Giovanni Cardone Novembre 2022
Fino al 31 Gennaio 2023 si potrà ammirare presso la Real Casina Vanvitelliana al Fusaro di Bacoli – Napoli la mostra Pasolini 22- 22 a cura di Antonio Ciraci, Carlos Salas ed Enzo Trepiccione con il Patrocinio del Comune di Bacoli . Questa mostra di livello Internazionale dove espongono insieme pittori spagnoli ed italiani nel celebrare il centenario della nascita del grande Poeta . In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Pier Paolo Pasolini -Pittore apro saggio dicendo : Nell’ottobre del 1973, con il titolo Da Cimabue a Morandi, Mondadori pubblica nella collana i Meridiani un’antologia degli scritti di Roberto Longhi, curata da Gianfranco Contini. Pier Paolo Pasolini ne redige un’appassionata recensione, certo del fatto che «in una nazione civile questo dovrebbe essere l’avvenimento culturale dell’anno» . Pochi mesi prima, in aprile, Pasolini iniziava le riprese de Il fiore delle mille e una notte, l’ultimo film della “trilogia della vita” dopo il Decameron e I racconti di Canterbury. Se il Trecento italiano di Boccaccio e quello inglese di Chaucer si sono fatti metonimia di un’umanità incolta e primigenia, capace di vivere la vita e i suoi istinti con naturalezza non perversa, tra i paesaggi dell’Iran e dello Yemen, dell’Eritrea e dell’Afghanistan, del Corno d’Africa e dell’India, il regista, insieme con la polvere, filma il silenzio e i sogni dell’Oriente, attingendo al tempo di un mito non più tragico, come in Edipo Re e Medea, ma intriso della serenità che appartiene al Sud del mondo. Di contro all’Occidente borghese, come in un rito apotropaico, Pasolini guarda alla purezza che sconfigge la morte. Sul frangente letterario, da tempo sta lavorando ad un nuovo libro, destinato a rimanere incompiuto e pubblicato postumo. Difficile in quanto cagionato dall’insulsaggine della contemporaneità e dall’orrore politico che la governa, Petrolio è un romanzo dalla struttura complessa, magmatica, al quale il suo autore lavora nello studio della Torre di Chia. L’antico caravanserraglio con torre di avvistamento acquistato nel 1970 grazie alla relativa agiatezza raggiunta in un decennio di attività cinematografica ininterrotta, è stato riadattato ad abitazione nella quale trovare prezioso rifugio. Un rifugio per scrivere ma anche per riprendere a disegnare e dipingere. Nello studio della Torre di Chia, tra il 1974 e il 1975, Pasolini disegna e dipinge i ritratti di Roberto Longhi, in età matura e di profilo; questi ritratti diventeranno la copertina del cofanetto che contiene la prestigiosa edizione de ‘I Meridiani’ dedicata a Longhi. Roberto Longhi è colui al quale Pasolini, nella dedica che apre la sceneggiatura di Mamma Roma, si dichiara debitore per la propria «fulgurazione figurativa» . Teatro della folgorazione è Bologna, dove Pier Paolo è nato il 5 marzo 1922 e dove con la famiglia è tornato a vivere nel 1937, dopo i numerosi spostamenti al seguito del padre Carlo Alberto, ufficiale in fanteria. Nel capoluogo emiliano scopre la passione per il gioco del calcio e, tra le bancarelle dei libri usati sotto il Portico della Morte, quella per la lettura . Nel 1939 si iscrive all’Università; nelle aule di Via Zamboni, nell’anno accademico 1941-42, il carismatico Roberto Longhi tiene il memorabile corso su I fatti di Masolino e Masaccio. Il docente inscena il dramma solenne della Cappella Brancacci, proiettando diapositive che schiudono universi estetici: un esemplare del mondo masoliniano “si oppone” ad un esemplare del mondo masaccesco, il manto di una Vergine al manto di un’altra Vergine, il primo piano di un Santo o di un astante al primo piano di un altro Santo o di un altro astante, il frammento di una “forma” al frammento di un’altra “forma” . Frammenti che ricostruiscono la più accattivante tra le possibili storie dell’arte fiorentina del primo Quattrocento.
