Giovanni Cardone Aprile 2024
Fino al 12 Maggio 2024 si potrà ammirare al Museo delle Culture di Lugano Luca Pignatelli Astratto a cura di Francesco Paolo Campione. L’esposizione nata da un lungo e continuo dialogo iniziato due anni fa, tra l’artista milanese e Francesco Paolo Campione condotto su un filo dialettico che univa ricordi e riflessioni direttamente suscitati dalle opere, dai libri, dalle fotografie e dagli oggetti che riempiono e animano il grande atelier di Luca Pignatelli. Un confronto che ha permesso di far emergere il senso che assume per Pignatelli il lavoro sull’astrazione, che porta verso nuovi territori la sua personale e distintiva relazione alla materia e al tempo che caratterizza fin dagli inizi tutta la sua vasta ricerca. La rassegna presenta quarantanove opere, per lo più inedite, di grandi dimensioni,ricavate da larghe porzioni di teloni ferroviari dismessi, giuntati, cuciti, forati, bruciati, e poi dipinti e lavorati con inserti di diversa natura. Una materia esausta e ulteriormente ridotta ai minimi termini per restituire, secondo le modalità espressive dell’astrazione, il sapore di un universo costruito da una molteplicità di significati.  In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Luca Pignatelli apro il mio saggio dicendo : Il suo linguaggio su carta è a tutti gli effetti “pittura” cambia la dimensione e il rapporto ma l’ortografia e la sintassi della sua arte non registrano alcun mutamento. Non siamo mai di fronte a “studi preparatori” o a “bozzetti”. Non è dunque un caso se a questa premessa generale corrisponde un processo metodologico che opera per gamme seriali, che organizza il piano del racconto per gruppi omogenei, che seziona l’analisi dell’immagine in sequenze distinte, in ambiti paralleli. E’ un procedere ossessivo, maniacale, di un lavoro di continua scomposizione e ricomposizione del racconto. Diventa così difficile, forse impossibile infrangere il ritmo della serialità, concentrare lo sguardo su un’immagine che si dissolve nella propria solitudine. Luca Pignatelli ha il coraggio di avventurarsi negli ingorghi dell’ibridazione e del meticciato linguistico. Ogni disegno trascina con sé altri fogli, così come ogni racconto si moltiplica in immagini simili ed è quindi facile distribuire la lettura del disegno nel suo plurale, rincorrere la figura attraverso la sua ripetitività. Si potrebbe ipotizzare un processo simile, ma dagli esiti opposti, a quello indagato da artisti come Lee Ufan, Brice Marden o Enrico Castellani. In questi casi l’impianto concettuale si avvale di una radicalità che azzera l’intero contesto narrativo. Viceversa, Pignatelli, affonda l’indagine proprio nel cuore del racconto. E’ proprio la struttura narrativa a dettare il ritmo sequenziale delle immagini e quindi a imporre una presenza scenica della figura che affievolisce, fino a dissolvere, il pur solido impianto concettuale. Sfogliando così i disegni dei primi anni novanta, la percezione dell’immagine si sofferma sull’istintività del tratto, sulla gestualità delle macchie, sulla sfacciataggine del colore: insomma sulle regole ortografiche della narrazione, lasciando così in ombra elementi concettuali, come la complessità architettonica o la composizione spaziale. Luca Pignatelli compie una scelta precisa, una scelta che è una dichiarazione d’amore alla pittura, la volontà di non annichilire l’immagine e con essa l’emozione del racconto, un segno di riconoscenza e complicità con la storia della pittura, con l’intero patrimonio iconografico che la sua tradizione ha conservato. Luca Pignatelli è perfettamente consapevole di tale intreccio espressivo, il suo lavoro è lucido e preciso nel dosare alchemicamente i pesi fra l’aspetto formale e quello concettuale, fra linguaggio e narrazione. In tal modo assistiamo a un processo narrativo che oscilla fra i sussulti emozionali della figura e le ruvide superfici della sperimentazione formale. Con questa lente d’ingrandimento interpretativo si possono leggere i foglie della serie Cartiere dei primi anni duemila, dove il dato paesaggistico si assopisce e affonda nell’ingorgo melmoso di una superficie cromatica nella quale le sbavature delle linee si dissolvono con aloni atmosferici. Colori acidi, corrosivi e violentemente contrastati aggrediscono i tratti infantili delle case, delle strade, le prospettive incerte, gli orizzonti schiacciati in alto. Sono disegni che respirano i vapori della pittura, che accarezzano le polveri del pigmento, che alludono a una materialità solamente intuita. Quella stessa materialità che invece emerge prepotentemente nella serie di fogli intitolati Arazzi italiani della metà degli anni duemila, dove la superficie si increspa e si raggruma, come una plastica sfiorata dal fuoco, divenendo rifugio sicuro per altre carte, nuove stoffe, inattesi oggetti. Carte strappaste, sovrapposte, incollate, nuovamente ridotte a brandelli, imbrattate di colore, fogli che da soli compongono un loro paesaggio, che dispongono figure, fiori, arabeschi attraverso una sorprendente musicalità coloristica. Autentici arazzi visionari, frammenti di sogni e racconti che si immergono e affiorano disordinatamente sulla superficie rugosa, dando vita a una narrazione fantastica, avvolta dalla magia della fiaba e, contemporaneamente, incerta nell’attesa di un incubo. In quei fogli è la materia a prendere il sopravvento: l’ordito narrativo si dispone lungo le direttrici dettate dalla carta, consentendo alle immagini di accomodarsi negli spazi ritagliati dal foglio. Una sorta di pelle grinzosa che si deforma ulteriormente nel ciclo di opere più recenti intitolate Icona: un complesso di disegni ingabbiati in griglie geometriche incerte e claudicanti, realizzate con la sovrapposizione di stoffe e altri materiali sopra una carta sempre più consumata e affaticata. La superficie si addensa mostrando dolorose cicatrici che sembrano aver ingoiato la figura, la narrazione si rende eterea, evanescente, liberando solo una debole lettura in filigrana. Lo stesso colore, in altre opere aggressivo e spavaldo, in questi disegni si ritrae nelle terre e nei neri, nei grigi e negli ocra, generando un’atmosfera inquietante, sospesa e metafisica, dove la narrazione sembra diluirsi nei materiali che si accalcano sulla carta. E’ la forza di una costruzione astratta, la definizione di uno spazio scenico suddiviso per quinte teatrali, luogo di una recitazione multipla e simultanea che finge di oscurare il racconto, invece lo moltiplica e lo frammenta in piani narrativi intrecciati.  Pignatelli ricorre a una geometria poetica, un rigore del dubbio, una fragilità di fede, che alludono al segreto mistico delle “icone”, alla sacralità dell’immagine che va protetta, coperta, celata dalla preziosità dei metalli e delle pietre. Non deve quindi stupire se queste Icone seguono di qualche anno l’importante serie dei Treni, una sequenza di opere che occupa alcuni anni di lavoro dell’artista, e che, a differenza di Arazzi italiani e Icone, ricolloca al centro dei riflettori la figura. Il questo caso il disegno appare più meccanico, progettuale, l’immagine è definita nel suo soggetto e inquadrata nell’architettura del paesaggio urbano; solo al colore sono concessi il disordine dell’improvvisazione, la fantasia della casualità, il piacere della luminosità e del contrasto. Vivace ma non caramelloso, l’impianto cromatico costituisce il palcoscenico generale sul quale si presenta il racconto, aloni densi di acquerellatura che assorbono la rigidità delle linee e suggeriscono un movimento più morbido e sinuoso. L’immagine riprende possesso dell’opera, la locomotiva e tutto il suo linguaggio simbolico, dal Futurismo alla Metafisica, si accomoda al centro del disegno, lo invade in ogni parte lasciandosi sopraffare solo dalle colate di colore che macchiano la carta e soffocano ogni eccesso di tecnicismo. Sono opere che apparentemente contrastano con altre serie degli stessi anni che, come Icone, avevano abbassato il tono del colore e assopito la presenza del racconto. In realtà anche I Treni non rinunciano all’opacità del mistero, non si appiattiscono al mimetismo del racconto: anche in questi fogli l’ambiguità del rapporto tra figura e sfondo, tra linguaggio e pensiero, emerge in tutta la sua complessità concettuale. Quella stessa complessità che prende corpo e domina in opere più recenti, come Scritture e Cosmografie, dove si afferma una riorganizzazione del disegno affidata al fascino della calligrafia e all’oscurità della grafite. Se nella serie delle Scritture Pignatelli non rinuncia al volto del racconto e l’immagine definisce il terreno sul quale poi la parola esercita il proprio rito di significato, le Cosmografie sono invece un mondo a sé stante, una palude segnica dai contorni ancora inesplorati. Se le Scritture rimangono, comunque, nel perimetro del disegno, le Cosmografie, all’opposto, tracciano una nuova e indecifrabile mappa interpretativa. Nel primo caso, in disegno si compie nel profilo simbolico dell’alfabeto e nel conseguente significato letterario; nel secondo, tutto si dissolve nello spazio, in un altrove alla deriva, nell’abbandono del dubbio. Il ciclo delle Cosmografie costituisce il grande