Codice-P-copertinaRecensione di R. Borchia, O. Nesci, Codice P. Atlante illustrato del reale paesaggio della Gioconda, Electa, Milano 2012.

Non è senza un forte imbarazzo che chi scrive si trova a comporre, in qualità di storico dell’arte, queste poche righe di commento alla lunga, entusiastica, accurata e dettagliatissima ricerca condotta dalle due autrici. Si deve purtroppo dichiarare infatti che, a dispetto del testo e del ricchissimo materiale illustrativo addotto, la tesi sostenuta nel volume di riconoscere nel paesaggio alle spalle della cosiddetta Gioconda le valli del torrente Senatello e del fiume Marecchia e alcuni rilievi montuosi del Montefeltro, che già in partenza lasciava a dir poco perplessi, è apparsa priva del benché minimo fondamento.

Già il confronto per immagini tra il paesaggio attuale e il veloce schizzo del f. 161r del codice Arundel induce il lettore a rilevare l’assoluta incongruenza della supposta relazione. Allo scopo inoltre di spiegare e giustificare le irriducibili varianti spaziali e proporzionali, che evidentemente appaiono tali anche alle autrici, esse non solo fanno ricorso a un’ipotetica e indimostrabile ricostruzione fondata su un doppio punto di fuga, la quale unita ad altri e più solidi argomenti potrebbe anche avere qualche ragion d’essere, ma addirittura a un procedimento di “compressione” delle rilevazioni grafiche che Leonardo avrebbe compiuto in loco nel 1514 – non certo nel 1502, quando l'esecuzione della Gioconda era ancora nel grembo della Provvidenza – arrampicandosi su per le cime più scoscese del territorio montefeltrino. E quando anche così i dati non tornino, soccorre sempre l’escamotage di addurre le posteriori trasformazioni del territorio, alluvionali e antropiche, suffragandole con materiali cartografici che spaziano dal secolo XVI al XIX, e quindi lontanissimi fra loro per grado di fedeltà al reale. Sta di fatto che le pagine migliori del volume, quelle conclusive ad opera di Daniele Sacco, nonostante la più volenterosa apertura immaginabile nei confronti della teoria ivi sostenuta, non possono fare altro che limitarsi a non escludere l’antica esistenza di un ponte, invece che di un guado, all’incirca nel punto topografico della valle del Marecchia a cui si pretende di far corrispondere il brano paesistico dipinto alle spalle della gentildonna dall’enigmatico sorriso: ponte di cui però non sussiste appunto alcuna prova materiale o documentaria.

Leonardo_da_Vinci_La Gioconda_LouvreIl disagio, per il malcapitato storico dell’arte, si fa ancora più grave di fronte alla sequela di “confronti con altre opere pittoriche”, delle quali l’unica per cui è davvero ragionevole individuare dei riscontri ambientali, sia per l’epoca ormai segnata dall’avvento del realismo politico sia in quanto nel caso specifico programmaticamente voluti, è il vasariano Assedio della rocca di San Leo in Palazzo Vecchio a Firenze. Il giungere poi a chiamare in causa un’opera del tutto fuori contesto come il Battesimo di Cristo Garzadori di Giovanni Bellini, che per inciso è nel santuario di Santa Corona a Vicenza e non a Venezia, è arduo non considerarlo un clamoroso autogol, quali che siano i retropensieri su cui l’idea si appoggia.

Ma qualunque umanista, alla lettura del libro, rimane sconfortato dalla totale assenza di ricorso alle fonti coeve a Leonardo: letterarie, teoriche, archivistiche. Ebbene, riguardo alla pittura del primo e del pieno Rinascimento non è mai dato riscontrare, e si ripete mai, alcuna dimostrazione di un interesse scientificamente topografico in senso moderno al momento di ambientare una qualsivoglia immagine o rappresentazione storica. Se è appunto con le grandi imprese decorative promosse agli esordi del nuovo assetto europeo fondato sull’assolutismo e sui moderni Stati-nazione e principati – si veda appunto il vasariano Salone dei Cinquecento a Firenze, la Sala Regia in Vaticano, la Galleria delle Battaglie all’Escorial in Spagna, o ancora le numerose rappresentazioni prodotte della battaglia di Lepanto – che tale attenzione si fa avanti nella rappresentazione storica, ma sempre conservando un buon margine di convenzionalità rispetto alle esigenze “scientifiche” invalse dall’inizio del Settecento, per trovare restituzioni e allusioni analoghe nella pittura di storia sacra o civile o nel ritratto, specie quello privato, occorre nondimeno attendere il classicismo seicentesco e il collegato sviluppo della pittura di paesaggio.