Pasolini coltiva il progetto di diventare pittore e storico dell’arte: nel 1940 visita la Biennale di Venezia nel 1941, con uno scritto che riceve molte approvazioni, vince i ‘Prelittoriali di Critica Stilistica’ nel 1942, grazie alla mediazione dell’amico Francesco Arcangeli ottiene da Longhi, che nutre alcuni dubbi in merito alle sue attitudini, l’assegnazione di una tesi di laurea sulla pittura italiana contemporanea. Dopo un assiduo lavoro, condotto con il supporto delle monografie più recenti, PPP perde gli appunti per la tesi durante una rocambolesca fuga dal reparto militare di Livorno, dove è stato chiamato alle armi e poi fatto prigioniero dai tedeschi. Abbandona così l’idea di laurearsi con Longhi e opta per una ricerca sulla poesia pascoliana. Della «fulgurazione figurativa» rimangono però inalterati, allora e negli anni a venire, tutto il fascino e l’importanza, in un sostrato culturale oramai inamovibile. Pasolini ricorderà qual è, secondo la sua opinione, la più significativa tra le “invenzioni” pittoriche che Longhi attribuisce a Caravaggio: l’abitudine di dipingere osservando gli uomini e le cose attraverso uno specchio. È per l’utilizzo di uno specchio, quale diaframma tra il pittore e il mondo, che nei quadri di Caravaggio vivono e muoiono uomini e cose che sono assolutamente, come mai prima di allora, brani di realtà, e al contempo il “riflesso” della weltanschauung dell’artista. Sul principio degli anni Quaranta, mentre sulla vocazione innata si innestava la folgorazione longhiana, le prime esperienze grafiche e pittoriche erano nate contemporaneamente e consentaneamente ai primi lavori letterari. Parte integrante e non marginale nella definizione di una poetica multiforme e straordinariamente complessa, le prime opere figurative di Pasolini, come le Poesie a Casarsa scritte in friulano, si connotano per la declinazione linguistica tesa a riscattare il particolare della vita all’universalità della cultura: «Malgrado la presenza cosmopolita di Longhi, la mia nous nemmeno pregata, allora, tanta era l’adorazione, la mia pittura è dialettale: un dialetto come “lingua per la poesia”. Squisito, misterioso: materiale da tabernacoli. Sento ancora, quando dipingo, la religione delle cose» . A Casarsa, in uno stanzone un po’ alla bohème sopra l’antica fabbrica di grappa del nonno, nell’estate del 1941 Pasolini compone versi e comincia a raccontare nei disegni attimi carpiti all’esistenza; raffigura sé stesso con la tavolozza in mano, in Il pittore al cavalletto e Paolo che dipinge. Dopo essersi trasferito stabilmente in Friuli – alla fine del 1942, per sfuggire ai bombardamenti su Bologna, insieme a Susanna, sua madre, e Guido, suo fratello minore – Pier Paolo riconsegna per immagini i volumi robusti dei casolari agricoli e la luce forte che inonda le strade, gli alberi, i campi che Nico Naldini descriverà così: «Quindici paesaggi che rappresentano casolari o libere vedute campestri, dipinti a olio secondo le ricette della pittura impressionista che il pittore Federico De Rocco,  ha messo a punto per lui». Fuori da ogni retorica, raffigura l’emozione di amicizie e di giovani amori consumati sulle rive del Tagliamento. Disegna con gesti rapidi, urgenti che alludono ai segni vibranti di Filippo De Pisis. Adopera materiali come la tela di sacco, con accentuata sensibilità per la ruvidezza della materia, e il pensiero rivolto a Masaccio o ai “valori plastici” di Carrà. Dà il colore con i polpastrelli o spremendolo direttamente dal tubetto, senza rinunciare, anche per l’ascendente di Giorgio Morandi, a meditare la composizione Morandi, forse anche in virtù della lunga e profonda amicizia che lega l’artista a Roberto Longhi, è tra gli “idoli” giovanili di Pasolini. I disegni e i dipinti friulani, come le Poesie a Casarsa, originano un idioma capace di manifestare i «sentimenti più alti, i segreti del cuore» . Un idioma che talvolta si manifesta anche nella forma del componimento letterario, come nel caso dell’Autoritratto col fiore in bocca e del Narciso . Ne deriva un’indagine appassionata e un’appropriazione