centro, abbattere le catapecchie dei vicoli, ripulire i vecchi palazzi dal degrado del tempo e delle pestilenze migliorando la situazione igienica della città. Dal punto di vista urbanistico allargò la cerchia delle mura e mise la città in sicurezza dalle continue incursioni dei pirati Saraceni, facendo costruire, a nord, Castel dall’Elmo con possenti fortificazioni, e a sud, più di trecento torri di avvistamento lungo la costa. Per migliorare la circolazione dei mezzi costruì via Toledo con a sinistra i palazzi della nobiltà e a destra i quartieri spagnoli gli alloggiamenti delle truppe ‘i quartieri spagnoli’. Centralizzò l’amministrazione della giustizia nel palazzo della Vicaria, ovvero ‘Castel Capuano’. Fece ricostruire Pozzuoli quasi interamente distrutta dall’eruzione del Monte Nuovo permettendo così il ritorno dei profughi e allentando l’urbanesimo del centro città. Iniziò la costruzione del Palazzo Reale e favorì la costruzione delle dimore della nobiltà nella zona di Santa Chiara. Così agli inizi del 600, dopo essersi affermato a Roma, lo stile Barocco arrivò a Napoli sostenuto dai Gesuiti e dai viceré spagnoli e si sviluppò fino alla metà del XVIII sec. raggiungendo il suo apice sotto Carlo III di Borbone. Per garantire un luogo di culto agli ordini monastici più importanti si costruirono chiese dentro e fuori i confini della città. Le soluzioni planimetriche degli edifici sacri sono pensati quasi tutti a pianta centrale con transetto ed abside, secondo i dettami classici sulle orme del Vignola. Una delle figure di spicco della pittura del tempo fu Salvator Rosa discendente da una famiglia di artisti e nato in un ambiente di pittori, figlio di Antonio De Rosa e di Giulia Grieco, Salvatore sarebbe poi divenuto un artista un po’ guascone, di spirito ribelle e schietto, tanto da rifiutare il “ de” davanti al cognome Rosa perché lo riteneva di provenienza degli odiati spagnoli, per volere del padre era destinato a farsi prete. Evidentemente il genitore non aveva ancora intuito quanto   quel suo “ Salvatoriello”  fosse di indole trasgressiva, esuberante e soprattutto amante delle belle arti. A diciassette anni, con la scomparsa del padre, Salvator Rosa iniziò a lavorare prima nella bottega degli zii e poi  in quella del cognato Francesco Fracanzani, rivelando un talento pittorico ed un estro alquanto stravagante, che avrebbe caratterizzato la sua vita di uomo colto e appassionato di letteratura, soprattutto di poesia e satire. Se acclarato su cui la critica nazionale ed internazionale avrebbe maggiormente espresso, dopo la morte, apprezzamenti così notevoli  da annoverarlo tra i “ grandi”, nel corso della sua vita l’artista napoletano, in privato e in pubblico, fece appello a tutto l’ardore della fantasia e dell’immaginazione, alla sua creatività istrionica per essere già tra i “grandi”. Pertanto, concluso l’apprendistato, fu Aniello Falcone, fondatore di  quella “Compagnia della morte” antispagnola, di cui avrebbe fatto parte anche Masaniello, a consigliare al giovane artista di recarsi a Roma nel 1635. Il primo impatto con l’ambiente romano non fu facile, in quanto doveva confrontarsi con talenti del calibro di Guido Reni, del Domenichino, di Giovanni Lanfranchi, per cui Salvator Rosa cercò di farsi apprezzare anche per la recitazione di versi da lui stesso composti. Tuttavia in questo primo periodo i riconoscimenti tardarono ad arrivare ed allora  lo spirito impulsivo ed istrionico di Salvator Rosa emerse con insulti in forma poetica. Una sera frustrato dalla reazione del pubblico, sbottò: "Aggio io speso lo tempo mio in leggere le fatiche mie alli somari e a jente che nulla intienne, avvezza solamente a sentir non antro che la canzone dello cieco". Amareggiato rincasò per breve tempo a Napoli, ma il suo pensiero era sempre quello di ritornare a Roma per ricevere una meritevole gloria. Protetto dell'influente cardinale Francesco Maria Brancaccio, conoscente dei Barberini e appassionato di arte e teatro, nel 1638  si stabilì definitivamente a Roma,. Il Brancaccio, nominato vescovo di Viterbo, gli commissionò di dipingere nella città laziale "L'incredulità di Tommaso" per l'altare della chiesa di San Tommaso: fu  il suo primo lavoro di carattere sacro. In questo ambiente grandioso, ma nel contempo  spietato, Rosa poté conoscere alcune opere di Caravaggio; a questi anni, inoltre, si fa risalire un mutamento del suo stile verso una visione più classica e monumentale, grazie all'influsso di Claude Lorrain, Nicolas Poussin e Pietro Testa. L’artista napoletano pensò che fosse giunto il momento in cui anche le sue rappresentazioni teatrali  avrebbero costituito un ulteriore momento per diffondere la sua fama. La sua consacrazione di artista completo avvenne nel corso del Carnevale di Roma del 1639. In piazza Navona l’ultimo giorno del Carnevale, tra gli spettacoli più attesi vi erano l’esibizione di due celebri  maschere  della commedia dell’arte, Formica e Pascariello. Un “ Formica” in versione napoletana riuscì ad attrarre l’attenzione e l’ilarità di tutti i presenti, con trame in cui l’attore passava dall’essere guitto a saltimbanco, da ciarlatano a grande poeta. Tutti si chiedevano chi potesse essere quell’istrione che era riuscito in maniera così bizzarra ma sinergica, a