mistero del disegno di Luca Pignatelli, non un solo foglio ma un intero ambiente, non un solo racconto ma infinite narrazioni, non un’immagine ma una pioggia di segni che cadono ovunque. Non si tratta ovviamente di un banale aspetto dimensionale, non è solo l’urgenza di grandezza esercitata dal foglio, bensì la dimensione di sipario, quel sottile filtro tra diverse realtà, la buia pellicola che divide il mondo. Queste sono opere che vanno scrutate, accarezzate, indagate, vissute, attraversate; ogni volta si è colti da una sorpresa, un nuovo segno, una nuova forma, un altro racconto. Il nero di grafite, come una leggera lamina di piombo conserva una memoria antica, è una superficie materna, accogliente, nelle cui pieghe trovano riparo tutti gli altri disegni, tutti i segni, i colori, le immagini e i racconti: sui grandi fogli opachi di Luca Pignatelli si potrebbero appendere tutte le altre sue opere. Dunque, l’apporto del medium fotografico, i virtuosismi del collage, le raffinate ed esclusive tecniche di riproduzione sono tutti aspetti trascurabili di fronte alla poesia di una parete nera popolata dagli innumerevoli bagliori di segni segreti, dove il silenzio del disegno ripercorre i secoli della propria pratica, del proprio intimo fare. Magia di una superfice tanto solida da ricordare il metallo e al contempo fragile nelle lacerazioni della carta, alchemica nella sapiente capacità di mescolare i materiali di gesso e carbone, emozionante nell’incanto delle sue molteplici narrazioni. Sono specchi oscuri e misteriosi, laghi notturni sulla cui cupa superficie affiorano lampi di un pensiero visionario, tracce di incubi inquietanti, soffici carezze di una poesia autentica. Tutte le opere su carta di Luca Pignatelli testimoniano la centralità di questo linguaggio, il disegno si insinua in tutto il suo lavoro, è ossigeno per il suo pensiero. Affrontare l’analisi di queste opere significa incidere nel corpo della pittura, percorrerne le fibre, penetrare la sua carne e così accogliere le fragilità dei segni, la sorpresa dei colori, la sensualità della materia, l’emozione e l’incanto delle sue immagini. L’arte di Luca Pignatelli continua a camminare sull’orlo del precipizio, conserva lo sgomento del dubbio abbraccia le sue debolezze. Tutto questo spaventa ma, al contempo, rende il suo lavoro più vicino, più familiare, più vero e intenso (Danilo Eccher). Grazie alla descrizione del critico Arturo Carlo Quintavalle sono entrata virtualmente nello studio di Luca Pignatelli e ho potuto avvicinarmi alle diverse tecniche adottate nel corso del tempo. Soprattutto mi ha appassionato la sua ricerca dell’arte costruita per immagini. Una reminiscenza di AbyWarburge diMnemosyne.  Un atlante figurativo composto da una serie di tavole, costituite da montaggi fotografici che assemblano riproduzioni di opere diverse (opere d'arte, pagine di manoscritti, carte da gioco, etc.); ma anche reperti archeologici dell'antichità orientale, greca e romana; e ancora testimonianze della cultura del XX secolo (ritagli di giornale, etichette pubblicitarie, francobolli). Dunque non il consueto atelier ma “uno spazio ampio, molto ampio, con grandi altezze, con luoghi sotterranei. Sembra uno studio costruitonon per rappresentarsi ma per produrre. Certo, ci sono i pennelli, ci sono i toni diversi delle opere, ma c’è anche altro, una ripetizione differente delle opere stesse. Perché, chi entra, trova serie di opere che replicano l’impianto di altre con qualche significativa variante. Così quando vediamo Pignatelli dipinge treni oppure montagne, palazzi oppure aeroplani, grattacieli oppure statue antiche ci sembra di aver compreso tutto, ed è vero e inoppugnabile che quelle sono montagne, palazzi, aeroplani, rovine, statue e tanto altro ancora. Ma la certezza di aver realmente compreso dovrebbe essere, in questo caso, messa subito in dubbio. Non è chiaro tutto quello che è ovvio in Luca Pignatelli. Se la ricerca dell’arte è anche una forma di racconto in qualche modo autobiografico, costruito per associazioni mai casuali, l’indagine su Pignatelli dovrebbe partire proprio da questa organizzazione di immaginie dalle sue ragioni. Insomma, si dovrebbe scavare nella storia di Pignatelli, capire perché ha costruito le sue opere e come, negli anni, è giunto a queste scelte.  Scorrendo i testi di molti volumi, dei molti cataloghi delle mostre ci troviamo di fronte a una costante ripetizione: date queste immagini il critico sovrappone proprie memorie, proprie associazioni e costruisce un testo paraletterario sopra le opere. Allora il problema non è solo di interpretazione più approfondita delle opere, ma anche di controllo critico dei testi. Perché insomma proprio lo studio ha destato l’attenzione di tanti ma neppure un tentativo di storicizzazione? Lo studio è una mescolanza singolare fra l’atelier di un progettista (in fondo Luca Pignatelli è quasi architetto) e qualcosa d’altro che dovremmo scoprire. Progettista nel senso che qui si trova lo stesso stacco comune agli studi degli architetti, fra i tanti disegni e schizzi e la prova, alla fine, di una singola opera, scelta fra le “enne” possibili. Ma vedendo gli spazi, le dimensioni dei dipinti, il loro dominante bianco e nero, allora lo studio è qualcosa d’altro, è un set cinematografico. L’idea di porre la propria ricerca a metà tra film e fotografia, riproduzione mediatica e creazione singola, fra supporto tradizionale e supporti rivoluzionari, e ancora l’idea di proporre immagini ripetute, seriali, ma sempre differenti l’una dall’altra, tutto questo trasforma un luogo strettamente legato a una singola figura di creatore in uno spazio ad una prospettiva diversa da quella di transito delle opere dallo spazio della galleria a quello della raccolta privata. Non è un caso infatti che le dimensioni  delle invenzioni di Luca siano fuori scala rispetto alle creazioni più consuete e pretendano quindi di entrare, condizionare, trasformare la visione, la funzione delle opere e gli spazi della città, quelli pubblici. Le opere su carta sono un punto di passaggio rivelatore nella ricerca di Luca. Le opere di questo ciclo sono in genere di limitate dimensioni, colori affocati, una base di disegno spesso evidente. Paesaggio con dirigibile (1998) vuole essere un omaggio a certe Periferie di Sironi, ma con dentro altro, fumi neri, uno scardinarsi dell’immagine che è ancora più evidente in Paesaggio del liberalismo politico (1998). Qui, le due case scomposte dai tratti neri, il blocco scuro, la strada verde che si addentra, tutto ricorda i paesaggi di Murnau del primo Kandinskij o di Gabriele Munter. Una volta scoperto il punto di riferimento e la dimensione sottilmente espressionista – legata anche a DerBlaueReiter- di Luca Pignatelli, apparirà anche più evidente unavisione da messa in scena, da quinte teatrali, come in Fonderia (2014). Del resto, mettendo i titoli alle opere qualche volta Luca fa delle associazioni indicative, come in Blue River (2012), dove la facciata rinascimentale si giustappone a una sironiana ciminiera e a dei monti legati alle poetiche di Kirchner e Heckel. È curioso in Die neue Bau-Kunst(2012), l’uso di per sé significativo del titolo tedesco: vediamo una specie di facciata di palazzo rinascimentale con due ciminiere e il dirigibile in alto, e i monti sempre legati al clima tedesco che torna in Officina meccanica (2012), dove la fabbrica ha una fronte rinascimentale e in alto il dirigibile. Case rosse con ciminiera (2011) sembra davvero un omaggio alla cultura del primo e secondo decennio in Germania, e dunque il mito di un’arte libera, alternativa alle ideologie. Ma Luca legge questi paesaggi evocando altre mitologie oltre alle fabbriche, e così ecco Paesaggio notturno con miniera (2010) e Incendio (2010) dove alle strutture degli edifici al fondo si sovrappongono larghe pennellate, tracce di scrittura informale, anzi espressionista astratta. In Casa rossa (2008) Luca evoca direttamente Paul Klee, artista che certo lo deve avere molto interessato, come mostra anche Cantiere (2008), con le case dai colori diversi che emergono come apparizioni. Certo, Pignatelli punta sempre sulla sua formazione di architetto, come in Città operaia (2000), dove il mito della macchina e del progresso che è di Sironi, magari il progresso fascista, diventa gioco, sistema di forme intercambiabili, scatole come vagoni ferroviari, e un obelisco che è una ciminiera. In che modo il caso o l’imprevisto possono determinare la nascita di un’opera d’arte? Il ciclo di lavori intitolato Standard è nato in seguito a un banale incidente avvenuto nel marzo 2015, la frattura di un piede che di fatto ha impedito a Luca Pignatelli di lavorare per un po’ di tempo a opere di grandi dimensioni, vista la mobilità ridotta di contro alla grandezza del suo studio e delle tele spesso monumentali cui ci ha abituato.  L’impedimento tuttavia consente a Luca di alimentare la sua passione per la musica, di cui peraltro è esperto conoscitore. Avviene così che le note e la scrittura musicale accompagnino la pittura di Pignatelli in maniera indiretta, non esplicita o didascalica, e chi lo conosce bene non può non avvertire la sonorità, l’armonia ricercatissima del suo fare.