critica di codici estetici e stili di figurazione. Pasolini ritiene che l’arte del XX secolo ha spodestato la bellezza per conoscere la verità; e la verità si è rivelata scomoda, mettendo a nudo la fragilità della condizione umana. Sa che un’ossessiva ricerca dell’identità si è consumata tra il dolore soggettivo e la tragedia dello straniamento dell’uomo dal mondo. Rifiuta, però, il ripiegamento solipsistico, e rifiuta soprattutto la rinuncia da parte dell’artista a farsi interprete del cambiamento. Accusando direttamente l’opera di Picasso di tenersi lontana dalla verità del popolo, Pasolini si schiera apertamente contro la pittura astratta, colpevole di una troppo esclusiva espressione dell’interiorità, che non si fa cura della responsabilità sociale . La polemica, evidentemente, non investe la modernità tout court, ma quanto ne costituisce lo stereotipo, il pensiero univoco cui manca il coraggio della diversità. Non potrebbero altrimenti comprendersi le vere e proprie incursioni nella modernità dell’arte italiana ed europea, che determinano il carattere dei disegni e dei dipinti pasoliniani più riusciti. Due sono i fondamentali autoritratti pasoliniani, dipinti a olio su faesite, rispettivamente nel 1946 e nel 1947: Autoritratto con la vecchia sciarpa e Autoritratto col fiore in bocca. Presentati a Udine nella “Mostra triveneta del ritratto” del 1947, risalgono a quel momento nel quale l’interesse per la storia dell’arte, prima di confluire in maniera privilegiata nella produzione cinematografica, si traduce nella realizzazione di un numero significativo di disegni e dipinti, che Pasolini talvolta sceglie di pubblicare e di esporre, confrontandosi con altri artisti, anche di notevole rilievo. Autoritratto con la vecchia sciarpa partecipa di una deformazione di formula modiglianesca, poco appariscente, ma assoluta come una dolente stortura. Se Modigliani si è sistematicamente rispecchiato nel volto degli altri, dipingendo gli altri proprio come se dipingesse sé stesso, gli autoritratti pasoliniani, con i ritratti di Roberto Longhi e i ritratti di Maria Callas, sono parte di un unico desiderio di comunicare e approfondire la conoscenza della natura umana. Autoritratto con la vecchia sciarpa s’inserisce in una struttura priva di riferimenti spaziali definiti: la tridimensionalità è rifiutata a favore di campiture piatte, all’interno delle quali il viso dell’artista è sbalzato come in una vetrata gotica. L’elemento di connessione tra la figura e lo sfondo è rappresentato dalla vecchia sciarpa, i quadrettoni della quale sembrano richiamare anch’essi le forme di tarsie medievali, ma filtrate attraverso la contrapposizione tra l’audacia secessionista di Klimt e la conturbante disperazione di Schiele. Sui colori smorzati e calibrati, Pasolini interviene con un bianco latteo a segnare parte dei contorni e lo sguardo; ancora il bianco interseca il viola, a connotare il particolare del fiore in bocca. L’Autoritratto col fiore in bocca è sinestesia di colori e profumi, rimpianto di giovinezza, memoria di notti che si avvicendano. Il quadro si fa metafora di un’ambivalenza. In primo piano l’autoritratto che fa riferimento alla realtà, alla realtà pittoricamente deformata: il viso è risolto in un monocromo verde terroso, interrotto soltanto da dense pennellate dello stesso bianco che in Autoritratto con vecchia sciarpa sottolinea i lineamenti, in questo caso sembra volerli confondere. Dietro l’autoritratto che si staglia su un fondo anch’esso completamente bianco e aniconico, esaltato dal rosso e dal blu della camicia, in una pregevole armonia di geometria un accorgimento meta-artistico mette in relazione l’effigie del pittore con una seconda immagine, incastrata dentro all’immagine principale. L’accorgimento è reso particolarmente evidente dalla continuità della linea che ha funzioni di cornice per entrambe le rappresentazioni. Nel meta-quadro rivive quel ragazzo appoggiato al piccolo gelso, che faceva brillare l’aria