Giovanni Cardone Aprile 2022
Fino al 13 Settembre 2022 si potrà ammirare la mostra al Museo di Palazzo Medici Riccardi Firenze la mostra Oscar Ghiglia. Gli anni di Novecento a cura di Leonardo Ghiglia, Lucia Mannini e Stefano Zampieri. Promossa da Città Metropolitana di Firenze e organizzata da MUS.E in collaborazione con l’Istituto Matteucci di Viareggio, l’esposizione offre al pubblico la possibilità di conoscere e apprezzare le opere di un grande artista del Novecento italiano di radice eminentemente toscana, eppure profondamente legato alle vicende artistiche europee del suo tempo. Come dichiara Dario Nardella Sindaco della Città Metropolitana di Firenze :
"La mostra che promuoviamo in Palazzo Medici Riccardi ha l’ambizione di dare nuova luce e meritata notorietà a questo artista. Nei tratti austeri e netti del suo dipingere scorgo personalmente una risposta interiore e una ricerca di pulizia e di bellezza. Opportuna la scelta di offrire una sorta di lettura di tutta l’opera di Ghiglia per temi e per tempi, con quella sottolineatura alle opere incluse nel filone del realismo magico che apre al futuro oltre l’apparenza delle cose e al mistero da cui nasce e torna la vita”. Mentre i curatori Leonardo Ghiglia, Lucia Mannini e Stefano Zampieri affermano : “Lo straordinario itinerario creativo di Oscar Ghiglia attraversa la prima metà del Novecento seguendo il pulsare degli eventi della storia, lungo le rotte di una pittura di grande fascino e originalità. Un percorso di quasi cinquant’anni durante i quali s’avvicendano diverse stagioni creative, e con esse i colori, la luce, la lunghezza delle ombre di un artista dal carattere difficile, avverso alla vita pubblica e al mondo delle esposizioni” Infine i curatori ribadiscono una cosa fondamentale al fine della mostra : “Dedicare una mostra a Oscar Ghiglia nel periodo di Novecento significa dunque innanzitutto ricollocare nella corretta prospettiva storica e critica la ricerca artistica portata avanti da pittore nel corso degli anni Venti.” Oscar Ghiglia. Gli anni di Novecento si inscrive quindi nell’affascinante percorso di ricerca intorno a questo artista, ponendo in questo caso l’attenzione sugli anni di
Novecento, nei quali il pittore raggiunge esiti di eccezionale qualità: basti ricordare
La modella del 1928 -1929, assunta a icona di questa mostra, a fianco dei meravigliosi accordi compositivi, cromatici e poetici sviluppati dal pittore nelle sue nature morte e nei suoi ritratti. L’esposizione, che ci porta come per magia indietro nel tempo, ai primi decenni del Novecento, propone oltre cinquanta opere di Oscar Ghiglia, provenienti da prestigiose collezioni private, tra le quali si annovera appunto l’Istituto Matteucci, e da importanti musei pubblici, fra cui la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, presentate secondo una narrazione che intreccia temi e cronologie: la prima sala, che si apre con il suo
Autoritratto del 1920, è dedicata agli anni della prima maturità dell’artista, quando il pittore, abbandonando poco a poco la via sperimentale della stagione precedente, comincia a declinare i toni di un diffuso “ritorno all’ordine” in chiave del tutto originale e si impone come sublime costruttore di splendide nature morte: fra queste la modernissima
Alzata con arance del 1915-1916 o gli
Iris del 1921. Nella seconda sala l’accento è posto sulla profonda classicità che permea l’opera di Ghiglia, declinata in forma sintetica, luminosa e salda al tempo stesso, mentre nella terza sala è offerto uno sguardo sul nudo femminile, in dialogo con un disegno di medesimo soggetto dell’amico Amedeo Modigliani
. Le ultime due sale aprono invece, anche grazie a un allestimento particolarmente evocativo firmato da Luigi Cupellini, al “realismo magico” intorno a cui si raccolgono tanti artisti negli anni Venti e che permea in tono del tutto originale l’opera di Ghiglia: una ricerca sugli oggetti e sulle forme tanto nitida quanto enigmatica, tanto perfetta quanto irrisolta, che tuttora ci ammalia e ci incanta.

La “poesia muta”, eppure fremente di vita,
di Ghiglia, ha un fascino intenso tanto sui conoscitori d’arte quanto sul grande pubblico, invitando, pur a cent’anni di distanza, a una riflessione profonda sulla natura e sul tempo del nostro vivere. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Oscar Ghiglia apro questo mio saggio dicendo : Oscar Ghiglia nacque a Livorno il 23 agosto 1876 da Valentino e Amalia Bartolini. Dopo i primi studi giovanili come autodidatta, negli anni Novanta frequentò gli artisti livornesi U. Manaresi e G. Micheli, nello studio del quale conobbe A. Modigliani, A. De Witt e L. Lloyd. Nel 1900 il Ghiglia si trasferì a Firenze e in seguito condivise con Modigliani, al quale era unito da una intesa amicizia, una camera ammobiliata in via S. Gallo. Questa loro ed intesa amicizia ci fu tra due artisti uno scambio epistolare la prima lettera inviata da Capri , nel soggiorno nel sud Italia risalgono le prime lettere del corpus di documenti più significativo riguardante Amedeo Modigliani prima della partenza per Parigi e scritto di suo pugno. Si tratta delle cinque lettere all'amico Oscar Ghiglia, in cui un giovane ed entusiasta Modigliani formula delle vere e proprie dichiarazioni di poetica, con un fervore letterario tipico della generazione nuova, la stessa che si aprirà alle avanguardie del ventesimo secolo. Il destinatario della corrispondenza è un amico dell'ambiente livornese, un pittore di otto anni maggiore di Amedeo Ghiglia era anche il meno tradizionalista degli allievi di Micheli, la cui pittura guarda già all'ambiente francese, concentrandosi su una depurazione dei mezzi espressivi e tralasciando l'effetto e l'impressione in favore del meccanismo compositivo e strutturale delle figure. Nel corso degli anni l'ammirazione e la stima per questo amico e collega non diminuiranno, restando al contrario vive e solide anche durante la