Riguardo al titolo di questa serie, la critica in campo musicale definisce “standard” un tema talmente noto da imporsi come un classico. Molti dei brani appartenenti a questa categoria venivano raccolti in libri chiamati “Real Book” o “Fake Book”, dove gli spartiti sono sintetizzati per riportare solo melodia, accordi, eventuali testi, in modo da facilitarne la personalizzazione. Nell’era in cui la musica si ascolta compressa in file digitali senza più la bellezza fisica del vinile; nell’epoca in cui quello che un tempo si chiamava “concept album” a significare un lavoro chiuso all’interno di una struttura precisa e definita, sembra definitivamente tramontato a favore della possibilità offerta a ciascuno di formarsi una propria raccolta di brani senza alcun intervento autoriale né concettuale, Pignatelli conduce un’operazione azzardata ma senza alcuna nostalgia. Recupera l’idea del vecchio 33 giri, appunto l’album, insistendo sulla scrittura corsiva, retaggio delle generazioni passate e nel presente pressoché dimenticata. Se l’impedimento fisico impone la lentezza, questa non può essere considerata un handicap, piuttosto una qualità ritrovata per caso. E allora Luca ha scritto sulle pagine del suo album di immagini le note di copertina dei dischi ascoltati negli anni, i brani contenuti nei due lati degli LP e le formazioni dei gruppi che per lui hanno significato qualcosa di importante, in uno straordinario processo di sinestesia perché le parole hanno il potere di evocare immagini, atmosfere, sensazioni anche e semplicemente per mezzo della scrittura. Pignatelli tratta le immagini come un grande archivio della memoria del Novecento; si fa fotocopie, scansioni di immagini di diversi tipi e decide di modificarle sovrapponendovi la propria scrittura e trascrivendo nomi, eventi, allusivi alle copertine dei dischi jazz della propria raccolta ma anche ai luoghi rappresentati, o anche scritte del tutto casuali, proprio come un cinegiornale di attualità negli anni d’oro del cinema americano accompagnato da una colonna sonora jazz, interrotta qua e là da qualche incursione nel classico di Bach e Beethoven. Il repertorio iconografico scelto dall’artista è quello delle vedute dello skyline di New York accompagnate dalle note di copertina di Clifford Brown e Woody Shaw, oppure i bombardieri che volano sui cieli della guerra, accompagnato per malizioso contrasto da assoli di sax, e quindi le antiche rovine da Grand Tour, i palazzi romani, e poi i boschi, foreste, una sintesi ideale dell’”immaginario Pignatelli”, un work in progress che potrebbe riprendere in qualsiasi momento. Ma prima di chiederci come mai si scelgano quelle immagini di supporto occorre capire perché l’autore usi la calligrafia. La scrittura diventa come una sovrapposizione antica, creando quasi un palinsesto, per cui il vero senso non sta nell’immagine che appare sotto, e nemmeno nella scrittura sovrapposta che, se letta per intero, mostra di essere lontanissima proprio dall’immagine, ma nella scelta di individuare una temporalità, o, se si preferisce, uno spazio narrativo che non appartiene all’epoca dell’immagine e neppure a quella della scrittura che, a sua volta, è di oggi ma allude a eventi che sono del passato, evocano il passato, come i molti nomi dei protagonisti della musica jazz. Si tratta di brani standard che suonano i musicista di jazz e che vengono raccolti in un “Real Book” in modo che qualsiasi musicista li possa suonare, in tutte le tonalità, direttamente dal vivo. Dunque, i temi delle immagini sono il supporto della scrittura a mano, segno individuo per eccellenza, come se il pittore volesse impadronirsi con le parole scritte di tutta la superficie, dilatando la propria firma all’interna opera, invadendo con quella grafia tutto lo spazio. Le scelte dei temi sono nate da un’attenta evocazione delle memorie infantili, del dialogo con il padre, dalla riflessione sulle immagini che il padre dipingeva e che il figlio vedeva, ammirava, considerava. Ma non solo: “Ho proceduto pensando a quello che succede durante un viaggio in macchina o in treno, quando metti anche le cuffie: senti sovrapporre la musica al paesaggio che stai guardando”(Luca Pignatelli). Riguardo al tema della stratificazione, Luca scrive su un supporto che propone un’immagine trascritta da riproduzioni e scansita e poi stampata, a volte con toni lievemente diversi; ecco dunque la calligrafia dell’artista che invade tutti gli spazi, alcuni li satura, altri li lascia più liberi, con dentro citazioni, nomi, ma anche ogni genere di testo, dalla poesia all’elenco di acquisti da fare, dalla citazione di un romanzo, di una canzone, a quella della copertina di un disco.
Le immagini, queste immagini vogliono rappresentare gli affioramenti della memoria e infatti, a ben vedere, nulla prevale, né la figura sottostante né la scrittura che spesso si confonde con gli scuri della fotografia, e tanto meno si scopre il senso dell’associazione copertina di disco/immagini. Insomma, Luca intende nascondere le ragioni, o la casualità, dell’associazione fra la propria scrittura e le figure che stanno sotto. Fin dal tardo Ottocento il treno è stato oggetto di raffigurazioni, narrazioni letterarie, inquadrature cinematografiche e sperimentazioni musicali. Fra queste si ricorda l’happening di John Cage (1978), un evento musicale basato sulla registrazione e l’interazione di suoni ambientali prodotti dal treno e dalle persone nelle carrozze o alle stazioni di fermata. Storicamente la comparsa della locomotiva a vapore costituì un elemento di novità impressionante, dai risvolti imprevisti sia sul piano reale che su quello artistico. E’ del 1844 Rain, Steam and Speed di William Turner, eseguito a pochi anni dalla costruzione delle prime ferrovie: il sogno della felicità si era finalmente compiuto e la lepre, che nel dipinto assiste al passaggio del treno, né è simbolo e testimone. Il treno vivrà nell’immaginario collettivo come emblema di libertà e di costrizione: ciò che da una parte era espressione di una libertà possibile, divenne anche il mezzo principale di migrazioni, lavori forzati e deportazioni. Il treno è un soggetto ricorrente nelle opere di Luca Pignatelli. Nelle prime opere è raffigurato su materiali di recupero come i teli di convogli dove il colore cupo e materico, tra lacerazioni trovate e giunture apportate, asseconda quello del supporto. Il ciclo ha per tema una locomotiva a vapore con tender e, sullo sfondo, a volte un’architettura, altre uno spazio libero spesso invaso dal fumo. Gli elementi di ogni opera sono chiari: locomotiva, fumo, paesaggio oppure struttura architettonica, trascrizione da un manuale di progettazione, magari un manuale che propone facciate moderne che evocano facciate rinascimentali. Luca Pignatelli è interessato alla trattatistica che va dal Serlio al Vignola. Riguardo all’elemento fumo, Luca lo dipinge a posteriori, usa forse tempera e comunque un colore a volte laviert, un colore che determina come una piramide rovesciata e un cono alquanto slabbrato che esce dalla ciminiera. Ma cosa propone, cosa rappresenta la locomotiva, fumiginante, forma dominante in primo piano? E che cosa l’architettura di fondo? E che cosa lo spazio informale che sta intorno alla locomotiva e della quale non si disegnano, ad esempio, i binari? Sembra ragionevole pensare a qualcosa di familiare all’autore che dialoga appunto con quell’immagine segnando i termini della propria formazione di architetto nelle strutture architettoniche di fondo. Sembra comunque evidente che questa serie voglia proporre un confronto fra culture diverse: il mondo dell’Informale, il mondo della Pop Art, la tradizione dell’architettura. Le opere propongono un dialogo ideale tra l’artista e la sua stessa storia. Proprio nella serie più recente di opere su carta (2013-2015), Pignatelli raffigura, su carte che hanno subito un processo di lavorazione complesso, locomotive dai colori pop con sbuffi esultanti davanti a edifici (stazioni) sbiaditi o cancellati dal vapore della locomotiva resa con grandi macchie di colore. Il colore cupo dello sfondo e i tratti accennati che delineano le architetture conferiscono all’opera un aspetto indefinito e incompiuto, come spesso il ricordo o il sogno di presentano, dissolvendosi nel momento stesso in cui la mente li ripercorre. La posizione stessa, diagonalmente, in cui sono raffigurate queste macchine allude al movimento. Per Michel Foucault, il treno, la nave, i cimiteri sono eterotopie, luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, contro-luoghi all’interno dell’istituzione della società. Lo spazio, secondo Foucault, si presenta sotto forma di relazioni di dislocazioni e il treno in particolare è l’esempio di un insieme di relazioni poiché è un mezzo dentro il quale e con il quale si passa da un punto all’altro. Allo stesso tempo è anche un mezzo che passa; un’eterotopia che non è in nessun luogo. Diversamente dal cinema che giustappone su uno schermo bidimensionale più luoghi in un luogo reale. In entrambi i casi lo spazio è intrecciato al tempo: nel treno il tempo è segnato dall’avanzamento e dalla percorrenza, dunque dalla successione dei luoghi; nel cinema dalla progressione delle scene montate.