con una primuletta. Strettamente connesso agli autoritratti è Narciso, realizzato a tempera e pastello su carta e datato al 1947. Fin da ragazzo Pasolini sogna di abbracciare un bellissimo altro sé stesso , l’allegoria di Narciso ricorre sovente nei componimenti poetici e, infine, un passo del racconto breve Spirituals, risalente agli anni intorno al 1950, sorprende per la particolare affinità con quanto raffigurato nel dipinto. Come il Ninì del racconto, il Narciso del dipinto ha le membra robuste e possenti dei contadini; indossa una camicia a grosse righe colorate e si specchia sbigottito, timoroso di riconoscersi nel tremolio dell’acqua confusa dal rosa dei sassolini. Evocazioni caravaggesche riemergono nella struttura compositiva dell’opera, tutta centrata sulla figura del protagonista senza concessioni a descrizioni paesaggistiche. Le spigolosità del corpo accovacciato e la matrice espressionista di un uso fortemente incisivo della linea proiettano, però, anche questo dipinto nell’ambito delle ricerche estetiche del XX secolo. In particolare è del tutto moderna e pasoliniana la natura paradossalmente “antigraziosa”, quasi rude, della figura; come l’impossibilità per i contorni, che pure sono forti e spessi, di definire precise superfici per i colori. Il blu profondo e saturo dello sfondo è la dominante cromatica di tutto il quadro, compensata soltanto dagli sprazzi baluginanti del bianco e del giallo. Per rappresentare l’acqua Pasolini interrompe la stesura a tempera e utilizza il pastello azzurro, tracciando segni abbastanza radi, che lasciano intravedere il cartone del supporto. Altri dipinti coevi a Narciso, riconducibili a una storia dell’arte contemporanea non ufficiale e anticonformista, sono Donna col fiore azzurro e Giovane che si lava. Opera del 1947, realizzata a tempera con l’inserzione della tecnica a gessetto, la Donna col fiore azzurro richiama il tema dei bordelli, ampiamente presente nella pittura europea dell’Ottocento e del Novecento. Ostile a ogni contegno censore, Pasolini osserva senza infingimenti l’ostentazione sessuale, priva di un’attrattiva autenticamente erotica e quasi grottesca. La prostituta dipinta da Pasolini ha il volto coperto da una veletta nera che nasconde le fattezze ma lascia trapelare occhi sbarrati e labbra turgide di sofferenza. La bellezza oltraggiata dalla corruzione sociale si fa denuncia delle ingiustizie e solidarietà con i diseredati. A differenza di Rouault, che predilige l’acquerello e la gouache, e più vicino alla maniera di Maccari, Pasolini quasi imbratta la carta con il colore e lascia in evidenza la materia del fondo. Appena sfiorato da memorie espressioniste, il Giovane che si lava è anch’esso un dipinto del 1947, totalmente a tempera. Il contesto rimanda all’«immenso amore» di Pasolini per Bonnard, ai «suoi pomeriggi pieni di silenzio e di sole del Mediterraneo» . La luce rifrange il rosa delle pareti, scivola sulle tavole dell’impiantito scuro, si posa piano sulla sedia, permea il viola cangiante del secchio e della bacinella, avvolge con naturalezza il corpo plastico del giovane, colto in movimento, intento ad un gesto semplice e quotidiano. Per il ricordo di Bonnard, Pasolini risolve il quadro in un problema di luci, che consentono la fusione tra l’uomo e l’ambiente. Ma la semplicità e la quotidianità si fanno, appena oltre l’esteriorità, misteriose e problematiche: sulla parete di fondo, al limite dello spazio della rappresentazione, Pasolini dipinge, come in Autoritratto col fiore in bocca, un quadro nel quadro, un meta-quadro che potrebbe anche essere uno specchio, traboccante inquietudine e ambiguità, capace di gettare un velo di profondo turbamento sull’apparente armonia del reale. I ritratti di Roberto Longhi sembrano nascere dal desiderio di interpretare «le meravigliose capacità istrioniche» del maestro , anche attraverso l’utilizzo di tecniche differenti e differente ductus disegnativo. Il disegno datato al 1974 rimanda puntualmente, anche