lontananza parigina. A tal proposito Anselmo Bucci ricorda le parole di Modigliani: “In Italia non c'è pittura che valga. In Italia c'è Ghiglia. C'è Oscar Ghiglia e basta” . In occasione dell'ammissione alla Biennale del 1901, Amedeo gli scrive la prima lettera da Capri: «Carissimo, e questa volta rispondi, a meno che il peso degli allori non ti aggravi la penna. Leggo adesso nella Tribuna l'annunzio della tua accettazione a Venezia: Oscar Ghiglia, Autoritratto. M'immagino quell'autoritratto di cui mi parlasti e a cui già pensavi che eri a Livorno. Mi rallegro molto e molto sinceramente. Puoi immaginare come questa notizia mi abbia scosso! Io son qua a Capri, tra parentesi un luogo delizioso, a far la cura... E son quattro mesi adesso che non ho concluso niente, che accumulo materiali. Presto andrò a Roma, poi a Venezia per l'esposizione... faccio l'inglese. Ma verrà anche il momento di sistemarmi, a Firenze probabilmente, e di lavorare... nel vero senso della parola, vale a dire a dedicarmi con fede anima e corpo ad organizzare e a sviluppare tutte le impressioni, tutti i germi d'idee che ho raccolto in questa pace, come in un giardino mistico. Ma parliamo di te: ci siamo lasciati nel punto più critico del nostro sviluppo intellettuale e artistico e abbiamo preso strade diverse. Vorrei ritrovarti adesso e parlarti. Non pigliare questa lettera come una congratulazione volgare, ma come testimonianza dell'interesse sincero che piglia per te l'amico, Modigliani Hotel Pagano, Capri». Modigliani si congratula così sinceramente per l'ammissione dell'amico alla IV Biennale di Venezia, ma non senza una certa amarezza per i propri scarsi risultati, di fronte alla prolificità di Ghiglia. Esprime la volontà di visitare Roma e la stessa Biennale e di trasferirsi a Firenze per lavorare, come aveva già fatto l'amico artista l'anno precedente. Traspare dalle parole di Amedeo l'esigenza di organizzazione e sviluppo di quelle idee e ispirazioni che aveva raccolto durante il soggiorno nel meridione (curativo sì, ma non meno illuminante dal punto di vista artistico) per coglierne i frutti e metterle in pratica. In linea con i recentissimi linguaggi pittorici francesi e in accordo con la poetica di Ghiglia, in Modigliani adesso prevale la volontà tutta cerebrale di far emergere la forma sull'impressione, pensiero già totalmente slegato dall'insegnamento labronico di Micheli. La seconda lettera riporta la data 1 aprile 1901 ed è spedita da Villa Bitter ma in imminente partenza per Roma: «Caro amico, ancora a Capri. Avrei voluto aspettare e scriverti da Roma. Partirò fra due o tre giorni, ma il desiderio di trattenermi un poco con te mi fa pigliare la penna. Credo al tuo cambiamento sotto l'influenza di Firenze.
Crederai tu al mio, viaggiando in questi posti? Capri, il cui solo nome bastava a risvegliare nella mia mente un tumulto d'immagini di bellezza e di voluttà antica, mi appare adesso come un paese essenzialmente... primaverile. Nella bellezza classica del paesaggio vi è un sentimento (per me) onnipresente e indefinibile di sensualità. È pur sempre (anche malgrado gli inglesi che invadono coi Baedeker) un fiore smagliante e venefico che sorge sul mare. Basta la poesia. Immaginati del resto (son cose che succedono che solo a capri) che ieri sono andato a passeggiare in campagna con una signorina norvegese sola... assai erotica in verità ma anche assai carina. Non so ancora precisamente quando sarò a Venezia, del resto te lo farò sapere. Desidererei vederla insieme a te. Micheli? Oh Dio, quanti ce ne sono a Capri... reggimenti! Vinzio come va? Aveva cominciato bene con quel quadretto. Cammina o resta lì? Rispondimi. È per questo in fondo che ti scrivo, per sapere di te e degli altri. Salutami Vinzio. Ciao. Dedo Scrivi: Roma – Fermo Posta ». La frequentazione con Modigliani presto si interruppe, quando Amedeo si trasferì, prima a Venezia e poi a Parigi, è molto probabile che Ghiglia debba proprio a lui l’esser stato introdotto nel civilissimo ambiente della borghesia ebraica livornese e fiorentina, all’interno della quale trovò, non solo amicizia e stimoli culturali, ma anche buona parte dei suoi committenti. Lloyd invece, come vedremo, è l’artista contemporaneo toscano che gli fu più vicino anche nel linguaggio pittorico. Fu proprio con Lloyd che nel 1896 Ghiglia fece un viaggio a Firenze, per visitare la “Mostra dell’Arte e dei Fiori”, ed è quasi certamente in questa occasione che ebbe la prima vera possibilità di un contatto con la pittura del suo tempo in un panorama assai più vasto ed articolato di quanto poteva offrirgli l’ambiente labronico. La vera storia artistica di Ghiglia comincia però con il secolo nuovo. Proprio l’anno 1900, sollecitato da Vinzio, Oscar andò a Firenze con cento lire in tasca e l’entusiasmo del neofita. Nelle Gallerie Fiorentine “Studiò Tiziano e Rembrandt appositamente e fuori di galleria stava nello studio di Fattori a guardarlo dipingere e a far tesoro dei suoi consigli ” . Queste notizie, forniteci dalla moglie Isa Morandini in una biografia inedita, illuminano, a mio avviso, perfettamente la genesi del primo vero quadro di Ghiglia: L’Autoritratto firmato e datato 1901 e sorprendentemente accettato alla Biennale veneziana di quell’anno . L’autoritratto mi sembra infatti riveli proprio lo studio dei tre artisti ricordati nello scritto di Isa. E’ costruito solidamente con una pennellata in cui luce e colore si fondono come nella pittura veneta; lo spazio è delineato con sicurezza dalla prospettiva della poltrona e l’ambientazione in un interno corrisponde al gusto diffuso nella pittura contemporanea. Ma forse proprio di memoria rembrandtiana è l’atmosfera ombrosa che avvolge la figura in un clima romantico appena sopra le righe, molto comprensibile in un venticinquenne esordiente che sogna attraverso la sua arte un futuro di gloria. Di Fattori, infine, parlano la saldezza compositiva e la forza sintetica