I treni di Luca Pignatelli appartengono all’immaginario collettivo, come gli aerei da guerra che compaiono di frequente nelle sue opere. L’intento non è ritrarne la bellezza o la potenza magniloquente, ma provocare ciò che l’artista stesso definisce una “corruzione temporale”. È indubbio che, in tutta la sua opera, spazio e tempo si attraversano; Pignatelli si appropria delle immagini per orientarsi nel vastissimo repertorio iconico che il tempo ci mette a disposizione e sul quale poggia la nostra conoscenza, e il suo lavoro è in parte anche questo tentativo di comunicare delle distanze temporali e spaziali altrimenti non congiungibili. Ecco perché il treno, mezzo di congiunzione tra più punti su un tracciato, sembra sintetizzare, sul piano iconografico, questo tentativo. L’artista tuttavia attua una rottura rispetto al modello e all’immagine scelti, trattiene qualche dato per rielaborarlo e in molte occasioni lo fa attraverso la fotografia, memoria storica dell’umanità; interviene sull’immagine prescelta per offrire il suo punto di vista e individua analogie e associazioni tra immagini apparentemente molto lontane che innescano delle nuove letture. Tuttavia, rispetto all’immagine di una scultura del IV sec., che Pignatelli utilizza per riproporre una scultura su una superficie bidimensionale (mediata dalla fotografia), tra noi e l’immagine del treno sembra esserci una distanza minore. In questo caso, non c’è un trasferimento da una cultura a un’altra, non c’è un intento narrativo né un ricorso a qualche sentimento nostalgico. Il treno è ancora un mezzo le cui potenzialità continuano a espandersi, rimanendo al centro di un problematico dibattito sugli effetti negativi e positivi che la sua sfrontata presenza e velocità impongono alla società e all’ambiente. Il colore acceso che distingue la raffigurazione del treno in questi ultimi lavori gli conferisce autonomia al di là di ogni appartenenza storica o politica dell’immagine. Quest’ultima viene estratta dall’archivio e, privata del suo colore originario si affranca da una lettura storicizzata. Il colore si impadronisce degli ingranaggi, ne sottolinea i dettagli, ne accompagna i contorni. Nello sbuffo, invece, il colore dai toni più cupi e freddi si espande, si mischia con altri toni e contamina con i materiali con cui il supporto è lavorato, disperdendosi progressivamente, cancellando e lasciandosi senza orientamento. Ogni riferimento al tempo e al luogo svanisce. La macchina minacciosa e affascinante fa ritorno al mondo dell’immaginazione, in un gioco di ripetizioni, richiami, citazioni e allusioni che parte dai colori delle serigrafie di Andy Warhol e risale fino alle visionarie locomotive di Giorgio de Chirico. Edificazione e costruzione convivono in tutta l’opera di Pignatelli, tanto nella scultura riportata quanto nella locomotiva colorata o nella scelta di luoghi opposti come New York e Pompei: dove il primo è l’esaltazione della grandezza e l’esito della visionarietà dell’uomo, il secondo è il fermo-immagine di una tragedia e allo stesso tempo il momento successivo ed eterno. I soggetti che l’artista seleziona appartengono al repertorio culturale e occidentale, prelevati, accostati e rielaborati. Nel processo di selezione di immagini e di corrispondenze che Pignatelli mette in atto avanza un fare che procede per appropriazioni e montaggi, aprendo un pensiero contemporaneo da ricercare tra dissestamenti temporali e spaziali. La pittura stessa si fa occasione di riflessione e l’opera, che ne è il campo, viene eseguita attraverso un processo di eliminazione, di scarto, ma anche di sedimentazioni, di giunture e di aggiunte di materia su materia. Il treno attraversa impavido la carta. In questo attraversamento e nella rottura con l’immagine “data” si colloca il lavoro di Luca Pignatelli. Questi “documenti pop” sono tratti da archivi in cui l’immagine, per essere compresa, deve necessariamente essere decostruita, anche a costo di subire un’alterazione, con il solo scopo di essere compresa, accettata, letta. E’ una delle più grandi lezioni che il secondo dopoguerra ci ha lasciato. Se la Seconda Guerra Mondiale abbia costituito una rottura o se si sia potuto, a posteriori e grazie alla fisiologica metabolizzazione di alcuni avvenimenti, parlare di continuità, è un argomento che ha interessato la storiografia e la storia dell’arte successive. Da allora, sul versante storiografico quanto su quello artistico, l’urgenza è stata quella di ricostruire; la complessità, piuttosto, era scegliere la prospettiva giusta.
 
L’opera Icona 2131 (2014) è una tecnica mista su carta di grandi dimensioni: il soggetto è una soglia, un’inferriata, non sappiamo; sappiamo invece che l’impatto che Luca vuole ottenere sullo spettatore è quello di una costruzione approssimativamente in sezione aurea, con il quadrato in basso segnato dalla trave nera mediana e il limite superiore segnato dal grigio della barra orizzontale in alto. Luca ottiene strane luci filtranti lasciando la carta non trattata, organizza un sistema di rapporti di sapore informale tra Fautrier e Dubuffet, ma con una forza strutturale davvero inconfondibile. Se ripercorriamo altre opere, di misure minori, ma sempre con la carta appena trattata, bruna, per fondo, e sopra le grandi pennellate scure, non sempre nere, a volte bruno laviert, scopriamo l’organizzazione secondo precise geometrie. Così un gruppo di opere dal titolo Circo di notte (2014) ricordano certe invenzioni di Vedova nell’immediato dopoguerra oppure le scritture di Calder e dei suoi Mobiles. Dunque davvero Luca organizza le sue immagini secondo una struttura rigorosa? La sua forza non sta nella descrizione, nella troppo facile, immediata individuazione del soggetto ma nell’architettura, nella progettazione e realizzazione dell’opera. Così Planisphere(2013) ci appre come un grande Rothko, o anche un grande Burri, ma con una violenza e un’intensità molto diverse. È un pezzo di grande forza: carte nere sovrapposte, geometria delle piegature di queste stesse carte, fratture al nero nei luoghi di giunzione e di consumo, ma anche grandi strisce chiare, incollate, che articolano nuovi rapporti e movimenti; uno spazio forte, duramente delimitato, perfettamente espressivo, intenso. A questo punto ci stiamo spostando di molto dalla lettura del solo soggetto che caratterizza le altre opere, anche queste, peraltro, sempre costruite secondo un traliccio del tutto astratto. Città del Vesuvio (2014) appare come un’opera in parte diversa per la sovrapposizione di ritagli, di sagome, resti di recuperi dalle discariche o residui di lavorazioni in officine, ma questa esaltazione dell’”oggetto trovato” si confronta con un’architettura evidente, quella delle carte sul fondo e questa altra sovrapposta, lievemente sfalsata, che sempre ci parla di astrazione, disegno di un racconto diverso. Il lavoro che conclude e in qualche modo caratterizza questa epopea delle carte dipinte sono le grandi Cosmografie. Il nome, Cosmografie, è di per sé significativo: “scritture del cosmo”, dunque dello spazio, ma anche scritture dei rapporti, delle proporzioni è scelta precisa e coerente della ricerca di Pignatelli. Perché Luca è un pittore dell’astrazione, e della ripetizione differente delle immagini che diventano variazioni di colori, di toni, di grafie. Qui il distacco dal mondo della rappresentazione è completo, abbiamo soltanto affioramenti di segni. I fogli presentano i toni della ruggine, della polvere, colori scuri, dal nero al grigio che ricordano i metalli fino a bagliori rossi del bronzo, con sfumature marroni bruciate del legno e della terra, e ocra della juta, mentre la superficie è pervasa da pieghe e venature come la pelle di un corpo vivo che si raggrinzisce e si distende. Crepe, levigature, sedimentazioni si amalgamo nel supporto del foglio che costituisce un collante e contiene l’intera opera come un’immagine al contempo unica e frammentata che, nelle sue grandi dimensioni, mostra qualità sia concrete e fisiche sia fragili ed effimere, proprio come ogni particella organica del cosmo. La carta sembra sgualcita come un tessuto, vissuta, usurata dal tempo, non solo preparata ma modellata dalle mani dell’artista in un processo quasi scultoreo, e forgiata dalla storia che essa stessa contiene e trasmette come un’antica rovina. Luca Pignatelli utilizza carte di riuso, spesso intelate, materiali trovati a cui sovrappone strati, aggiunge inserti, cuciture di garze e bende applicate all’epidermide dell’opera; dalla povertà della materia affiora la preziosità del lavoro, dotato di un’aurea quasi sacrale per la ricchezza di frammenti, di detriti che paiono depositati dal tempo. Grandi lenzuola recuperate da scenografie teatrali sono usati insieme a fogli per ottenere la dimensione monumentale e leggera delle Cosmografie: una serie di quattro lavori, l’ultimo dei quali realizzato per la mostra alla GAM di Torino nell’ottobre 2015, contraddistinta da tonalità scure, come se la superficie fosse avvolta nel buio della notte o cosparsa dalla fuliggine proveniente dai vulcani attivi.
Il processo di realizzazione delle Cosmografie si dispiega attraverso la continua manutenzione tecnica e la ricerca meccanica della composizione con un’intensità profonda, un pathos da cui traspira il prendersi cura da parte dell’artista del corpo dell’opera, proprio come se fosse un organismo vivo, una fonte di energia in continua crescita ed evoluzione. Una volta ricucite le carte, Luca Pignatelli applica il colore nero con diversi inchiostri che assumono una molteplicità di sfumature a contatto con il collage di carte e tessuti, fornendo effetti ora brillanti e riflettenti, ora più densi e opachi dove il supporto è più assorbente e poroso. Solo quando il nero è completamente asciutto, l’artista interviene con il gesso bianco sopra la superficie scura, con linee fluide che, una volta rimossa la polvere bianca con grandi pennelli, si dipanano in una ragnatela di tratti essenziali, nitidi e sottili. Emerge un lavoro notturno avvolto da una luce lunare, da chiaroscuri, illuminazioni e ombreggiature, dal contrasto fra le linee quasi fluorescenti che sbalzano dal nero, a tratti metallico, del supporto. Segni sottili scorrono sinuosi e profondi sulla carta levigata, mossa dalle pieghe e dalle increspature, formando una sorta di cartografia di mappe astrali o geografiche attraverso la planimetria formata dalle giunture dei fogli. L’andamento della superficie cutanea della carta si mescola con i tratti candidi del gesso in un unico paesaggio in cui si ravvisano analogie con le tavole eliografiche dei disegni architettonici o con le radiografie che portano in evidenza gli elementi strutturali ma invisibili rispettivamente di un edificio o di un corpo. Nel magma indistinto delle Cosmografie si scorgono ora la gamba di una figura umana a testa in giù, ora capitelli, colonne, ora il muso di una tigre appena delineato. Lo spettatore è libero di percorrere questa pelle con lo sguardo cercando e ritrovando infinite suggestioni, come una mappa universale applicabile a città, regioni, mari, terre e cieli. Qui la memoria è il nero cupo di Rothko, di Kline, di Burri, ma con il bianco di Beuys. Collocata nello spazio più scuro e riservato dello studio, dove la composizione appesa al muro è nata, in una prima fase, distesa a terra incollando grandi campi quadrati di carta scura, sovrapponendoli, fissandoli a creare una griglia continua, densa di spessori diversi. Su questi spazi enormi Luca ha tracciato dei segni chiari, degli intrichi, dei percorsi che, all’inizio, potevano rimandare alla preziosità decorativa e alla fastosità architettonica della Domus Aurea di Nerone (64 d.C.) e rinviare alle suggestioni delle sottili forme della Cista Ficoroni risalente al 300 a.C. ritrovata a Palestrina e oggi conservata nei  musei di Villa Giulia a Roma, considerata la più celebre fra le tipologie di contenitori per oggetti preziosi, attraverso i quali si può risalire alle usanze e alla cultura dell’epoca nella zona mediterranea dell’Etruria: riccamente decorata, presenta incisi lungo il corpo cilindrico alcuni episodi tratti dal mito degli Argonauti e sul coperchio piccoli gruppi scultorei di scene di caccia. Utilizzata nella vita quotidiana come contenitore per oggetti da toeletta, durante i culti dionisiaci diveniva recipiente per i serpenti e altri simboli sacri funzionali per i riti: come evidenziato da AbyWarburg, “le decorazioni del vasellame ci pongono davanti al vero problema del simbolismo religioso, che ornamenti all’apparenza puramente decorativi hanno di fatto significato simbolico e cosmologico”. Non è possibile identificare ogni elemento: l’occhio si perde nella complessità delle Cosmografie, nel loro intento di rappresentare la pluralità, di avvicinarsi alla natura e alla vita nel loro continuo rinnovamento, nel tentativo di abbracciare differenze e contraddizioni: una ricerca utopica paragonabile all’impresa mitologica degli Argonauti alla conquista del Vello d’Oro. Come nei grandi arazzi, i bordi delle carte sfrangiate, non finite, lasciano intendere un lavoro continuo vicino a una pratica rituale che insegue l’eternità del flusso delle cose, delle immagini che si tramandano dal passato che coesistono nel presente e si proiettano nel futuro trasformando quei segni chiari scavati nel bronzo e quelle figure in una lingua diversa. Come nelle lavagne di Beuys, come nelle grafie continue di CyTrombly, Pignatelli è intervenuto sulla composizione moltissime volte, qua e là cancellando, alla lettera, i segni chiari, altrimenti accentuandoli, oppure slabbrandoli, ottundendoli; ne è venuta fuori una cosmogonia di costellazioni perdute, una dimensione sognata di un cielo nero, alla fine del tempo.