se con modi sincopati, alla fisionomia di Longhi come appare nella fotografia assunta a modello. Pasolini traccia dapprima con la matita un segno quanto più possibile continuo, a definire il profilo austero e insieme ironico dello storico dell’arte: indica la fronte alta vestita da singolare cappello, l’occhio mobile, il naso importante, il sorriso colto e sagace, le dita della mano piegate in un atteggiamento di riflessione. Sulla linea esterna del profilo, alla matita si sovrappone un duplice tratto di carboncino, il primo, più interno, sottile e marcato, il secondo largo e sfumato: il cappello, la fronte, il naso, la mano sono chiusi da un unico andamento sinuoso, come dentro a un bozzolo cloisonné. In due disegni del 1975 le linee, affidate a gessetti colorati con la dominante del viola, si mostrano meno vincolate alla descrizione e determinano campi di vuoto che accolgono la luce. Riscattati da ogni finalità illustrativa risultano i due ritratti dello stesso anno dipinti ad acquerello che si compendiano in poche annotazioni fluide, rispettivamente nei toni del blu e del giallo. Datato al 1975 è anche un altro disegno, particolarmente significante: senza preliminari tracce di matita, Pasolini compone con il carboncino un meditato equilibrio di analisi fisionomica e concentrata espressione; segni quasi xilografici, ma duttili e funzionali, rendono esplicita quella «maschera misteriosa» che la cultura ha impresso sul viso di Longhi. A prescindere dalle peculiarità stilistiche che singolarmente li contraddistinguono, tutti i ritratti si presentano, specularmente rovesciati rispetto al modello fotografico. Sono, appunto, immagini allo specchio. Caravaggesche, nei termini di una specifica accezione pasoliniana. Nei ritratti di Roberto Longhi, Pasolini come Caravaggio fingendo la presenza di un diaframma che modifichi le possibilità di visione, indaga le caratteristiche fisiche e psicologiche del soggetto, sottolineando i tratti che ne indicano la forte personalità. Se guardare qualcuno allo specchio significa andare oltre le semplici fattezze fino all’interiorità, non mancano peraltro, oltre a quello caravaggesco, esempi illustri nella storia dell’arte: dal celebre Autoritratto allo specchio convesso di Parmigianino fino alle enigmatiche elaborazioni moderne di Diego Velázquez. Immaginando di guardare Longhi attraverso uno specchio, Pasolini ne restituisce la statura intellettuale e la grandezza umana. Un ritratto allo specchio comporta un procedere pittorico simile all’auto-rappresentazione dell’artista; in tal senso è necessariamente complementare ad un autoritratto. Portato di infiniti attraversamenti culturali, costantemente e originalmente ricomposti, le opere figurative, come ogni opera di Pasolini, nascono sotto il segno della contaminazione nella commistione di stili, tecniche e materiali eterodossi, contribuiscono a spiegare il manierismo pasoliniano. E poiché il manierismo è rivisitazione della tradizione in antitesi alla crisi del presente, problematico punto di confine tra rigore e arbitrio, «esibizione delle contraddizioni e delle antinomie in tutta la loro ineludibile asprezza, gusto della dissonanza, del rischio, dell’eccesso» , certezza dei limiti umani e aspirazione drammatizzata alla verità del sacro, indubbiamente manieristi si rivelano i ritratti di Maria Callas, a partire dall’autorevole lettura proposta da Giuseppe Zigaina: «I ritratti di Maria Callas, quelli esposti e pubblicati, sono undici. In totale sono quattordici: due di questi sono stati regalati alla Callas da Pasolini stesso in occasione della première di Medea all’Opéra di Parigi; il quattordicesimo, invece, un piccolo profilo della cantante, è stato donato dal poeta al signor Citossi di San Giorgio di Nogaro in ringraziamento per alcuni lavori da lui eseguiti nel “casone” dell’isola del Safon, nella laguna di Grado» . Immagini quante altre mai ricche di seduzione e implicazioni simboliche: nelle prime sei, realizzate