delle poche pennellate che animano le zone in luce. Un particolare interessante del quadro sono i piedi inchiodati di un crocifisso che compaiono sulla estrema destra e inseriscono nel clima sentimentale del quadro una nota di romantico misticismo. E non si può non riflettere sul fatto che nella prima vera opera di Ghiglia e in una delle sue ultimissime compaia l’immagine del Redentore, a chiudere un arco cronologico e spirituale, non certo per ragioni di bigotta devozione, perché Ghiglia ebbe sempre una sua religiosità laica, bensì per una spirituale consonanza con l’amore per i più umili e la vicinanza ai poveri che Cristo esaltò e praticò su questa terra. Dagli anni durissimi della prima giovinezza, dalla sua consuetudine di allora con le difficoltà materiali di un mondo popolare reietto e diseredato, furono certamente condizionate le convinzioni socio-politiche di Oscar, che non si incolonneranno mai nella militanza di un partito, ma saranno sempre schierate dalla parte dei deboli, ostili a ogni autoritarismo e alla moderna alienazione dell’operaio, asservito nelle fabbriche alla tirannia delle macchine. Il successo dell’autoritratto, spinse il pittore a dedicarsi alla ritrattistica, un genere che, come vedremo, non abbandonò mai, sia pure interpretandolo nei casi migliori in maniera molto personale. Io mi propongo qui di tracciare in modo sintetico lo svolgimento della pittura di Ghiglia sino alla fine del secondo decennio del ‘900. Essa attraversò precise fasi, non certo scindibili dagli incontri e dagli scambi culturali con vari linguaggi artistici contemporanei e coi protagonisti della critica d’arte e della cultura in genere. Per farlo, tratterò solo di alcuni dipinti esemplari per ogni periodo della sua attività, mentre rimando , per una più esaustiva conoscenza dell’opera sua, ai più noti studi a lui dedicati . Ghiglia non era andato a Venezia nel 1901, inaugurando la pratica, poi sempre, o quasi, seguita, di non visitare le mostre dove era esposta un’opera sua. A Venezia andò invece nel luglio del 1902, grazie alle cento lire, guadagnate nel giugno di quell’anno con il ritratto del suo futuro cognato Gino Morandini . Il ritratto del Morandini ha un certo interesse “per il clima vagamente decadente e un’aura secessionista, riconoscibile anche nel gusto grafico della scritta .” A Venezia Oscar, studiando con passione i grandi maestri veneti, visse d’arte e morì quasi di fame. Dipinse anche opere tutte disperse, fra le quali rimpiangiamo soprattutto la perdita di un piccolo cartone con su dipinte le cupole di San Marco,”un intarsio di pietre preziose, turchesi, opali, malachite. Ma non è contento e ci mette anche qualche lametta d’oro ”. Vien fatto di pensare quasi a un piccolo Klimt, e certo a una influenza secessionista. Appena rientrato da Venezia, il 4 agosto 1902 Oscar sposa Isa Morandini che sarà la compagna di tutta la sua vita, centro degli affetti e della felicità domestica, paziente e fedelissima modella di tanti suoi quadri, fervida e fiduciosa ammiratrice dell’arte del marito, sostegno dei momenti di crisi economica e spirituale, pronta per intelligenza ed amore a tutto comprendere e perdonare. Con la giovane moglie e le solite cento lire il pittore decide di trasferirsi a Firenze. Siamo alla fine del 1902, e per la Biennale del ‘3 Oscar prepara un invio che segnerà il suo primo vero successo: il cosiddetto Ritratto di Signora; in realtà un ritratto della moglie Isa. Non è facile spiegare il notevole salto di qualità fra l’autoritratto e il ritratto di Isa. Pur tenendo conto che Ghiglia aveva conosciuto tra il 1901 e il 1903 nuovi artisti, quali Gemignani, Michelacci, Marfori, Sacchetti, Andreotti, Chini e soprattutto De Carolis, e pur avendo visto, o supposto, nel ritratto del cognato e nel perduto cartone con le cupole di San Marco un primo contatto con il gusto della Secessione Viennese e del Liberty italiano, risulta davvero problematico chiarire le fonti di un capolavoro come il Ritratto di Signora . Il quadro è senza dubbio legato alla estetica secessionista, ma senza indulgere al ductus decorativo e alla fioritura di ornati, inseparabili ormai da quel filone di pittura; e forse proprio per questo non piacque a De Carolis. Piacque invece ad Ojetti, e da questo momento nasce l’interesse, poi mutato in amicizia e vera stima, del critico per il pittore. A Firenze Ghiglia, tramite gli amici artisti, aveva intanto conosciuto Giovanni Papini e tutto il gruppo di giovani che, insieme a lui, si accaloravano al sogno di una cultura integrale sulla scia di Ippolito Taine. A uno di questi giovani, il poeta Ernesto Macinai, Oscar fece un intenso ritrattino a matita, datato 19 dicembre 1903, e lo regalò poi proprio a Papini. Il 1903 è l’anno in cui nasce la rivista Leonardo ed è certo che Ghiglia fu in stretto rapporto con tutto il gruppo degli artisti e dei letterati che attorno al focoso corifeo Giovanni Papini, furono fondatori e collaboratori di quel periodico,destinato fra il 1903 e il 1907 a divenire una delle più vivaci espressioni della cultura toscana. I nomi dei primi collaboratori del Leonardo sono ben noti: Papini, Prezzolini, Soffici, Costetti, Brunelleschi, Henri des Pruraux, Graziosi, Melis, Andreotti, De Carolis. Il gruppo si frantumerà poi nel clima di accese polemiche che caratterizza la vivace vita culturale fiorentina del primo decennio del secolo, ma è fuor di dubbio quanto Ghiglia da quelle frequentazioni fosse stimolato e arricchito. C’era poi costante il suo rapporto con il vecchio Fattori, un rapporto di affetto e di stima reciproca che sfocerà, morto il grande maestro livornese, nella introduzione alla prima monografia su Fattori, scritta proprio da Osacar Ghiglia con una straordinaria acutezza critica. Ma, per tornare al Ritratto di Signora , esposto alla Biennale del 1903, non c’e dubbio che qui ci troviamo di fronte a una impressionante maturazione del linguaggio di Oscar.

