di
Mario URSINO
Le razzie di opere d'arte durante le guerre napoleoniche costituiscono la nascita del più grande museo del mondo, il
Louvre, e l'Italia fu uno delle nazioni maggiormente vittima della spoliazione dei suoi capolavori che, per fortuna e grazie all'azione del
Canova, furono in buona parte recuperati; molte opere, però, sono rimaste in Francia poiché Napoleone se le era garantite legittimamente con il
Trattato di pace di Tolentino del 19 febbraio 1797 firmato dal futuro imperatore con l'emissario pontificio,
cardinale Mattei ed altri.
Napoleone disponeva di una “commissione di esperti” che nel frattempo aveva già raccolto una quantità di opere d'arte a Ravenna, Rimini, Pesaro, Ancona e Perugia, e subito spedite a Parigi. Ma si riprometteva contemporaneamente di appropriarsi di quelle ancora a Roma, come risulta da una lettera di
Napoleone al Direttorio: “
Con queste, e con quelle che spediremo da Roma, tutto quello che c'è di bello in Italia sarà nostro… [analogo sogno sarà poi di
Hitler, n.d.r.]”.

Gli accordi di Tolentino furono quindi fondamentali “
per numero e importanza, una pietra miliare nella storia del Louvre” (cfr.
P. Wesher, I furti d'arte. Napoleone e la nascita del Louvre, Torino 1988, p. 67). Ma oltre alle opere che divennero giuridicamente di proprietà della nazione francese, moltissime altre furono sottratte illecitamente, e l'esempio più eclatante fu l'asportazione del grandioso dipinto del
Veronese, Le nozze di Cana, che non era di proprietà pontificia, bensì apparteneva alla Repubblica di Venezia e si trovava, come molti sanno, nel
Refertorio di San Giorgio Maggiore, oggi della
Fondazione Cini; qui figura dal 2007, dopo 210 anni di assenza, una fedelissima riproduzione, ossia un fac-simile dell'originale, eseguito dall'artista britannico
Adam Lowe, realizzato grazie alle moderne e sofisticate tecniche di riproduzione; l'originale del
Veronese, invece, si trova tuttora nel “
Salon Carré” del
Louvre, di fronte alla più nota
Gioconda (ma i più non se ne accorgono, tutti rivolti verso il celebre ritratto; io stesso, qualche anno fa, in una visita al
Louvre, ho potuto constatare l'indifferenza della massa dei visitatori rispetto al splendido scenario delle
Nozze di Cana, come ammesso in una dichiarazione resa al noto regista pittore,
Peter Greenway nel 2014, anche lui stupito per lo stesso fenomeno, persino da una delle curatrici del museo,
Cecile Scaillieirez, responsabile dei dipinti italiani: “
Questa dama fiorentina detta legge, tutto il museo gira intorno a lei”)
.
Napoleone, portandosi via questo capolavoro, sempre nel 1797, volle punire Venezia per essersi schierata a favore dell'Austria, imponendo alla Serenissima pesanti risarcimenti, e trafugando i famosi
Quattro cavalli di San Marco e il
Leone di bronzo, simbolo della Repubblica che si trovava in cima alla colonna della Piazzetta verso il Palazzo Ducale, poi recuperati per l'azione diplomatica del
Canova, di cui si celebrano oggi a Roma, alle scuderie del Quirinale, i cento anni dal ritorno di una consistente parte del bottino napoleonico.
Ma perché il grande dipinto del
Veronese non tornò più a Venezia? Molti anni fa
Pierre Rosenberg, allora conservatore generale del dipartimento di pittura del
Louvre, in un Convegno alla
Fondazione Cini, cui partecipò anche
André Malreaux, ministro della cultura del governo
De Gaulle dal 1959 al 1969, dichiarò che il mancato ritorno a Venezia di quel mirabile capolavoro era in realtà da addebitare agli stessi veneziani, che invece di reclamare l'opera del
Veronese, ne domandarono un'altra delle medesime grandi dimensioni,
Maria Maddalena ai piedi di Gesù, di
Charles Le Brun (1619-1690), opera considerata uno dei capolavori dell'artista francese, che è conservata (nei depositi?) nelle
Gallerie dell'Accademia a Venezia, ma che certo non ha, almeno da noi, la stessa notorietà delle
Nozze di Cana del
Veronese. In quell'incontro alla
Fondazione Cini era presente anche il germanista e storico dell'arte
Giorgio Zampa (1921-2008): in un suo articolo (
La mano lesta del Louvre, “Il Giornale”, 22 settembre 1988) riferisce che qualcuno degli oratori si rivolse a
Malreaux per proporre di far tornare a San Giorgio il dipinto del Veronese; ma bastò l'espressione di
Malreaux e le poche parole che disse - ha scritto
Zampa - “
per farmi capire che il tentativo era fallito”.