durante le riprese di Medea, nel 1969, il viso della cantante, colto di profilo o mezzo profilo, occupa interamente lo spazio del foglio; nelle altre cinque, del 1970, più profili si ripetono in sequenza su uno stesso foglio. La Callas immortalata da Pasolini ha la preziosità e la ieraticità di un’icona o di un idolo miceneo». I profili si susseguono come fossero modulo, colonne di una peristasi che custodisce la sacralità del naos, note di un canto la cui eco proviene da tempi remoti, quando il mito sapeva proferire il mistero della vita, della morte e dell’amore. La ieraticità è incrinata però dal dolore che quei profili non riescono a celare, la regalità della dea è minacciata dalla nervosa, straordinaria bellezza della donna. Il sublime ineffabile si contamina con la finitezza eloquente. L’ideale punto di incontro delle esperienze di Pier Paolo Pasolini è il suo debutto cinematografico. A dispetto di una narrazione, in parte desiderata dallo stesso autore, che lo ritiene un neofita assoluto, Accattone e Mamma Roma presentano un percorso preparatorio complesso che fa della contaminazione e ibridazione di strumenti il suo aspetto peculiare e fondante. Se il ‘primo’ Pasolini non può definirsi un regista maturo, egli è comunque un autore già esperto e non è un caso che la sua prassi lavorativa susciti particolare interesse – un interesse avvalorato dal suo essere, utilizzando un neologismo, transmediale. Siamo in un momento fondamentale nella carriera dell’autore: l’inizio dell’esperienza cinematografica si accompagna con una rielaborazione del disegno e il progressivo abbandono del romanzo tradizionale e della raccolta di poesie organizzata. Il vuoto creato dall’impossibilità di concepire il libro come oggetto compiuto in sé, concluso e definitivo sembra essere colmato non dallo spostamento verso un’altra forma di opera, ma bensì attraverso il ricordo a un metodo di lavoro. Questa prassi esibisce un desiderio di presa sull’alterità del reale che le meravigliose «ipocrisie» della tecnica cinematografica forse soddisfano maggiormente. Il cinema offre a Pasolini la possibilità di sperimentare e realizzare ciò che Henry Jenkins riuscirà a delineare parzialmente solo, e definendolo «narrazione transmediale», ovvero un «prodotto, storia, contenuto, servizio capace di viaggiare tra più piattaforme distributive e di incarnarsi su media differenti secondo le regole della convergenza. Il suo significato è dunque simile a quello di crossmediale, ma con una sfumatura diversa  si sottolinea infatti la capacità del prodotto, storia, contenuto, servizio di aggiungere brandelli di senso e narrazione a ogni sua incarnazione sulle diverse piattaforme» . I fogli di lavoro pasoliniani realizzati per Accattone e Mamma Roma sono poco più di 150. I fogli per Accattone sono, in realtà, dei ‘mezzi fogli’: un A4 piegato a metà, con un formato che potremmo paragonare a un A5. I fogli di Mamma Roma sono, invece, degli A4 tradizionali. La maggior parte è conservata in due fondi a Parigi, presso la Bibliothèque du film; questo istituto, in passato indipendente, oggi è confluito nel più grande e privato archivio della Cinémathèque française – è, perciò e anche a causa di altre complicanze molto complesso riuscire a visionare una copia dei suddetti . Un’altra parte dei fogli di lavoro di Mamma Roma è invece stata fotocopiata in formato A4 ed è preservata presso il Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini di Bologna. Sorvolando sulla storia editoriale di questi fogli, la cui ampiezza ed eterogeneità richiederebbe un’analisi a sé stante, concentriamoci sul loro contenuto. Sia i fogli di lavoro per Accattone che quelli per Mamma Roma rispondono a un medesimo principio organizzativo e a un identico metodo di stesura. Le inquadrature nascono per lo più dai disegni, a patto però di intenderli come interpretazione tecnica e visiva della sceneggiatura. I fogli di lavoro ribadiscono come i disegni non siano appunti presi occasionalmente, ma