Eppure, a ben guardare, questo enorme schermo delle apparizioni ha una struttura forte, è retto, oltre la griglia delle carte scure incollate, da alcuni percorsi verticali, da una serie di bilanciati nuclei arrotondati che scandiscono un movimento interno lungo e lento. Luca Pignatelli è intervenuto su questo pezzo molte volte, ha cambiato le scritture iniziali e i rapporti, ha rimosso segni troppo forti e vivacizzato zone prima meno evidenti; dunque, osservando bene l’opera, si percepisce il movimento, la vibrata tensione delle diverse forme e, dentro, dunque, una tensione all’immagine ma senza l’immagine, una volontà di imporre una struttura, un movimento, uno spazio, ma senza proporre una figura. Luca dunque nelle Cosmografie cerca un’ulteriore sintesi, evoca alcuni maestri, pensa alle lavagne di Beuys ma gli sono più affini le scritture di CyTwombly piuttosto che quelle di Mark Tobey e i drippingdi Pollock. Sono tanti mondi, tante culture passate e presenti che si coagulano sulle carte di Luca Pignatelli, lasciando intravedere i flussi, le scie come le vene del corpo, visibili a fior di pelle, che mappano la storia vitale di ciascun essere vivente e alimentano ogni singola estremità. Alla ricerca di materiali, di oggetti da analizzare, rielaborare e inserire nelle opere, trova un parallelo lo studio incessante, la raccolta, la documentazione senza sosta di immagini e testi attraverso libri e fotografie che si accumulano concretamente nello studio così come nella mente: un archivio fisico e intellettuale che insaziabilmente si nutre e trova una rielaborazione nel corpus in crescita delle opere, impresso e solcato dal gesto dell’artista. Grazie alle tecnologie contemporanee, dalla fotocopiatrice agli strumenti digitali, all’interno della routine quotidiana la circolazione di contenuti è rapida, ed è facile reperire materiale visivo e associarlo ad altro, sovrapporlo. Nel suo lavoro Luca Pignatelli attua una ripetizione incessante che si rinnova sempre in un nuovo e unico originale, dove elementi archetipi e tipologici trovano collocazioni e forme che portano a una loro lettura sempre differenziata. Memorie culturali, esperienze condivise e ricordi personali si infittiscono e poi si riassumono nell’immaginario delle sue opere, in cui la tradizione classica e la cultura mediterranea costituiscono una fonte d’ispirazione, di temi e di canoni estetici rielaborati come figure simboliche che si sovrappongono a una molteplicità di riferimenti del momento storico e socio-politico in cui l’artista opera. All’occhio dello spettatore Le Cosmografie si collocano in uno spazio temporale indefinito; ad una  prima lettura esercitano un fascino reverenziale, subito seguito dal desiderio e dalla curiosità di penetrarle, di scavare negli strati sedimentari della carta, di percorrere le venature, di identificare forme e oggetti infiltrandosi nel mistero di questo corpo organico. Si percepisce il ritmo, quello dell’universo del movimento delle cose, del battito cardiaco del cosmo e delle note del jazz, tanto care all’artista. Si potrebbe dire che le Cosmografie sono l’espressione visiva di questa musica imprevedibile che avvolge i sensi e la mente in un profumo notturno, e che Luca Pignatelli incide sulla carta quale sua personale raccolta di LP, i 33 giri in vinile che sprigionano la loro melodia ruotando sul giradischi come i pianeti del cosmo. “Le immagini di Pignatelli ci appaiono davanti come cose guardate a lungo, viste nella storia e poi sognate e ricordate e immaginate e poi di nuovo sognate e infine impresse per sempre, come ricordi che però non riusciamo a imprigionare nel passato, e nei quali lo stesso passato si rivela a noi come dolorosa presenza” Così il critico letterario Luca Doninelli introduce il Tempo e la Memoria, tematiche ricorrenti nelle opere di Pignatelli.  Doninelli nella sua analisi sul ricordo opera un distinguo tra scrittore e pittore. Infatti, se il filo del ricordo genera nello scrittore l’illusione che tanto trasporto si comunichi al lettore per forza propria, viceversa Pignatelli non evoca immagini che vorrebbe trarre dalla nostra memoria. Non pretende che erme, anfore, locomotive, bombardieri si trovino lì al centro di quelle che un tempo chiamavamo le nostre paure ancestrali. Pignatelli non evoca archetipi, simboli. Piuttosto situa le sue immagini nel punto di sutura tra memoria personale e memoria collettiva. Ci invita a domandarci dove stia veramente il confine tra ciò che riteniamo intimamente   nostro e ciò che appartiene alla cronaca, all’editoria, alla televisione: insomma alla storia di tutti, ripresa, fotografata, documentata.
In altre parole, ci invita a riflettere sul confine, che noi distrattamente diamo per assodato, tra quella cosa che chiamiamo “io” e il cosiddetto “mondo”, tra l’universo che sta dentro di me e quello che sta fuori. Con Pignatelli la zona di confine si fa molto sottile in quanto non colloca la sua opera nella spazio/tempo fisico; gli aerei, i treni, il paesaggio circostante non appartengono allo spazio né al tempo, quindi non vanno, non vengono, non tornano e non precipitano. Questi oggetti stanno davanti a noi, passano sotto la nostra pelle, trascorrendo dalla fotografia su giornale all’originale, in una continuità che non appartiene alle “cose” ma all’esperienza fisica che ne facciamo. Questa continuità è il dato che conferma la nostra esistenza, dunque noi siamo questa continuità e la nostra natura si svela pienamente quando riconosciamo come “nostro” ciò che è collettivo, di tutti: le statue dell’antichità, le urne cinerarie, i bombardieri in volo (fermo), le locomotive a vapore. Tutti noi, benché immersi nella retorica del Tempo sappiamo che l’esperienza è più complessa rispetto agli schemi; la verità, infatti, richiede molto, troppo tempo, e noi moderni siamo quelli che non hanno mai tempo per niente. Eppure, se per un istante ci liberiamo dalla persuasione che ogni singolo istante della vita e del tempo sia solo la funzione di un progetto (ciò con cui io identifico la mia realizzazione, la mia carriera, il mio eros), gli istanti di tempo e di memoria possono trasformarsi in altrettanti punti focali, episodi apparentemente banali possono rivelare la loro bellezza anche solo dopo molto tempo: “Il punto esatto in cui diedi un bacio alla donna che amo. Il ritrovarmi davanti a una pizzeria dove vent’anni fa mangiammo male. il ricordo di un piatto che in casa nostra si cucinava spesso e che poi, senza un motivo preciso, smettemmo di cucinare”. Guardando fuori dal preconcetto che incatena gli istanti uno all’altro, privandoli di una vita in proprio, alcune cose emergono, si affermano per una bellezza differente al destino successivo, e che tale destino non fa che rendere più struggente, senza tuttavia toccarne il nucleo.Così, lo stesso bacio può essere visto da crinali storici (o sentimentali) diversi a seconda che quella donna sia ancora la nostra amata o se viceversa quell’amore abbia subito un trauma irreparabile: eppure la sua consistenza, nel momento della libertà, ci appare uguale, indifferente a quanto avvenne poi. In questo stare si attesta il vero destino delle cose, nell’opera di Luca Pignatelli. Come in un naufragio  di cui ci sono testimoni i numerosi cerotti che sottolineano lo sgretolamento, ma anche la vivezza (i cerotti si applicano ai vivi, non ai morti) dei suoi soggetti – possiamo anche dire che le immagini di Pignatelli riemerse dal naufragio della storia non ci raccontano di quel naufragio, proprio perché esse non sono naufragate, si sono salvate. La catena del tempo è stata sommersa, e ciò che rimane, rimane proprio perché non appartiene più a quella catena, non ne è più definito. Basta tuttavia un istante di riflessione per comprendere che ciò che si è liberato da quella catena ha potuto farlo perché era libero fin dall’inizio, e solo un accidente storico lo rese schiavo. Ciò che, infatti, nasce come funzione di un organismo non potrà non morire con la morte di quell’organismo, mentre chi si richiama a un destino diverso lo fa perché questo è il suo segno dominante fin dall’origine. I reperti storici usati da Pignatelli come soggetti (una statua romana, un B-24, un’urna, una locomotiva) sono altrettante analogia di quest’esperienza. La statua romana ci dice la sua vera essenza a prescindere dal fatto di essere stata motivo ornamentale in un tempio o in un circo, così come il B-24 ha una propria bellezza animalesca che lo scardina dalla sua funzione nelle singole operazioni belliche per farne un atto di guerra come tale, e la locomotiva può trainare indifferentemente le carrozze belle epoque dell’Orient Express o cento carri di deportati; ma il suo volto misterioso ci ricorda come la deportazione covi sotto la pelle di ogni viaggio, come nel diporto non sia completamente cancellata la possibilità del lutto. L’opera di Luca Pignatelli genera per gli astanti un campo di tensione fra prossimita? e distanza. La sua archeo- logia delle forme e degli sguardi evoca la celebre immagine novecentesca dell’Angelus Novus che nella bufera si protende verso il futuro con il viso rivolto al passato. Per noi che siamo vacillanti, ci dice l’opera dell’artista, le icone della scultura classica sono il promemoria di un equilibrio perduto e perturbante, e le ferite e le crepe e le lacerazioni della citta? di Piranesi annuncia noi segni della minaccia e dell’imminente bufera.