Per la prima volta, lavorando con una modella docile ai suoi comandi,Ghiglia ha dipinto questa “natura viva” come farà di lì a poco con le nature morte. Non solo la posa della figura, appena eccentrica, controbilanciata dal movimento opposto della poltrona, ma persino il vestito è frutto della sua invenzione, avendo fatto confezionare alla moglie quelle maniche trasparenti di tulle, sulle quali egli stesso poi applicò i pois neri, ritagliandoli da un feltro. Ed ecco nascere un ritratto straordinario, dove “nella bruna atmosfera affondano il rosso vermiglione, il verde smeraldo e il blu di lapislazzuli, e il volto della bella donna cela all’ombra del grande cappello il misterioso sguardo, mentre si disvela il candore del décolleté sino alla breve fossetta del seno, entro lo scuro abbraccio della veste.” Quest’opera non nacque senza travaglio e ripensamenti,ma alla fine riuscì a suo modo perfetta. Essa però, più che aprire ai futuri sviluppi dell’arte di Ghiglia, mi sembra chiudere quel breve periodo, fra il 1901 e appunto il 1903, in cui pare affacciarsi nei suoi ritratti, sia pure attraverso una personale interpretazione e con una predilezione per le atmosfere misteriose ed oscure, una qualche influenza della Secessione Viennese, della quale e del gusto liberty in genere sopravvivrà solo qualche traccia nella grafica, come ad esempio nelle illustrazioni per la rivista russa Vesy del 1906 o nell’ex libris, disegnato per Ojetti; mentre ogni ricordo ne scompare dalla pittura, salvo qualche irrilevante brano nelle decorazioni, ritratte evidentemente dal vero, di alcune pareti di sfondo in qualche natura morta. Sappiamo come fra il 1904 e il 1907 circa abbia avuto una notevole importanza per Ghiglia l’amicizia con Henri Meilheurat des Pruraux, collezionista di Gauguin e pittore dilettante, legato alle idee di Maurice Denis e in genere al gusto nabis, in rapporti con Oscar almeno fin dal 1903. Fu attraverso Pruraux che Ghiglia conobbe la pittura di Gauguin e meditò sugli effetti del colore puro disteso a macchie piatte, sulla diretta derivazione da Gauguin dei Nabis, sulle possibilità del sintetismo e infine sulle Théories di Denis. Pruraux, sincero ammiratore di Denis, era, secondo quanto testimonia Papini, uomo “di molta cultura anche letteraria, molta esperienza del mondo, molto coraggio intellettuale e molto gusto.” Che la pittura di Ghiglia rientrasse completamente in quel suo gusto, lo prova il fatto che fra il 1904 e il 1905 Pruraux commise ad Oscar il ritratto della moglie, una bellissima modella che il nobile provenzale aveva sposato con generale scandalo del bigotto ambiente francese. La riflessione sull’opera di Gauguin e dei Nabis traspare in dipinti di Ghiglia come Riposo : una modella coi seni scoperti semidistesa sui cuscini di un letto. Il colore vi è risolto in larghe superfici piatte, quasi senza risalto di ombre. E tuttavia si tratta di una tavolozza luminosa, ma frenata, ridotta a pochi toni fondamentali, senza la multicolore fioritura cromatica dei pittori francesi, e che rivela nella scelta di quei pochi toni, felicemente accordati, una chiara memoria della macchia sintetica e costruttiva della pittura macchiaiola. Insomma siamo di fronte a una specie di sintesi fra il solido e severo linguaggio di Fattori e la “tache à plat”, derivata nei ricordati pittori francesi dalle stampe giapponesi. Ma subito la ricerca della definizione spaziale attraverso la sintesi luce-colore rivela più chiaramente la meditazione su Fattori in tele come il Ritratto di Valentino del 1906, o l’Autoritratto dello stesso anno , con quella straordinaria inquadratura prospettica della scura silhouette del pittore tra il telaio luminoso della finestra e le brune strutture lignee del cavalletto. Seguono nel 1907 quadri come La Veglia, che inaugurano quelle tematiche domestiche in interno, i cui precedenti erano nella pittura olandese del ‘600 e, fra i contemporanei di Ghiglia, le troviamo care ai Nabis e ai maestri nordici, come gli svedesi Carl Vilhelmson e Carl Larrson, il tedesco Arthur Kampf, gli inglesi Frank Brangwin e William Nicholson e l’olandese Jan Toorop, tanto per citare alcuni nomi di artisti quasi tutti presenti alla Biennale del 1905. Ma Ghiglia è assai diverso da tutti costoro, che del resto è quasi certo mai conobbe. Come scriverà Papini, questi suoi quadri rivelano “una brusca e immediata semplicità di rappresentazione, e il presentimento di quel ch’è veramente essenziale se ancora non è giunto al sublime semplicismo degli ultimi neoclassici francesi, ed ha molto cammino da fare per raggiungere la liberazione pittorica di un Cézanne e di un Gauguin o per tornare alla immortale semplicità degli Egiziani e degli Etruschi, pure, fra i giovani italiani, è tra i pochi dai quali si possa sperare qualcosa di così antico da sembrare nuovissimo” Questa nuova maniera di Ghiglia veniva dunque apprezzata da Papini in senso antimpressionista. Sono appunto questi gli anni della polemica di Papini, di Soffici e poi vedremo anche di Ojetti contro l’Impressionismo, forse dettata più dal fastidio per la diffusione internazionale degli imitatori di quel linguaggio, che non da una decisa condanna dei suoi fondatori. Le accuse agli impressionisti sono sia di carattere contenutistico, che formale. “Mirabili per luminosità, squisitezza di colori, i loro quadri mancano quasi sempre e totalmente di tutte le altre qualità del capolavoro: intensità di sentimento, solidità di struttura, potenza espressiva, varietà.” Sono confinati “nella trattazione di un numero limitatissimo di argomenti” In pratica dipingono quasi soltanto paesaggi, “assillati dalla preoccupazione di fissare nel minor tempo possibile i cambiamenti rapidissimi della luce sulle cose”. Non sappiamo se fino a questo momento Ghiglia avesse mai visto un quadro impressionista. Tenuto conto dei suoi movimenti, sarei propenso a dire di no. Secondo Lloyd, fu Ojetti a mostrare per la prima volta a lui e a Ghiglia delle riproduzioni di quadri impressionisti, ed è molto probabile che la notizia sia esatta e che ciò sia accaduto non prima del 1907, quando, dopo aver visitato lo studio di Oscar in via Boccaccio, Ojetti gli commise il ritratto della moglie . Ghiglia eseguì la commissione nella primavera di quell’anno, ritraendo la signora Fernanda in un abito bianco in mezzo ai roseti del suo giardino.