tessere  i vari momenti dello spettacolo. Era lui, Salvator Rosa, e da quel giorno il nome del giovane pittore risonò in tutta Roma. Allora l’artista pensò di impiantare un vero e proprio teatro fuori Porta del Popolo, ma fu un’esperienza di breve durata. Durante  uno degli spettacoli venne canzonato Gian Lorenzo Bernini, il più grande degli artisti di quegli anni. Fu una bravata intollerabile tanto da costare all’artista irriverente una fuga verso Firenze. Ma prima di mettersi in viaggio, non mancò di scagliarsi, armato di poesia, contro la corruzione e l’ignoranza, che impedivano l’apprezzamento di uno spirito artistico: “Piovono ai porci qui le margherite/ Ed in tutti i tempi gli uomini migliori/ Col pane ci hanno una continua lite”. Ciononostante, quella che poteva rivelarsi una pericolosa vicenda per Salvator Rosa fu  il preludio per una rilevante carriera di artista, non solo in senso pittorico. A Firenze avevano sentito parlare di lui e la corte dei Medici lo accolse con entusiasmo. Entrò, quindi, in quella vera "Accademia" che aveva sempre sognato, costituita da pittori, letterati e musicisti, tra cui il pittore e poeta Lorenzo Lippi, Giovan Battista Ricciardi, commediografo e poeta, il futuro cardinale Paolo Minacci ed il cantore Francesco Baldovini. Il decennio fiorentino si rivelò molto proficuo e fruttuoso in senso pittorico con la realizzazione di opere importanti, tra cui  “Fortuna”, “Selva dei Filosofi” , “Cratete che si disfa del suo denaro disperdendolo in mare”, “Battaglia con il turco” e il “Tizio”,  ed anche dipinti a tematica stregonesca-magica . L’attenzione considerevole per le raffigurazioni diabolico-stregonesche di origine nordica si raccordava,  in realtà, al periodo giovanile napoletano. In questo ambiente Salvator Rosa trovò la grande opportunità di approfondire le conoscenze di filosofia e delle amate lettere per poter, come egli scriveva, “pinger per gloria e poetar per gioco”. Fu allora che scrisse  le prime tre delle sette satire  dedicate alla Poesia, Musica e Pittura. Nel 1650 decise di tornare definitamente a Roma, stanco di dover dipingere per le corti, rifiutando gli inviti  di Cristina di Svezia, dell’imperatore d’Austria e del re di Francia. Il suo spirito ribelle incominciò ad odiare le opere su commissione. In questo secondo periodo romano, dipinse il “Democrito in meditazione”, presentato al Pantheon nel 1651,  “Diogene che getta via la scodella” e la “ Battaglia Corsini nell’anno successivo, inoltre due capolavori di soggetto mitologico-morale come “Humana Fragilitas” e “Lo spirito di Samuele evocato davanti a Saul dalla strega di Endsor”. Quest’ultimo fu acquistato da Luigi XIV e attualmente è esposto la Museo del Louvre.Salvator Rosa accettò solo l’aiuto del  banchiere Carlo de Rossi, che gli comprò tanti quadri, senza mercato.  Tra i prelati della città c’era chi lo amava e chi l’odiava, sia in relazione alle sue opere pittoriche che per le sue liriche. Di Salvator Rosa si è detto e scritto tanto, anche di fantastico, considerato  il coraggio e l’abilità nel maneggiare la spada. Alcuni critici ritengono che il suo biografo Bernardo  De Dominici abbia contribuito a quella immagine di un artista, grande avventuriero,  pronto  a sfoderare la spada, che conquistò tanto i romantici dell’Ottocento. Anche il cinema neorealista del dopoguerra, con Alessandro Blasetti, ha voluto omaggiare in tal senso una figura che si prestava ad affascinare la sensibilità romantica. Prima di morire, Salvator Rosa volle sposare la sua compagna di vita, Lucrezia, che gli aveva dato un figlio Augusto. Si spense  a Roma il 15 marzo 1673 e fu sepolto in Santa Maria degli Angeli, dove ancora oggi si trova nel monumento  costruitogli  dal figlio. L’opera presa in considerazione in questa mostra ‘La Battaglia tra cristiani e turchi’ narra  lo scontro navale che ebbe luogo il 7 ottobre 1571 nelle acque di Lepanto, segnò una svolta epocale nella storia del Mar Mediterraneo e di tutti quei paesi che, fino ad allora, erano stati coinvolti nella lotta per arginare la minaccia turca.
La battaglia, tema caro all’attività pittorica di Salvator Rosa, fu uno dei suoi soggetti preferiti fin dagli esordi. Coppeta percependo la volontà del maestro, di andare oltre la meraviglia visiva, sceglie di agire direttamente nella terza dimensione, deformando materiali specchianti e sottolineando il ruolo decisivo che le tensioni hanno in questo dialogo. La luce che ne La battaglia di Lepanto, trafigge i visi dei protagonisti dei due gruppi antagonisti è reinterpretata in chiave contemporanea dall’artista, che la assimila, per rifletterla nelle sue sculture, il fruitore viene catturato dalla forza attrattiva delle opere di MaxCoppeta che si fondono a quelle del grande maestro del Barocco napoletano e questa forza sembra fuoriuscire dalle figure per propagarsi nei rimandi di una storia che scuote il presente e torna ad essere forma nuova. Il catalogo della mostra è edito da Gutenberg Edizioni mentre le foto sono di Rosario Spanò.
 
 
 
Baccaro Art Gallery via Carmine, 66 Pagani – Salerno
Dal 27 Maggio al 28 Settembre 2021
Lunedì dalle ore 17.00 alle 20.30
Martedì e Sabato dalle ore 10.00 alle ore 12.30 – Domenica su Prenotazione
Ingresso su prenotazioni Info : (+39) 392.6931259 / 081 5150877