![]() Con la Trinità (1426, Basilica di Santa Maria Novella, Firenze) di Masaccio l'arte sacra conquista una delle sue vette più alte. L'intuizione s'è fatta idea, l'idea s'è fatta visione, la visione immagine, l'immagine rappresentazione. E, quando la rappresentazione si carica di tali e tanti significati, religiosi ed estetici, si fa icona, icona di un dogma, quello della Trinità secondo la dottrina delle chiese cristiane (cattolica, ortodossa, luterana, calvinista, anglicana). Non era un'impresa da poco. Masaccio, con il suo affresco, si pone agli antipodi della rappresentazione pittorica trinitaria e il suo "modello” farà scuola in tutto il tempo a venire: a lui, infatti, si ispireranno artisti del calibro di Filippo Lippi (L'Adorazione del Bambino, 1459), Raffaello e Perugino (Trinità e Santi, Cappella di San Severo, Perugia (1507 e 1521), Raffaello (Disputa del Sacramento, 1509), Albrect Dürer (L'Adorazione della Santissma Trinità, 1511), Andrea del Sarto (Disputa sulla Trinità, 1517), Lorenzo Lotto (La Trinità, 1524) e, quindi, Francesco Cairo (Santìsima Trinidad, 1630), Velazquez (Coronazione della Vergine, 1645), Murillo (Le Due Trinità, 1680).
Se l'affresco di Masaccio, come si è detto, costituisce un ?prototipo”, occorre ricordare, per completezza di racconto, che già l'arte bizantina s'era prodotta nella rappresentazione trinitaria, senza mai raggiungere, per altro, la compiutezza teologica e l'esemplarità estetica del pittore di San Giovanni Valdarno. Una citazione a parte merita senz'altro il pittore di icone russo Andrej Rublev (1360-1430), santo per la chiesa ortodossa. La sua Trinità (Galleria statale di Tret'jakov, Mosca, 1410), resta un notevole esempio di immagine trinitaria "indiretta”. L'icona, infatti, raffigura, secondo il racconto della Genesi, tre angeli in visita ad Abramo, che anticipano a lui e alla moglie Sara la prossima discendenza. ![]() In realtà, sotto la "copertura” dei tre angeli si cela la stessa Trinità. L'"icona delle icone”, così definita dal Concilio dei cento capitoli (1551), pullula letteralmente di simboli: intorno ad un tavolo-altare, sul quale è appoggiato il calice del sacrificio eucaristico di Cristo, siedono tre figure angeliche, i cui contorni interni formano a loro volta una coppa. La triplice immagine è inseribile in un cerchio, simbolo dell'unità della Chiesa rappresentata dalla stessa Trinità. I colori, poi, giocano un ruolo di rilievo simbolico: Dio, alla sinistra dell'icona, appare rivestito d'oro, segno di suprema regalità. È d'oro anche la stola di Gesù, al centro, segno di compartecipazione del Suo sacerdozio regale. Gesù, tra l'altro, è rivestito di rosso, evidente allegoria del sacrificio cui è destinato. Lo Spirito santo veste di verde, simbolo di vita; così come il blu compare nella triplice raffigurazione, simbolo di vita eterna.