Per la luminosità diffusa, gli splendori carnicini e vermigli delle rose, il candore della veste che traspare fra i rami ed i fiori, il generale accordo di rosa e di rossi sul tappeto dei fogliami tenuemente verdi e il senso diffuso di sole che inonda la tela, questo ritratto è forse l’unica opera di Oscar nella quale si respiri un vago profumo di impressionismo. Ma la tecnica della pennellata non è certamente quella impressionista e, a ricordarci sempre la predilezione di Ghiglia per la costruzione prospettica, atta a misurare lo spazio, ecco i fusti nitidamente verticali di una serie di roseti ad alberello che, messi in successione, delimitano da entrambi i lati il dipinto, scandendo la profondità del giardino. E le rose sono rappresentate con spessori quasi tattili di colore, impasti che sfiorano il bassorilievo, anticipando certe soluzioni che vedremo di lì a poco in nature morte come Il Gomitolo rosso, con una ricerca molto concreta, e quindi antimpressionista, della forma plastica. Tra il 1907 e il 1908 cade un momento cruciale del percorso artistico di Ghiglia. Sono gli anni in cui si accende nel pittore l’interesse per la natura morta, un genere che d’ora innanzi costituirà più del cinquanta per cento della sua produzione. Se si deve credere alla biografia scritta dalla moglie, fin dal 1905 Oscar aveva fatto le prime prove nel genere; ma noi non conosciamo né la natura morta con Il Teschietto del Gatto, né quella con Peperoni e Uva nera, che risalirebbero entrambe al 1905. Così dobbiamo accontentarci delle prime apparizioni di brani di natura morta sullo sfondo di alcuni ritratti del 1907, come quello bellissimo di Llewellyn Lloyd, firmato in quell’anno, dove, dietro la figura dell’amico pittore, vediamo apparire una brocca di ceramica giallo chiaro e un vasetto scuro con due foglie verdi su lunghi steli. Gli oggetti poggiano su di un tavolo coperto da una tovaglia con disegni policromi e,nonostante la corposa concretezza e i luccicanti riflessi, specchi di una finestra invisibile, hanno solo una funzione di macchie cromatiche, proprio come quelle che ornano il tessuto sul tavolo. Domina invece, la figura in primo piano col cagnetto nero sulle ginocchia, trattata con una grande sintesi e dominanti tonalità di terre marroni, sulle quali emergono le ocre chiare degli incarnati, il tutto perfettamente contenuto nella scatola prospettica della stanza. La prima natura morta a noi nota è invece con ogni probabilità quella con i Tulipani nel Vaso di Copenhaghen , databile fra il 1907 e il 1908, per l’aggressività del colore, e la materia spessa che ricorda il modo in cui son trattate le rose nel ritratto di Fernanda Ojetti in giardino. Con l’apparizione della natura morta nella produzione di Ghiglia nasce subito il problema del suo rapporto con quello che era considerato il rinnovatore e il maggior maestro del genere: Paul Cézanne. Una recente mostra fiorentina ha riacutizzato la questione, insistendo sulla influenza di Cézanne su Ghiglia; ma il caso dovette essere discusso fin dalla apparizione delle prime nature morte di Oscar, se, a proposito di quelle, nella biografia scritta da Isa Morandini si legge:”E’ bene ricordare che le nature morte di Cézanne non le conosceva neppure di nome non che viste le riproduzioni”. E’ del tutto plausibile che Ghiglia si dedicasse alla natura morta indipendentemente dalla conoscenza di Cézanne, e del resto le sue notevolissime nature morte fino agli inizi del secondo decennio non hanno davvero alcun rapporto con quelle del maestro francese.
Il genere della natura morta era particolarmente congeniale a Oscar Ghiglia, uomo estremamente “domiciliosus”, che amava restare protetto nella stimmung rassicurante e privatissima della sua casa, fra le persone che gli erano care e gli oggetti, i soprammobili, le stoffe, gli arredi che gli erano carissimi. Non a caso Ghiglia dichiarò di preferire gli oggetti alle persone, intendendo certo che li preferiva come soggetti della sua pittura. Gli oggetti infatti poteva disporli a suo gusto, combinarli con fiori e stoffe colorate, ritrarli con angolazioni a sua scelta, illuminarli con una luce artificiale non soggetta ai mutamenti dell’ora e ai capricci della meteorologia. C’erano dunque tutti i presupposti, perché privilegiasse il genere della natura morta del tutto indipendentemente dagli illustri prototipi di Cézanne. E del resto il ricorrere costante dei medesimi vasi, panni, soprammobili, persino della testa di gesso del guerriero etrusco, in tante sue opere mostra il legame con le cose che aveva intorno a se; un po’ come accade con le nature morte di un altro grande artista, schivo e solitario, Giorgio Morandi, che nel segreto della propria stanza per anni ha disposto e dipinto sempre le stesse bottiglie, scatole e vasetti di fiori, velati di morbidi strati di polvere. Certo, a destare il sospetto degli studiosi che Cézanne potesse esser determinante per l’avvio di Ghiglia alla natura morta, sta il fatto che proprio fra il 1907 e il 1908 esplose un acuto interesse per il maestro di Aix. Al Salon d’automne del 1907 si era infatti tenuta la prima retrospettiva di Cézanne, e l’anno dopo nel libro di Vittorio Pica sugli Impressionisti francesi Cézanne venne per la prima volta presentato al pubblico italiano; mentre nel giugno del 1908 uscì su Vita d’Arte l’infuocato articolo su Paul Cézanne di Ardengo Soffici. Stava poi divenendo di piena attualità nella polemica dilagante contro l’impressionismo, presentare Cézanne, secondo le idee di Maurice Denis, note credo anche a Ghiglia per la mediazione di Pruraux, quale il restauratore di un ordine classico, o neoclassico, come , si è visto, scriveva Papini in Vita d’Arte sempre nel 1908. Prendiamo dunque in esame le nature morte che Ghiglia dipinse, quasi tutte per Ugo Ojetti , fra il 1908 e il 1910. La prima, Il Gomitolo rosso , è la più vicina cronologicamente e anche stilisticamente al ritratto di Fernanda Ojetti fra le Rose del suo Giardino. Vi si nota la medesima pasta ricca di colore che genera autentici spessori a definire le forme. Vista in lieve angolazione, con la prospettiva che sfugge verso sinistra, questa tela è notevolissima per la resa palpabile di ogni cosa, dai petali delicati delle rose, alla superficie tersa della ceramica, alla morbidezza del gomitolo di lana. Una luce chiara, che piove alta dalla destra, sottolinea ogni dettaglio, e l’immagine acquista una sconcertante verità. I colori sono stesi spessi, ma uniti, sulle singole superfici, quasi nascondendo la pennellata. La visione è realistica, senza traccia di deformazioni, o licenze prospettiche. La Tavola imbandita, dipinta nel novembre del 1908, è la sola, fra quelle sopra citate, che non appartenne a Ojetti ; fu invece subito acquistata da Gustavo Sforni, amico e mecenate di Ghiglia, del quale parleremo tra poco. E’ costruita in visione assolutamente frontale con gli oggetti disposti ben in ordine su di un tavolo, coperto da una tovaglia candida, e una luce totale che desta piccoli riflessi accecanti sui vetri e le porcellane. “Ghiglia affronta la natura morta né più né meno come se ritraesse gli oggetti” sortendo un risultato che anticipa “le ricerche della pura volumetria ottica di Vallotton” e i migliori prodotti del realismo magico . Su questa via forse il tour de force più stupefacente è quello de Lo Specchio, in realtà l’immagine dei molteplici oggetti sparsi sulla toilette della signora Ojetti: specchio, bottiglie di profumi, scatole, carte, fiori , collane dai grandi grani d’ambra; il tutto adagiato su una lucente stoffa dorata, con un disegno in stile impero a righe di vari colori e dimensioni, e serici riflessi che disegnano i bordi e gli spigoli del piano sottostante. Questo caotico affastellarsi di cose trova tuttavia un suo ordine razionale nella perfetta fuga prospettica in diagonale da destra a sinistra e si moltiplica nei riflessi del grande specchio a parete e del piccolo specchio ovale con l’impugnatura di metallo dorato, posto in prima fila sul piano di appoggio. E anche qui troviamo una luce totale,senza ombre,che investe ogni cosa e tutto immobilizza in uno splendore di colori, in una perfezione di resa formale avvincente e iperreale.