* * *
Resta comunque il fatto che la mostra allestita al Quirinale,
Il Museo universale. Dal sogno di Napoleone a Canova, a cura di
Valter Curzi, Carolina Brook, Claudio Parisi Presicce, fino al 12 marzo 2017, oltre a mostrare un'ottima selezione delle opere tornate dalla Francia, sia pure alcune come calchi di buona fattura, come il celebre
Lacoonte (calco del XIX sec.), del Vaticano e la
Venere Italica, dal
Museo Canoviano di Possagno, allinea opere prestigiose come
La strage degli Innocenti di
Guido Reni, della
Pinacoteca di Bologna, la
Venere Capitolina, II sec. d.C., la
Pala di S. Agostino de
l Perugino,
Il Ritratto di Leone X, di
Raffaello, l'
Assunzione della Vergine, di
Tiziano, per citare le opere più note, ed è utile per comprendere che proprio da quei furti francesi, paradossalmente, nasce l'idea del museo
.jpg)
pubblico, del valore collettivo dell'opera d'arte, e che lo stesso museo del
Louvre ne fu l'esempio iniziale, dal quale
Andrea Appiani poté trarre il modello per fondare quella che sarà poi la
Pinacoteca di Brera, in base al principio giuridico della demanialità,
Ma il personaggio, la figura di spicco fra ‘700 e ‘800, fu certamente
Dominique Vivant Denon (1747-1825), già presente nella corte di
Luigi XV, che passò indenne attraverso la Rivoluzione, anche per la stretta amicizia che aveva con il grande artista neoclassico
Jaques-Louis David (1748-1825); egli riuscì a realizzare il “Sogno di Napoleone”, facendo del
Louvre il museo dei musei. Infatti aveva seguito
Napoleone nei suoi viaggi, anche in Egitto, introducendo in Francia lo “stile impero”; inoltre con il suo gusto di studioso, trasferì a Parigi importanti opere dei primitivi italiani (a quel tempo poco o punto studiati), come
Giotto, Cimabue, Gentile da Fabriano, Benozzo Gozzoli, il Sodoma, Filippo Lippi, Lorenzo di Credi; comprese l'importanza di
Giorgio Vasari, quale primo storico dell'arte moderna, e studiò anche i testi del
Boschini, del
Milizia e del
Lanzi.
Denon può anche apparire ai nostri occhi come un avido e bulimico raccoglitore di opere d'arte, ma la sua in realtà era una vera e propria sete di conoscenza; ha compreso, a mio avviso, il valore documentario dell'opera d'arte come fonte sistematica di lavoro e di catalogazione. Tanto è vero che, nello studio sopra citato di
Paul Wesher, si apprende che
Denon cedette ad
Appiani due
Rembrandt, pur di ottenere un importante dipinto del leonardesco
Marco d'Oggiono. Quindi
Vivant Denon può essere giustamente considerato come il primo direttore di un museo pubblico, uno storico dell'arte “
avant-lettre”, in senso moderno; copiò, mentre era diplomatico a Napoli, per trarne incisioni, brani degli scavi di Pompei e Ercolano; aiutò l'
Abate di Saint-Non ad illustrare i suoi resoconti. confluiti nella celebre opera
Voyage pittoresque ou description des royaumes de Naples et de Sicile, 1781-1786. Pubblicò scritti museografici, come la
Description des Monouments de la Haute et
Basse Egipte, del 1802, che sono dei veri e propri modelli di moderna catalogazione.
Il carattere pubblico del museo napoleonico, di cui
Denon era direttore, attirò molti artisti dalla Gran Bretagna dopo la
Pace di Amiens tra Francia e Inghilterra, come
Füssli e
Flaxman, per esempio, che poterono per primi vedere e studiare direttamente i capolavori provenienti dall'Italia (e dalle altre terre conquistate dall'armata napoleonica), prima che facessero ritorno in patria per opera di
Canova, su incarico di
Pio VII Chiaramonti, il papa che dettò le prime norme giuridiche per la protezione e la tutela delle opere d'arte, con il chirografo promulgato con l'
Editto Doria del 1802, perfezionato poi con l'
Editto Pacca del 1820, fonti anche per la futura legislazione artistica dello Stato italiano.