Nel presente. E nell’ombra contratta e raggelata del futuro. Questo e? il mio primo commento a Icons. Il secondo commento mette a fuoco il duplice impegno dell’artista, la natura bifronte della sua esplorazione dello spazio delle forme nel tempo. Luca Pignatelli e? attratto dal vortice della nostalgia e accetta la sfida che qui consiste nel soffrire fino in fondo il dolore del ritorno a un qualche luogo dell’inizio o delle origini ma, al tempo stesso, l’artista resta fermo e intransigente nell’esercizio della resistenza al ritorno delle forme perdute. Noi non assistiamo inerti al cerimoniale e ai riti delle citazioni. Noi siamo convocati in prima persona nel teatro delle metamorfosi e delle trasformazioni. Verso il futuro, con lo sguardo mobile rivolto al passato.
Per questo, le forme perdute, le immagini delle sculture classiche, i grandi nudi maschili e femminili, i grandi nudi androgini, le masse dei grandi corpi di animali umani e non umani, i volti ambigui d’enigma, sideralmente remoti nel tempo, ci sono consegnati grazie alla custodia di un archivista o di un collezionista di sguardi che li conserva, tenendosi con forza e rigore a distanza. Grazie alla distanza, il gesto dell’artista e? il gesto che viola le forme, che le ferisce, le lacera, istituisce per loro confini mobili, le sottopone a un effetto di straniamento, le altera, giocando sul terreno insidioso in cui variazione e invarianza si mettono alla prova, in un duello senza fine, la cui posta in gioco e? un tempo ritrovato, pieno di incertezza e segnato dalla beanza delle ferite.  Gestaltung e Umgestaltung, come leggiamo nella scena delle Madri nel secondo Faust di Goethe. Consideriamo ora piu? da vicino, nel terzo commento, la discesa di Luca Pignatelli nei meandri rischiosi e friabili della stratificazione archeologica delle forme nel tempo. La sua ricognizione genealogica dei fueros di Freud. Ed eccoci di fronte al grande repertorio di Icons. Nel grande repertorio non si danno objectstrouve?s. Si danno immagini modellate dal doppio movimento della nostalgia e della resistenza. Le icone delle sculture classiche, che sono sideralmente remote e che ci convocano nell’abisso dei tempi alle nostre spalle, sembrano come le stelle morte che generano un campo gestaltico che attrae e promette equilibrio luminoso. Del resto, la luce irradiata dal classico sopravvive al dileguare nel tempo della sua fonte e della sua origine. Ma le icone della forma classica non persistono nella durata senza essere contaminate e violate. Il prezzo della persistenza, anche nel mondo delle forme, e? proporzionale all’ammontare di ferite, di contami- nazioni, di lacerazioni cui esse, per essere preservate, devono essere sottoposte. Qui la tensione tra invarianza e variazione e? massima. E Luca Pignatelli ci dice nel linguaggio di Icons che qualcosa resta. Qualcosa preserva l’immagine di una gravitas e di una venustas che hanno sapore vitruviano e, quindi, architettonico. Come restano, sempre nel duplice registro della prossimita? e della distanza, le architetture di Piranesi, le sue vedute dell’urbs e della civitas, sfregiate e sospese in un intervallo temporale che ha il sapore della logica lucida del delirio. Il quarto commento si avvale degli effetti dell’esercizio di resistenza dell’artista. E’ vero: qualcosa resta. Ma chiediamoci: in quale modo, in quale forma resta il qualcosa che resta? Risponderemo cosi?: restano le icone nella forma di relitti. O di detriti. Di impronte e tracce e vestigia, del resto, sono fatte le memorie. Cosi?, l’esercizio di resistenza evoca il grande motivo musicale dell’archivio. E, come ha osservato Marina Fokidis, il desiderio d’archivio e? connesso alla possibilita? percepita dell’oblio. Il mal d’archivio, di cui ha parlato eloquentemente Jacques Derrida, esemplifica in ogni caso il desiderio di ritornare alle origini, “al luogo piu? arcaico dell’inizio assoluto”. La nostalgia, lo sappiamo, e? il dolore del ritorno. E l’archivio e? il teatro della memoria o, meglio, delle memorie. Le icone sono come fissate e sospese, come i coleotteri o le farfalle nelle teche del collezionista. Questa, e non altra, e? la custodia del collezionista di repertori e lacerti, con il viso rivolto al passato che si protende verso un futuro segnato dall’imminenza della incessante bufera. Ed ecco il quinto commento. L’abbiamo detto: se non vi fosse possibilità d’oblio e di dissipazione, non si darebbero desiderio di custodia, ne? pulsione d’archivio. L’imminenza della bufera dell’Angelus Novus e? fisicamente percepibile dagli astanti che avvertono la sospensione del tempo, in cui si iscrivono le icone di Luca Pignatelli. Le icone di scultura e le icone di architettura.
L’artista sa bene che non vi e? valore che non sia esposto al rischio di perdita e dissipazione. E che cio? vale in modo intenso nei tempi in cui l’ombra del futuro si contrae sul nostro presente e accade che si avverta qualcosa come la dittatura del presente, che ci inchioda e ci intrappola nei nostri destini personali e collettivi. Sono queste le circostanze in cui tende ad azzerarsi il senso del passato. Le circostanze in cui siamo indotti a una sorta di ipocrisia o ignavia cognitiva. Le circostanze in cui la chiacchiera governa i nostri modi di stare insieme. E a noi accade di vivere le nostre vite con il pilota automatico innestato. L’opera di Luca Pignatelli e? incentrata sull’intransigente rifiuto di tutto cio?. Icons ci dice che non dobbiamo mollare. Che non possiamo congedarci dall’impresa mai finita del tentativo di trovare un qualche filo d’Arianna nel labirinto, dove si aggira nell’opacità dei meandri, minaccioso e fatale un qualche Minotauro. Icons ci dice che abbiamo la responsabilità di continuare, ciascuno a suo modo, nell’esplorazione dei modi, mutevoli, contingenti e situati, di makesense of humanity. Uno di questi modi e? quello esemplificato al meglio dall’opera di Luca Pignatelli. Nel suo duplice impegno: nell’esercizio della nostalgia e nell’esercizio della resistenza. Come dire: qui sto, e non posso altrimenti. E questo connette e rende congruenti, in Icons, le dimensioni plurali e spesso confliggenti dell’estetico e dell’etico. Come se una passione severa per la giustizia s’intrecciasse al sogno inesausto della giustezza di un mondo di forme e di immagini che offrono, nella memoria della bellezza perduta, a noi vacillanti, il loro filo d’Arianna. Ad una prima lettura la pittura di Luca Pignatelli è fin troppo facile, eppure si tratta di una facilità solo apparente, perché Luca la carica di altri significati. Dunque queste immagini che egli raccoglie e organizza devono avere dei significati diversi, devono avere una matrice, una storia che va molto indietro nel tempo, che forse comincia al momento della sua formazione. Al tempo della sua educazione familiare. Intanto, i dirigibili, gli aeroplani, la sovrapposizione di un sistema numerato per le distanze e il puntamento dei sommergibili attraverso il periscopio sono qualcosa che viene direttamente dalle pitture di una mostra del padre, sono modi di raccontare non un presente vero ma quello mitico della guerra e del dopoguerra. Altre tracce si ritrovano in una serie di libri sulla seconda guerra mondiale dai quali Luca ha ricavato le fotografie, punti di partenza per le sue immagini. Ma nel sistema di Luca si sono altre presenze; le montagne, il mito della montagna nella letteratura da Goethe che attraversa le Alpi, come scrive in Viaggio in Italia, e arriva al Mann della Montagna incantata, per citare solo due riferimenti. Ma se per Luca le tre cime di Lavaredo o le torri dal Vajolet o magari il Cervino, che è proprio una piramide, si incontrano idealmente con le grandi sepolture di Giza, allora vuol dire che prima di tutto, per Luca, il tempo non ha una misura ma è dismisura, e che i rapporti, e questo è tipico degli architetti, si costruiscono sulla base di una struttura. Dunque l’idea che le opere di Luca siano leggibili osservandole come superficie deve essere messa da parte. Luca, punta subito sullo scavo a dimostrazione che quelle immagini sono solo una parte, e la più evidente, di un lavoro molto diverso. Egli infatti sceglie per i supporti materiali sia tele vecchie, sia usando legni, sia intervenendo sulle superfici con ogni sorta di resti di recupero già usati in precedenza, chiodi, legni, frammenti, ritagli. Dunque Luca rappresenta la lunga durata delle proprie opere suggerendo per loro il tempo lungo del vissuto che esse propongono. Così quando si osservano le opere di Luca, si pensa subito a Duchamp, certo, magari ad Arman ma anche a Robert Rauschenberg, proprio perché Luca ha in mente tutto questo, ha in mente l’oggetto trovato e la sovrapposizione delle immagini, il loro intreccio. Così ecco un primo discorso: Luca punta sulle avanguardie ma per proporre un’immagine diversa; non sfalsa le immagini, non le sovrappone nella stampa a inkjet o, prima, per le più grandi, utilizzando l’epidiascopio come faceva il padre. Luca propone le immagini come figure perché di quelle immagini vuole proporre la durata, la storia. Le nubi e i monti rappresentano la lunga durata rispetto agli aerei, ai dirigibili. Dunque i monti non sono “oggetti trovati” ma imponenti memorie del mito quando sono proposti nei grandi dipinti in bianco e nero, altrimenti, nei formati più piccoli, si trasformano in varianti colorate di una stessa immagine.