Le icone bizantine - com'è stato osservato - "vere finestre sull'eternità” e vere "fontes theologiae” e non già puri ?ornamenta ecclesiae”, vantano il primato su tutta l'arte sacra occidentale della capacità induttiva alla preghiera, contengono e conservano per l'eterno messaggi di verità rivelate e perciò inestinguibili. Non fatte per la decorazione delle chiese o delle dimore private, servono più che altro per la liturgia e per l'incontro ravvicinato dei fedeli coi misteri raffigurati e celebrati. Da questo punto di vista, il quasi contemporaneo affresco per mano di Masaccio, sito nella basilica di Santa Maria Novella in Firenze, è quasi un contraltare. Già le sue dimensioni, (667×317 cm), rispetto a quelle dell'"icona delle icone” (141,5×114 cm), fanno pensare ad un respiro più profondo e solenne: viene superato, si può dire, il rapporto biunivoco fedele-divinità per aprirsi a quello ecumenico, più evangelico ed universale, della comunità dei fedeli, della Chiesa di Dio. ![]() L'affresco si regge su una quinta architettonicamente spinta e a prospettiva centrale. Brunelleschi deve aver detto la sua all'amico Masaccio: anche così si spiega la perfezione della volta scorciata a botte, la presenza di archi a tutto sesto e le paraste corinzie. L'illusione della profondità spaziale, oltre a costituire una "novità” del tutto sorprendente, ubbidisce all'intento di voler unire l'umano col divino. Se lo sguardo prevalente dell'arte medievale partiva dal cielo per illuminare e attrarre a sé la terra, qui si assiste al capovolgimento metanoico del rapporto: si parte dalla terra, dall'umano, destinato - tra l'altro - a tornare polvere. Lo grida, al piano basso, il "memento mori” raffigurato dallo scheletro deposto nel sarcofago. La salvezza viene dalla capacità di elevarsi e di porsi nella prospettiva fuggente che guarda a Cristo e alla sua triplice natura divina. Le linee prospettiche costringono lo sguardo, in andata, a guardare verso un punto di fuga centrato a metà corpo del Cristo; ma è anche possibile immaginare, al ritorno, una raggiera di linee che partono dallo stesso punto per allargarsi fino a comprendere l'osservatore nel suo cono di luce. Al piano mediano, inginocchiati, in preghiera e fissi con lo sguardo verso Cristo, il committente e sua moglie: l'affresco è pur sempre un'opera "cortese" anche se destinata a ornare una chiesa; ma si capisce che essi, pur nella loro minima "pluralità”, rappresentano l'intera umanità, implorante, ai piedi della Croce. Salendo con lo sguardo a ritroso verso il piano più alto della rappresentazione, vero tempio teologico e iconico della Trinità, trono di Grazia, l'osservatore "incrocia” lo sguardo della Madonna, che con la mano destra invita a guardare verso il Crocefisso: il suo sguardo, inaspettatamente severo e impassibile, "sa” di rimprovero ("Uomini, figli miei, guardate che cosa avete fatto!”), pur nell'accettazione d'un disegno che l'ha sovrastata e vinta. Dirimpettaio, il "figlio” raccomandatale dall'amore del Figlio sacrificato: Giovanni, rivestito d'un rosso mantello, a mani giunte, nel classico atteggiamento del dolente. Sul piano più rialzato dell'affresco, il dogma della Trinità, che più "sciolto” e raffigurato di così non poteva essere. Appena innanzi all'arco di fondo, che chiude la "cappella”, su una piattaforma orizzontale si erge il Padre, gigantesco nella sua altezza - con l'aureola che sfiora, quasi a toccarla, la volta - e possente nello sguardo al tempo stesso sereno e severo. Egli sostiene il braccio orizzontale della Croce come farebbe ogni padre nel vano tentativo di alleggerire la pena d'un figlio. Il suo gesto, però, appare più aperto all'evidenza di una ?presentazione del Figlio” al mondo, dal Golgota divenuto nuovo Tabor, tanto da poter quasi riudire il monito: "Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. "Ascoltatelo”. La bianca colomba dello Spirito avvolge quasi, con le sue ali, il collo del Padre e discende in picchiata sul Figlio: la soluzione pittorica non appare tra le più felici, a malapena distinguendosi dal contesto, ma rende efficacemente il concetto dell'"emanazione”. Il Figlio, messia misconosciuto, messaggero misericordioso di pace e di amore, è raffigurato non nella gloria del cielo guadagnata dopo la Resurrezione ma nell'ignominia del supplizio. Il suo corpo risplende al centro della cappella non per la luce della sua divinità ma per il pallore del suo corpo martoriato. Gesù morto è l'epilogo della sua "avventura” umana e il prologo del suo ritorno al Padre, senza non prima di aver lasciato le chiavi della salvezza nelle mani degli uomini. Un effetto straniante s'avverte quando si è dinanzi a questa cappella dipinta, forse dovuto all'apparente irriducibilità delle figure del Padre e del Figlio alle regole della prospettiva: è l'impressione come d'un loro incombente "precipitare” su chi osserva: il che rende la visita oltremodo pervasiva e toccante. Ma è soltanto un effetto prospettico. |