Altrettanto incredibile il ritratto di Ugo Ojetti alla scrivania del suo studio , dove ritroviamo la medesima luce diffusa, la stessa perfezione nel definire ogni cosa, i medesimi riflessi, non più sul vetro di uno specchio, ma sulla polita superficie della scrivania di mogano; colori chiari, invitanti, il rosa e il bianco dei fiori, l’opale del posacenere, il candore di tre petali caduti, la lucentezza fredda degli oggetti metallici, la perfezione prospettica delle carte e dei libri. E poi lui, Ojetti, col monocolo all’occhio e la elegante giacca da casa azzurra, fermato come in una istantanea, mentre alza lo sguardo dalla pagina aperta del libro, per fissare, meditabondo, lo spettatore. In tutta questa gioiosa perfezione di forme, luci e colori, anche il famoso critico d’arte sembra divenire uno, il principale, oggetto della natura morta, bello, ravviato, roseo, sullo sfondo dalla policromia attenuata della libreria, la testa dalla fronte chiara assestata sull’azzurro della veste come una rosa in un vaso di porcellana. E finalmente ecco Il Pollo . Qui le immagini sono colte un poco dall’alto, come se lo sguardo rasentasse a volo di uccello il piano della tovaglia bianca. Nella loro immobile, lucente perfezione, nel seducente gioco di gialli, rossi, bianchi e bruni, perfetti negli scorci prospettici come un mazzocchio di Paolo Uccello, ritratti nella sottile qualità tattile delle differenti materie, dalla solida pulitezza delle ceramiche, alla ghiaccia morbidezza della pelle del pollo e alla elastica tensione delle bucce dei pomodori, i singoli oggetti di questa natura morta forzano la realtà in una iperreale, magica perfezione. E’ evidente che in nessuno di questi dipinti, eseguiti con una pennellata così fusa, da nascondere del tutto i singoli appoggi del pennello, con i vari oggetti ritratti come piccoli teoremi geometrici e sottratti, nella immobilità iconica di una luce diffusa ed astratta, a ogni fenomenologia temporale, è possibile trovare il benché minimo rapporto con le convulse nature morte di Cézanne, nelle quali la instabilità degli appoggi, la licenza prospettica, la deformazione poetica della realtà nulla hanno a che fare con il mondo immobile e iperreale delle nature morte di Ghiglia. Infine, fondamentale differenza, il colore. Tutti i dipinti di Cézanne, una volta concluso il momento iniziale sospeso fra Goya e Manet, hanno una loro fondamentale e costante gamma cromatica, che svaria dagli aranci, ai verdi, agli azzurri-violetti nelle ombre colorate. Questo tipo di tavolozza sarà fedelmente ricopiata dai molti, forse troppi, cézanniani italiani –si pensi ad esempio a Müller, o a De Grada- ma non ha niente a che fare con quella di Ghiglia. Né, almeno nelle nature morte sin qui esaminate, incontriamo mai la tipica pennellata a scaglie che rende dinamiche , eccitanti, e così instabili quelle di Cézanne. In questo periodo fra il 1907 e il 1910 Oscar, accanto alle nature morte, continua a dipingere ritratti e scene domestiche in interno. Ho già ricordato il ritratto di Llewelyn Lloyd. Scegliendo fra i molti, nel 1908 voglio citare quello del piccolo Fulvio de’ Bacci con il cappotto blu e l’agnellino giocattolo, di una delicatezza e qualità quasi degassiana; e infine quello bellissimo de La Signora Ojetti in piedi presso il pianoforte, forse la sua più perfetta ambientazione di una figura in un interno, nitido e luminoso come un Vermeer, tutto giocato sui rapporti fra il nero lucente del pianoforte, l’avorio e l’ebano della tastiera e il candore della veste della signora Fernanda. Ancora una volta un capolavoro di perfezioni prospettiche, di riflessi e di nitidissime superfici. Fra le scene domestiche in interno merita particolare attenzione la Donna che scrive del 1908; in realtà la figura di Isa con una camicia candida e la gonna scura, incastonata nei toni caldi, rosso-bruni e dorati di un ambiente misurato nitidamente dalla spaziosa prospettiva. Del 1909 è la notissima Donna che si pettina, nella quale “il problema volumetrico è impostato con rigore estremo ”, mentre tutta la figura è giocata nella tripartizione cromatica tra la fluente chioma bruna, il candore della camicetta e il caldo amaranto della gonna. Anche in questi quadri di soggetto domestico il linguaggio di Ghiglia è assai progredito dopo il 1907, e se ne’accorse subito Papini, scrivendo nel 1908: “Ma da più di un anno la maniera di Oscar Ghiglia è cambiata il principio che informa questa nuova maniera del nostro si potrebbe enunciare così: rappresentare esteriormente non cose ed oggetti, ma una emozione, uno stato d’animo per mezzo di semplici e comuni figure”.