che siano schizzi realizzati in funzione del set e alle esigenze del set corrispondenti. I fogli di Accattone potrebbero deludere chi vi cerchi le tracce del Pasolini disegnatore. Le figure intere sono ridotte a semplice manichini, con un cerchio che ne indichi la testa e pochi tratti di penna a delineare il corpo. I primi piani, che ricoprono un ruolo fondamentale sia nel fumetto che nel girato de La Terra vista dalla Luna e in Che cosa sono le nuvole?, sono appena abbozzati e presentano solo pochi, peculiari segni volti a render riconoscibile il personaggio; con l’eccezione di due schizzi dedicati a Stella e ad Amore, le prove di ritratto sono assenti. Sarebbe quindi impossibile avvicinarsi agli schizzi di Accattone senza contestualizzarli in un panorama più ampio o, per meglio dire, in una descrizione più complessa. Questa è ampiamente confermata nella testimonianza offerta da Tonino Delli Colli a Antonio Bertini, l’aiuto-regista ricorda come «Pasolini aveva idee molto chiare per Accattone  conosceva tutti i posti, aveva tutte le inquadrature in mente, anzi, faceva dei disegni. Per ogni inquadratura, c’era un disegno. Pasolini era capace di cominciare la sequenza dall’ultima inquadratura. Non era come tanti altri registi che se non vanno in fila non sanno cosa fare. Aveva tutti gli schizzi delle inquadrature che doveva fare». Ricordiamo come Pasolini, quando mette mano alla sceneggiatura del suo primo lungometraggio, abbi già trascorso dieci anni nella capitale. L’autore vive a Roma dal 1950: l’area di Piazza Costaguti e le borgate di Primavalle, Quarticciolo, Tiburtino e Pietralta gli sono già familiari; ha già cominciato da qualche anno a ridursi «a un magnetofono», registrando i dialoghi dei ragazzi e costruire Ragazzi di vita. Poco prima delle riprese di Accattone aveva, inoltre, pubblicato l’inchiesta sulla periferia romana Viaggio per Roma e dintorni. Infine vi sono anche numerose fotografie dei sopralluoghi effettuati poco prima delle riprese, conservate presso l’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto Vieusseux. A ciò è necessario aggiungere i materiali che compongono la pubblicazione del «copione» di Accattone, edita nell’agosto 1961 da Rizzoli. Quest’edizione mira a dare una visione estensiva e, appunto, transmediale di ciò che vi è intorno all’opera cinematografica. Questa ricchezza di materiali “altri” è un’ulteriore conferma del sospetto che, se privati dell’apparato che li precede e degli scritti che li accompagnano, quali i nomi dei personaggi nell’inquadratura, gli schizzi di Accattone poco o nulla avrebbero potuto significare per noi e poco sarebbero serviti al regista. Piuttosto la loro funzione è essere una verifica istantanea dell’immagine in movimento prevista, ricordare al regista immediatamente il tipo di inquadratura da girare, insomma funzionare come dei veri storyboard per controllare, verificare ed esaltare i nessi narrativi più elaborati. Un’ultima annotazione. Sin da questi disegni, Pasolini presenta un’abitudine che poi riscontreremo sia in Mamma Roma che ne La Terra vista dalla Luna: l’uso di arricchire o cassare gli schizzi adoperando inchiostri diversi da quelli per stendere la tavola, sia negli interventi sul disegno che su quelli delle sezioni scritte. I fogli di Mamma Roma costituiscono un unicum nell’opera pasoliniana. L’appendice dedicato alle Illustrazioni del volume contenente la prima sceneggiatura del film, edito da Rizzoli nel luglio del 1962, si apre con una foto di scena che reca l’eloquente didascalia «Pasolini al lavoro: attraverso i disegni nascono le inquadrature. Alcuni disegni sono riprodotti nelle tavole seguenti»; seguono sei «disegni», gli unici estratti dai fogli di lavoro pubblicati in vita da Pasolini. La pubblicazione sembrerebbe volta ad assecondare le tendenze editoriali del periodo, più che a offrire un quadro d’insieme del lavoro di realizzazione del lungometraggio. L’apparato iconografico è reso maggiormente apprezzabile