Luca non ama il colore, almeno nei grandi e drammatici dipinti che realizza da molti anni; così usa il bianco e il nero delle proiezioni di vecchie foto con l’epidiascopio e con quello, avvicinandosi, allontanandosi dal dipinto-schermo crea le proprie opere che sono sempre un sistema scandito da dissociazioni, conflitti di immagini al proprio interno: così i monti debordano e gli aerei o i dirigibili sono enormi, fuori scala. Dipingere è quindi rappresentare dei conflitti di dimensioni. Ecco il senso di questi paesaggi e la loro ambigua, ossessiva durata; perché c’è questo dietro le opere di Luca, una lunga durata e insieme l’angoscia. Luca dipinge anche altro, dipinge moltiplicando l’evocazione dell’antico e sono le grandi rassegne degli imperatori a Capodimonte e sono quelle precedenti o l’ultima dei ritratti antichi proposta agli Uffizi. Riflettiamo sul metodo: Luca prima di tutto sceglie, dai libri, dai cataloghi dei musei di antichità greche e romane di mezzo mondo. Ma sceglie da cataloghi antichi, dallo scorcio dell’Ottocento fino agli anni fra le due guerre, immagini di divinità o di imperatori, tutte con il medesimo taglio, tutte delle medesime proporzioni ma mai uguali, tutte organizzate per una visione frontale; lo stesso vale per la serie di ritratti , la serie dei vasi antichi. Prima di tutto per organizzare una serie Luca costruisce un’inquadratura, guida gli sguardi, pensa alle opere non come singole ma come parti di un unico sistema e quindi il punto di vista, l’altezza delle sculture, deve essere grosso modo coincidente e le sculture stesse devono stagliarsi lontane da ogni genere di spazio riconoscibile. Così lo sfondo dipinto evoca pareti consunte, intonaci cadenti, materie usurate dal tempo, in modo da non incidere sulla bianca figura che avrà un forte impatto su chi guarda. Dopo questa preparazione le scelte dei diversi cicli sono diverse: o si proiettano le immagini su un fondo liscio, uniforme, oppure si sceglie un fondo di impatto diverso; così ad esempio i ritratti della mostra degli Uffizi sono su legno e propongono una lunga storia evidente anche dalla parte retrostante delle opere. Così la somiglianza di impianto che si ripete nella serie di ritratti  e nelle figure degli imperatori costringe chi guarda a scoprire coincidenze e differenze: il supporto uniforme degli imperatori, il supporto ligneo tanto diverso dei ritratti, tutto questo fa scoprire a chi osserva lente differenze. Luca deve aver capito molto dalla impostazione di Andy Warhol e dai suoi FlowersPaintingsoppure dai Portraits, dove si ripete sempre il medesimo impianto e taglio, si varia l’impatto del volto cambiando il colore del fondo, mentre tutto il resto deve ripetersi in modo quasi ossessivo. Me c’è altro, ed è il tempo della meditazione che egli ritiene indispensabile per le proprie opere, e ha voluto sottolineare, in un confronto con il lavoro del padre, la propria scelta differente. Non dunque mai una singola opera sul cavalletto, anche perché Luca dipinge o in verticale, tela a muro, o in orizzontale marciando attorno all’opera e intervenendo pittoricamente su essa. Ma si sempre di un sistema che viene apprestato nel grande studio dove le grandi opere stanno lì a confrontarsi in un progetto iniziale che man mano prende forma. Anche le fotografie sono un segnale indicativo di come Luca vuole che le opere siano vedute. Lo studio dunque come un teatro. Il modo di fare foto o di farle fare indica un progetto, una presa di possesso degli spazi, una “recita”.  Dunque le opere di ogni serie devono stare insieme e così infatti vengono proposte. Non per nulla Luca pensa per sistemi, pensa per serie perché le serie, e questo accade anche nei disegni, devono compenetrarsi, integrarsi: infatti la verità della ricerca di Luca sta nella variazione. E qui si introduce un altro capitolo importante del suo lavoro, il dialogo con la musica. Anche qui Luca ha delle radici molto precise: punta dunque su Paul Klee e il suo amore per Bach e Mozart, punta su Schonberg che scambia lettere con Kandinskij, insomma Luca ritrova nella storia delle avanguardie dei modelli molto precisi che gli fanno comprendere l’importanza della variazione, cioè del mantenere fermo un tema ma adattandolo, trasformandolo in “chiavi” diverse. Del resto egli ha in mente sempre il jazz e le improvvisazioni che vengono fatte senza fissare nulla sul pentagramma, ma creando a orecchio. Anche questo dunque è utile per capire le ragioni a monte dell’idea di serie e anche il perché quelle serie, quelle sequenze di opere restino a lungo nello studio, per poi essere ricollegate, magari modificate, e finalmente fatte uscire ma sempre come gruppo, come sistema.
Riguardo al tema dei treni, Luca torna molte volte sul tema e li dipinge e li interpreta come un segno del progresso, come qualcosa che rappresenta le nuove strade dell’uomo in Occidente dopo quelle antiche, romane. A livello simbolico, il locomotore ha una lunga storia: ad esempio, per Delvaux il treno, anzi la locomotiva sbuffante dentro la stazione o nel paesaggio rappresenta, si identifica con il padre e con antiche memorie di incontri, di percorsi, di viaggi. Anche per Luca il rapporto con il padre ha un preciso significato. Il cielo, la parte alta, il piano dove sta il padre è sempre, nei dipinti di Luca, luogo di potenti macchine, aerei da guerra, dirigibili, insomma la forza.
Luca vuol contrapporre la forza, la potenza della figura-locomotore a una dimensione altra dello spazio utilizzando ogni artificio del linguaggio, compreso quello informale che “scrive” il fumo, per rappresentare il ferreo incedere della locomotiva e del tender. Forse non a caso Luca rappresenta la locomotiva senza la “famiglia” dei vagoni, per esprimere la forza. Nelle opere emerge con grande evidenza un altro aspetto, il peso della memoria. A proposito della grafia, il suo saper scrivere con caratteri diversi, con intervalli e quindi con disposizioni distinte nello spazio della pagina, e il saper evocare scritture differenti, corsivo, tondo, maiuscolo, minuscolo e molto altro ci conferma ancora che Luca, da buon architetto, ha studiato i caratteri fin dal tempo di Luca Pacioli e li considera, come sono, un pezzo significativo della storia della progettazione. Ma tornando alla memoria, la grande Cosmografia è un testo sul quale occorre soffermarsi proprio perché la sua organizzazione, la sua struttura, i rimandi che Luca ha fatto per spiegarne i caratteri sono intriganti. Luca dice di partire dalla Cista Ficoroni o da altri testi etruschi o di cultura etrusca; la Cista è stata prodotta a Roma da un artefice campano e propone una serie di figure di divinità e scene mitologiche segnate al tratto nello spessore del bronzo. La grande Cosmografia si presenta come un enorme campo intricato di segni chiari su fondo scurissimo e sono i gessi quelli che Luca utilizza per costruire un sistema che non è figurativo fin dalla sua iniziale concezione. Luca interviene ora su una zona, ora sull’altra, bilanciando, scomponendo, ricomponendo, cancellando parti a proprio con uno straccio.  Questa volta l’idea di serie, invece di essere proposta moltiplicando la singola opera, viene suggerita in profondità, nel senso che Luca rimuove, ogni volta che interviene, la creazione precedente e la trasforma, a volte la distrugge tutta per farne un’altra. Il supporto è costituito da fogli sovrapposti e incollati, fogli neri, rigorosamente quadrangolari, della stessa misura, che suggeriscono comunque una griglia, un’organizzazione precisa, al di là delle pieghe cercate che nascono dalle carte incollate e sovrapposte. L’insieme dei segni bianchi del gesso a volte rispetta delle geometrie, delle scansioni, quelle verticali più di quelle orizzontali, a volte si sovrappone alla griglia di base. Ed ecco allora l’emergere, l’affondare delle forme anche grazie alle parziali cancellature fatte con lo straccio e poi fissate in modo da rendere stabili quegli spazi virtuali. Insomma Luca rende evidente, nella realizzazione delle Cosmografie, il processo creativo ma rende anche evidente l’ambiguità dei tratti, il loro sopravvivere nonostante la parziale rimozione o il loro semplice affievolimento e tutto questo in funzione di una spaziata, bilanciata rappresentazione delle immagini. Ancora una volta Luca si propone come un artefice legato a una grande tradizione occidentale, prima di tutto per il peso che certe grafie devono aver avuto nella sua esperienza, Max Ernst, per esempio; ma soprattutto perché ha saputo cogliere la tensione europea della ricerca di Tobey trasformandola in sogno cosmico, in grafia sospesa nello spazio come negli antichi zodiaci medievali. Tutto quello che nelle opere dell’americano vissuto a Roma è segno evidente, in Luca si fa incerto, grafia sospesa in uno spazio che sta appenda davanti o appena oltre la superficie tangibile della grande, nera carta sospesa. Luca insomma suggerisce una dimensione diversa e mantiene fermo il contrasto fra la griglia del fondo e la grafia, anzi le grafie che gli si collocano davanti o appena oltre: le cosmografie sono immagini dello spazio, suggerisce Luca stesso, ma sono immagini di uno spazio del mito, come a dire sono evocazione di quei planisferi, o miniature francesi del XV sec., dove il cielo blu si popola dei segni e delle figure delle costellazioni.