E in realtà, se nelle nature morte l’iperrealismo magico sembra quasi estraniare il pittore dal proprio soggetto, nei quadri di interno, animati per lo più dalla immagine amata della moglie Isa, circola una dolcezza di sentimenti che pare quasi riscaldare le scene. L’incontro con Ojetti fu senza dubbio molto importante per Oscar. Ojetti conosceva assai bene la pittura contemporanea, ma anche quella antica. I suoi gusti coincidevano con quelli di Ghiglia, o, meglio, la pittura di Ghiglia pareva coincidere con le sue preferenze artistiche. Ojetti, come Ghiglia, apprezzava profondamente Fattori. Nella ristampa del 1911 del Ritratto di Fattori ne lodava “i paesaggi di Maremma e di Toscana fissati in linee essenziali che sembrano di un giottesco o di un quattrocentesco intorno a Masaccio ed a Piero.” E, quanto a Piero della Francesca, grande é l’ammirazione di Ojetti per il pittore di Borgo Sansepolcro, al punto di affermare come egli sia “oggi l’antenato più di moda” e riconoscere “la sua influenza in Cézanne, anzi in Gauguin e in Matisse e in tutti i neoimpressionisti francesi,” i pittori cioè “della sintesi contro l’analisi del primo impressionismo”. Piero insegna “la misura e la semplicità distribuendo con mirabile economia gli spazi vuoti,” è il pittore della “nobile calma” e della “compattezza statuaria.” Per quanto riguarda Cézanne, Ojetti lo vede secondo l’interpretazione già datane da Maurice Denis, come un classico, restauratore dell’ordine e della forma classica dopo la vague impressionista. E questo modo di giudicare Cézanne era allora condiviso da Soffici e da Papini, anch’essi legati alla interpretazione che ne aveva dato Denis, presente a Firenze nel 1907 e del quale, nel settembre di quell’anno, era uscito su l’Occident un importante saggio sul maestro di Aix. E’ del tutto ragionevole pensare che Ghiglia, ormai molto legato ad Ojetti e da tempo a Papini e al gruppo del Leonardo e poi de La Voce , conoscesse e condividesse queste idee sul maestro provenzale. E’ anche possibile che frequentando la biblioteca di Ojetti, avesse visto delle riproduzioni di opere di Cézanne, oltre a quelle che erano apparse nell’articolo di Soffici su Vita d’Arte e sulle altre pubblicazioni italiane e straniere ricordate; ma è molto difficile dire se conoscesse direttamente qualche dipinto del pittore di Aix. A Firenze a quelle date c’erano soltanto i Cézanne di Loeser, e non ci sono notizie che Oscar avesse avuto accesso alla casa del collezionista. E’ noto che, sia Loeser, che Fabbri, proteggevano con grande riservatezza i propri Cézanne, mostrandoli a quei pochi che pensavano potessero capirli. Fra questi fortunati sappiamo che ci fu a più riprese Soffici per quanto riguarda i dipinti di proprietà Loeser, mentre non c’è notizia che Ghiglia avesse analoga opportunità. Naturalmente del tutto impossibile era che Oscar conoscesse i quadri della collezione Fabbri, che erano conservati a Parigi e, con una sola eccezione, arriveranno in Italia solo alla fine del secondo decennio del ‘900. Ma con la primavera del 1910 le cose cambiano. Alla Prima Mostra dell’Impressionismo Francese, aperta a Firenze al Lyceum Club in aprile e maggio di quell’anno, erano presenti di Cézanne quattro dipinti a olio, una litografia e sei fotografie , e fra le tele figurava la Campagna presso Bellvue, prestata da Fabbri. La mostra era stata organizzata fra mille difficoltà da Soffici e Papini, pieni entusiasmo, accanto al più pacato e prudente Prezzolini, con il sostegno economico di pochi amici, fra i quali spicca Gustavo Sforni, che fu anche prestatore dell’unico Van Gogh presente in mostra. Non possono esserci dubbi sul fatto che Ghiglia visitasse l’esposizione, tenuto conto di quanto era legato a Papini e a tutto il gruppo de La Voce, la rivista che, dopo la fine del Leonardo, aveva raccolto le più vivaci menti artistiche e letterarie di Firenze. Sappiamo addirittura, grazie a Prezzolini, che la prima idea della nuova rivista era nata al ritorno di una gita fatta con Ghiglia nella valle del Casentino fra la Verna e la Consuma. Inoltre era impensabile che Oscar disertasse una iniziativa patrocinata da Sforni. Ho già detto come, forse per merito di Modigliani, Ghiglia fosse stato precocemente introdotto nell’ambiente della borghesia ebraica toscana. Si è anche supposto che Levi lo aiutasse, scegliendo per la biennale del 1901 l’autoritratto di Oscar. I D’Ancona, i Levi, i Pisa, i Cassim furono tra i suoi non certo numerosi acquirenti. Ma Gustavo Sforni ebbe ben altro peso nella storia artistica ed umana di Oscar Ghiglia. Sforni era un uomo colto, raffinato, con larghe disponibilità economiche, illuminato collezionista d’arte e lui stesso, per puro diletto, pittore.
Fra gli italiani Sforni collezionò innanzi tutto Fattori, creando una raccolta impressionante, per numero e qualità, del maestro livornese, e, accanto a Fattori, Puccini, Lloyd e Ghiglia. Alla fine del secondo decennio del secolo Sforni possedeva circa cento opere di Ghiglia, e nel suo salotto troneggiava il Ritratto di Signora che Oscar aveva mandato alla Biennale del 1903. Ma gli interessi di Sforni, corroborati da numerosi soggiorni a Parigi, si estendevano alla moderna pittura francese, e sulle pareti della sua casa, accanto ai ricordati maestri toscani, spiccavano opere di Van Gogh Il Giardiniere, esposto alla mostra fiorentina del 1910, di Degas, di Utrillo, e il Ritratto di Monsieur Chocquet di Cézanne, acquistato nel 1911 da Vollard. Sforni possedeva anche opere d’arte orientale e sculture contemporanee da Medardo Rosso a Rodin. In seguito la sua pittura divenne assai più cézanniana appare a un primo sguardo la Conca con Frutta del 1919 Ma è sempre un Cézanne alla maniera di Ghiglia. Se infatti all’apparenza la concolina con le frutta pare cadere di sbieco, giù dall’instabile appoggio dell’asse per lavare, sul canovaccio bianco che penzola dal bordo della conca, proprio come spesso, per il ribaltamento in avanti dei piani, accade agli oggetti e ai frutti nelle nature morte di Cézanne, a guardar bene invece nel dipinto di Ghiglia tutto si giustifica in una prospettiva unitaria e in una costruzione geometrica perfettamente ragionevole. Il piatto con le frutta è infatti sì bilicato per sbieco,ma perché incastrato e sorretto nelle fiancate dell’asse per lavare. Insomma questa natura morta, che tanto fa pensare a Cézanne , anche per la pennellata a tratti