Ambrogio_Lorenzetti_Effetti_del_Buon_GovernoCosì come il trecentesco Ambrogio Lorenzetti per le Crete senesi nel celebre Buon Governo, ancora un secolo e mezzo dopo Piero della Francesca nei Ritratti dei duchi di Montefeltro intende sì offrire una resa evocativa delle loro terre, ma beninteso priva di precise denotazioni topografiche in termini di distanze e proporzioni.
Semplicemente, andare oltre un’ambientazione geograficamente caratterizzata nella morfologia, nella vegetazione e nelle caratteristiche degli eventuali insediamenti umani, ma pur sempre tipica rispetto a una fedele riproduzione oggettiva, era del tutto al di fuori della cultura e della mentalità del tempo. E il Perugino, con il mito del dolce paesaggio umbro che da secoli lo segue come un’ombra? Anche nel suo caso, visioni lacustri comprese, si tratta di nulla più che di evocazioni generiche delle valli del Chiascio o del Topino o del lago Trasimeno, ma senza nessuna volontà di raffigurazione esatta. Si potrebbe, ed è anzi giusto farlo, prendere per un momento in considerazione proprio la figura di Leonardo da Vinci, vista la sua eccezionalità di artista-scienziato: ma anche per lui è fondamentale distiguere l’opera grafica, eseguita per scopi militari e scientifici, dalla pittura, nella quale i dati oggettivi vengono trasfigurati, smontati e liberamente ricomposti con l’ausilio dell’immaginazione; senza considerare che le autrici non sembrano essersi date pena di dimostrare l’utilizzo da parte sua delle ricordate “compressioni”, da loro data invece per scontata, al fine di spiegare l’incredibile metamorfosi delle dolci colline dell’alta Marca in impervie rocce dolomitiche.

Piero_della_Francesca_Ritratti_di_Federico_da_Montefeltro_e_Battista_SforzaChe poi la supposta Gioconda sia in realtà un ritratto idealizzato della defunta Pacifica Brandani, amante di Giuliano de’ Medici e madre del futuro cardinale Ippolito, come ha recentemente sostenuto con ampia documentazione Roberto Zapperi, è una proposta ben altrimenti fondata, autosufficiente e che non ha alcun bisogno di ulteriori sostegni derivanti da inesistenti raffronti paesistici.

Un’ultima considerazione: proprio per via della sua sedula meticolosità, degna se è consentito dirlo di miglior causa, il saggio in questione induce nell’accolito di scienze umane anche una certa preoccupazione. Quella derivante dalla constatazione di quanto sia grande il potere autosuggestivo dell’osservatore, il desiderio di sovrapporre a tutti i costi ciò che si spera di vedere a ciò che in realtà si vede: una preoccupazione che costringe a interrogarsi ancora sui limiti tra verità scientifica e fantasia, tra indebite superfetazioni interpretative operate a posteriori e continue riscoperta e rivalutazione di significati espliciti e reconditi, tanto voluti quanto inconsapevoli, insiti nell’opera d’arte di qualsivoglia linguaggio espressivo, i quali devono però essere investigati solo e sempre facendo riferimento ai paradigmi culturali propri della civiltà in cui tale opera ha visto la luce. Forse proprio per questa mancanza, il libro sul presunto paesaggio alle spalle dell’intramontabile feticcio leonardesco spinge a un malinconico pessimismo circa l’efficacia di un’indagine sull’opera d’arte come documento primario messa in atto da chi storico dell’arte non è: e si creda, non è una conclusione a cui si perviene con compiacimento. Ci si rammarica e ci si scusa dunque nei confronti delle autrici e dello straordinario entusiasmo che trapela da ogni riga del loro lavoro, ma tanto si è costretti ad affermare in coscienza e onestà.
Antonio Vannugli, 26 marzo 2013