Resta da cogliere, proprio tenendo conto di questa griglia di partenza un altro aspetto della ricerca che Luca non ha mai voluto rendere più esplicito, la struttura che la ordina e la organizza.
Luca conserva in studio delle grandi opere in bianco e nero dove il fondo, magari fatto di vecchie, trafitte tele di treni lontani, viene organizzato con lunghe tracce di nastro adesivo chiaro che costruisce rapporti, struttura proporzioni. Questi dipinti sono la chiave per comprendere tutta l’opera di Luca che alle origini è un architetto. Le sue opere nascono tutte da un attento disegno, da un vero e proprio progetto. Prima di tutto un progetto di ordine, prima di tutto un lungo e attento dialogo con PietMondrian e con la ricerca astratta del Bauhaus, dunque con Walter Gropius e con Mies van derRohe. Così nelle griglie scure dei grattacieli newyorkesi di Mies, oppure nei ritmi dell’edificio del Bauhaus di Gropius a Dessau trovi le basi dell’impianto delle opere di Luca che peraltro, a questi dialoghi, fa precedere le fondamenta nella tradizione della trattatistica rinascimentale. Così si spiega la citazione del disegno quasi progettuale di una improbabile facciata rinascimentale piazzata dietro le locomotive, così si spiega il continuo riferirsi di Luca alla prospettiva e alla “finestra” albertiana, così si spiega anche il collegare quella finestra al movimento e dunque al paesaggio che si finge in moto viaggiando in treno. Ma c’è un’altra chiave. Il disegno di Leonardo del 1473, il paesaggio rappresentato con diverse prospettive. Luca sente quel paesaggio attraverso il vibrare della scrittura. Lo scrivere, la grafia, è dunque il passaggio obbligato per entrare nel mondo dell’artista. E infine l’ispirazione ricevuta dai manifesti dei costruttivisti russi, manifesti che erano di un grandioso mitico progetto di ricostruzione del mondo. Ricostruire il paesaggio, le strutture ma prima ancora gli uomini, i gesti, le parole, i rapporti. E dalle parole, certo scritte in cirillico, uscivano dalla bocca di una ragazza, una proletaria, una rivoluzionaria. Per Luca quelle parole sono come quelle dell’Annunciazione di Simone Martini, sacre. Ancora una volta l’antico e la sua memoria e il contemporaneo si sovrappongono e il peso dell’architettura appare determinante in una storia da misurare come sistema di rapporti. Davvero la vicenda di Luca Pignatelli è da rivedere in una luce diversa, certo in quella densa di storia che lui stesso ci propone nelle opere, ma anche quella di un ordine architettonico sublime  come dice Arturo Carlo Quintavalle. Il percorso espositivo è ritmato da undici parole -persona, ricordo, memoria, impronta, frammento, relitto, abisso, grotta, spiaggia, terra, origine - che riassumono e puntualizzano i valori delle scelte espressive di Pignatelli; a ogni voce è associato un breve testo scritto dall’artistache conduce il visitatore lungo le varie sezioni della mostra. Ogni termine è collegato a quello successivo - e l’ultimoal primo - per creare un itinerario a spirale che si estende verso un’infinita profondità spirituale. “La ricerca di Luca Pignatelli - sottolinea Francesco Paolo Campione - permette infatti di comprendere come l’arte, prima di essere rappresentazione e decoro, sia tensione fondamentale verso il mondo spirituale, strumento primario di conoscenza che procede dal tutto verso le sue parti, compagna fedele dell’esercizio mitopoietico che traduce agli uomini la complessa struttura del cosmo, dando loro l’illusoria certezza di essere padroni del proprio destino”. L’allestimento, pensato per i due piani dello Spazio mostre di Villa Malpensata a Lugano,sede del MUSEC, oltre a dare respiro alle grandi opere, trasferisce in alcune sale veri e propri angoli dello studio milanese dell’artista: tavoli, sedie, poltrone, divani e carrelli sopra o accanto ai quali, esattamente come nel loro ambiente originario, si trovano fotografie, carte, disegni, immagini ritagliate dai giornali, telai, mucchi di teloni ferroviari, cocci, chiodi, barrette di metallo, cordame, pennelli e latte di pittura. È questo il modo forse più semplice per mettere in evidenza la dimensione antropologica e il contesto sociale che fanno parte delle condizioni primarie di ogni creatività, anche la più astratta. Accompagna la mostra un catalogo in due edizioni, in italiano e in inglese di grande formato, a cura di Francesco Paolo Campione edito da Skira.
 
 
 
Biografia di Luca Pigantelli
 
Luca Pignatelli è nato nel 1962 a Milano, dalla psicologa Carla Autelli (1935-2022) e da Ercole Pignatelli (n. 1935), pittore e scultore di origini leccesi, nel cui atelier, sin da giovanissimo, egli ha mosso le sue prime esperienze. Completati gli studi superiori, nel 1981 si iscrive alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano dove l’interesse costante nei confronti di ciò che con il tempo egli definirà «crescita sedimentaria della storia» lo porta in particolare a confrontarsi con gli scritti e le visioni di Adolf Loos e Aldo Rossi.In particolare, Pignatelli sente forte il richiamo dell’idea di edificio e di città come sommatoria organica degli stili e delle epoche che si sono succedute, un’idea che non porta al rifiuto, ma al dialogo con il passato e al tentativo di integrarlo attraverso forme ricorrenti: gli «archetipi», incessantemente capaci di sintetizzare la tradizione e la modernità.
Dai disegni su carta e su masonite, esposti per la prima volta nel 1987 alla galleria di Antonia Jannone a Milano, la sua produzione si è sviluppata attraverso l’uso eterodosso e la diversificazione sperimentale di materiali e di tecniche, indirizzandosi sempre più verso opere di grande formato. I luoghi privilegiati della sua ricerca sono le fabbriche, gli arsenali militari e i depositi anonimi delle città portuali che si integrano, accomunati dal fascino di un’infinita aggregazione di contenuti, ai grandi edifici templi, cattedrali e monumenti  che hanno definito il paesaggio antropico della storia europea. A partire dagli anni Novanta, Pignatelli ha introdotto l’uso, come supporti, di materiali che hanno esaurito la loro precedente destinazione d’uso, e già di per sé pittorici, come la tela di canapa dei convogli ferroviari e, successivamente, le carte assemblate, i tessuti, le vecchie tavole di legno, le lastre di ferro zincato e i tappeti persiani. Al contempo, è emersa inoltre una pratica artistica fondamentalmente seriale. Hanno così preso vita veri e propri cicli concepiti in occasione di esposizioni personali e installazioni specifiche di un sito, come: Arazzi italiani (2007-2008), Atlantis (2009), Schermi (2009), Analogie (2010), Cosmografie (2014); Sculture (2010), Standard (2014), Migranti (2015), Imperatori (2017) e Persepoli (2017). Per quanto riguarda la sua estetica, si è affermato da un lato un interesse precipuo al dialogo con la storia e con la natura, dimensioni incarnate da immagini della statuaria classica (muse, eroi e imperatori), dalle memorie archeologiche dell’antichità, da orme di paesaggi naturali e urbani, da calligrafie e da caratteristiche allegorie della modernità come i dirigibili,  gli aeroplani, le navi e i treni a vapore; dall’altro lato si è fatto via via strada un linguaggio astratto, fatto di porzioni di materia che si stratificano su supporti di recupero. Fra le principali esposizioni temporanee che hanno consacrato a livello internazionale il lavoro di Luca Pignatelli ricordiamo: la XII Quadriennale d’Arte di Roma (1996), la 53a Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia, Padiglione Italia (2009) e le personali tenute al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (2009); al MAMAC - Musée d’Art Moderne et d’Art Contemporain di Nizza (2009); all’Istituto nazionale per la grafica di Roma (2011); al Museo di Capodimonte di Napoli (2014); alla GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino (2014); alla Galleria degli Uffizi di Firenze (2015); al Gran Teatro La Fenice di Venezia (2017); al Museo Stefano Bardini di Firenze (2019); alla New York Historical Society (2022); e al MUSEC - Museo delle Culture di Lugano (2023). Oltre che in prestigiose collezioni private europee ed americane, le opere di Luca Pignatelli sono conservate da importanti istituzioni museali, fra le quali ricordiamo: la New York Historical Society di New York; la Galleria degli Uffizi di Firenze; il Museo di Capodimonte di Napoli; la GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino; il CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università degli Studi di Parma; il PART - Palazzi dell’Arte di Rimini.
 
 
Museo delle Culture di Lugano
Luca Pignatelli. Astratto
dal 28 Ottobre 2023 al 12 Maggio 2024
dal Lunedì al Venerdì dalle ore 11.00 alle ore 18.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Martedì Chiuso