frantumata e vibrante, in realtà nella sua logica, anche se complessa, costruzione geometrico-prospettica già accenna, dopo le furiose invenzioni che ho ricordato, a un ritorno alle leggi dell’ordine e della verosimiglianza. Resta ancora scarsamente naturale il colorito delle frutta, rosse, verde smeraldo e verde veronese, difficili da identificare, ma così perfette invece per colloquiare cromaticamente con il giallo splendente del piatto che le contiene. Siamo ormai alla fine del primo ventennio del secolo. La tempesta espressiva che ha agitato Ghiglia a Castiglioncello, mentre durante la guerra rimeditava su Fattori, Cézanne, Van Gogh, i Nabis e forse anche Puccini, tende ormai a placarsi. Del resto con la fine del conflitto mondiale è dovunque iniziato il ritorno all’ordine, nella vita quotidiana e nell’arte. Soffici abbandona i Futuristi e i Cubisti e torna ad adorare Masaccio. Papini rinuncia alle furie avanguardiste e si mette a scrivere La Vita di Cristo,forse senza accorgersi che sta affrontando la biografia del più grande rivoluzionario di tutti i tempi, o forse proprio per quello. Avviene la riconciliazione con Ghiglia che ritrae l’amico ritrovato in una tela per la verità non troppo avvincente. Il ritratto di Isa alla Stufa , firmato e datato nel 1921, segna per il quadro di figura il ritorno ad una forma solida,ad una prospettiva perfetta e a quelle razionali ambientazioni in interno che avevano dominato nella pittura di Ghiglia dieci anni prima. Persino il vaso verde poggiato sulla stufa, con i suoi tre piccoli tocchi luminosi di bianco di zinco, evoca le nature morte dipinte per Ojetti. Anche la breve vicenda della pittura di paesaggio si conclude nel 1921 con tre splendide marine, dipinte nei dintorni di Piombino, e giocate su quattro piani tonali successivi: il primo luminoso di spiaggia e terra dorata, il secondo intenso per il cobalto del mare, il terzo che nel blu violetto unifica le forme e i profili delle colline lontane e infine il quarto con l’azzurro profondo del cielo. Nella sintetica soluzione di queste quattro zone in perfetta successione metrica di luce, colore e spazio, Ghiglia si accosta alle tonalità e ai morbidi impasti della pittura di Lloyd, ma con una castità formale e una finezza tonale ben superiori. Dopo i paesaggi così antinaturalistici e tormentati degli anni della guerra, qui ritroviamo una semplicità e una naturalezza felice. Anche il paesaggio di Ghiglia è tornato all’ordine, cosi come stava accadendo in ogni genere della pittura italiana. Per Oscar fu più facile che per molti suoi colleghi, perché già nel primo decennio del secolo aveva anticipato molti aspetti della nostra pittura “novecento”. Il 2 luglio 1920 sul primo numero di Dedalo esce l’articolo di Ojetti, dedicato a Il Pittore Oscar Ghiglia, che sembra consacrare l’ordine ritrovato della pittura di Oscar:”La pennellata di Ghiglia è densa, netta e meditata, distesa in un senso solo per ogni piano.Niente è approssimativo o casuale; niente è sospiroso; tutto è parola precisa e sonora; tutto è capito e definito con una mente avveduta e limpida quanto l’occhio: limpida ma così finemente amorosa che questa sagace e minuta definizione della realtà per toppe di colori e di riflessi non riesce mai a fredde scomposizioni geometriche o ad astrazioni decorative da tappeto e da intarsio, ma ti presenta il vero, vivo solido profondo e bello. Anzi più bello perché riordinato, stabile e tutto prezioso.” Con questo prezioso viatico ojettiano Ghiglia approda nel 1921 alla mostra nella celebre Galleria Pesaro di Milano, e poi, nel 1926, alla Mostra del Novecento Italiano patrocinata dalla Zarfatti. Non c’è dubbio alcuno che Oscar sia stato un protagonista del gusto del Novecento, ma un protagonista, purtroppo per lui, anomalo. Non c’è in Ghiglia la volontà di compiere grandi decorazioni storiche e allegoriche, facendo rivivere, come Sironi, la gloriosa tradizione italiana dell’affresco e della pittura murale. Non si riallaccia apertamente a nessun protagonista della grande pittura del primo rinascimento, come farà Soffici con Masaccio o Casorati con Piero. Non ha tentazioni di neoprimitivismo o di antigrazioso come Rosai e Carrà. E quanto al secondo Futurismo, lo detesta come e più del primo. Soprattutto è del tutto indifferente ai trionfali destini dell’Italia fascista e alle lusinghe del regime che profondamente disistima. Rifiutandosi di salire sul facile carro della collaborazione con il fascismo, tanto affollato da troppi intellettuali, sempre pronti, e non solo in quegli anni fra le due guerre, a essere organici al potere e alla moda, Ghiglia rimane sempre più confinato nella stretta cerchia di una committenza amica. La sua arte negli anni 1920 e il 1930 non muta, né perde di qualità. Dipinge ancora straordinari ritratti, affascinanti figure, nature morte di eccezionale ricchezza cromatica. Con l’avvicinarsi del secondo conflitto mondiale, specialmente le nature morte tendono appena a raggelarsi in un gusto “deco” quasi porcellanato, mentre i panneggi sempre più si arrovellano in quei nodi di pieghe rigonfie e dure, capaci di dar spessore plastico e quasi metallico a una tovaglia o a uno scialle. E continua per lui la lotta per il pane quotidiano. Mentre soffre per i suoi amici ebrei dispersi dalla furia nazi-fascista e minacciati da un infame olocausto perde nel bombardamento aereo di Firenze la casa con gli oggetti a lui così cari, e a noi stessi, studiosi della sua pittura, divenuti familiari come conoscenze affettuose. Dopo esser stato sfollato negli ultimi tempi della guerra poco fuori Firenze alle Cascine del Riccio, morirà in ospedale, senza aver raggiunto, lui, uno dei maggiori pittori del nostro novecento, il giusto riconoscimento che gli spetta. La nostra ammirazione di oggi e il notevole successo commerciale delle sue opere sono una riparazione tardiva alle delusioni e alle sofferenze sopportate in vita da questo grande artista. Nel 1935 egli prese parte alla sua ultima mostra di rilievo, la seconda Quadriennale di Roma, dove espose un nutrito gruppo di opere. In seguito continuò a operare in una dimensione appartata e intimista, Oscar Ghiglia morì a Firenze il 24 giugno 1945 dopo una lunga malattia.
Museo di Palazzo Medici Riccardi di Firenze
Oscar Ghiglia. Gli anni di Novecento
dal 7 Aprile 2022 al 13 Settembre 2022
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 19.00
Chiuso Mercoledì