per la presenza dei numerosi scatti sul set realizzati dal fotografo Angelo Novi. D’altronde è un’affermazione dell’aiuto regista Carlo di Carlo a confermarci nuovamente il metodo di lavoro dell’autore bolognese. Di Carlo ricorda, infatti, come «problemi tecnici . Pasolini non li ha mai avuti. Risolveva le inquadrature progettandole. Per Mamma Roma esistono disegni di ogni inquadratura (io stesso ne ho alcuni). Schematizzando le sequenze per avere la verifica visiva e tecnica (annotava obiettivi e movimenti) delle soluzioni narrative» . Una descrizione che è pienamente confermata dal settantottesimo foglio di lavoro inserito nella cartella dedicata a Mamma Roma, che schematizza sei inquadrature della scena del furto della radiolina. Questo è il foglio di lavoro che è ritratto nello scatto di Angelo Novi che apre le Illustrazioni: il regista si appoggia al bordo inferiore di un letto di fattura identica a quelli della scena, chino sul copione e sul bloc-notes. Attorno a lui, Lamberto Maggiorani e altre comparse, mentre davanti vediamo Ettore Garofolo, con indosso i vestiti di scena. Un confronto tra la sceneggiatura, il foglio e il girato ci svela come quanto schematizzato tra copione e foglio di lavoro finale trovi riscontro nel lungometraggio. Il foglio diviene, così, la prima interpretazione tecnica e visiva dello script, configurandosi come un canovaccio per spuntare le inquadrature mentre vengono realizzate una funzione fondamentale, se si considera la tendenza pasoliniana a scegliere spesso luoghi molto distanti tra loro per realizzare un semplice campo e controcampo. Infine il mancato “ripasso” a penna di alcune illustrazioni, le cui scene delineate sono effettivamente assenti nel film, lascia presupporre una prima operazione di montaggio e rifinitura dell’opera. Perduto il copione di Mamma Roma, i fogli di lavoro sono gli unici testimoni del modo in cui Pasolini lavorava la sceneggiatura di partenza in vista della ripresa. Presentando uno statuto intermedio, che pur accoglie le idee nate sul set, questi dipendono dalla sceneggiatura e non anticipano nessuna delle scelte effettuate in sala di montaggio, sia a livello narrativo che tecnico. Per questo motivo le maggiori discontinuità tra sceneggiatura ante-lavorazione e film montato trovano ampia documentazione in queste pagine. Pasolini, d’altronde, con il lavoro per Mamma Roma svela di aver ripreso le sue qualità di «pittore abbondante» e di volerle usare per realizzare disegni gradevoli, la cui accuratezza deriva da esigenze di precisione e funzionalità. In conclusione, appare evidente come la traduzione filmica delle sceneggiature e dei fogli di lavoro di Accattone e Mamma Roma non sia l’esito di un «processo meccanico». Le inquadrature e i nessi narrativi, pur rappresentando l’ideale scheletro del film, subiscono un rimaneggiamento immediato durante le riprese che è fissato nei fogli di lavoro. Quanto stabilito nei fogli è poi ulteriormente rivisto in sede di montaggio, spesso un momento di reinvenzione per Pasolini – a volte anche in negativo, a causa di autocensure preventive o di ottemperanza ai tempi imposti dall’industria cinematografica del periodo, come nel caso del taglio della scena dell’omosessuale alla fontanella o del tagliato di circa metà pellicola di Mamma Roma. I fogli di lavoro sono dei documenti stratificati, redatti da Pasolini autonomamente e però aperti a ripensamenti e consigli dei collaboratori, ad invenzioni estemporanee e a varianti macroscopiche. In generale si ha la sensazione che l’autore non finisca mai, nel corso della prassi realizzativa, di intervenire sull’opera di partenza. Le sceneggiature, letterarie nelle descrizioni e nelle note di recitazione esattamente come quelle de La Terra vista dalla Luna e di Che cosa sono le nuvole?, trovano un ideale trampolino di lancio verso le immagini. Pasolini ci mostra, d’altronde, un suo aspetto che conosciamo bene: quello del disegnatore, dello scrittore, dell’amante dell’arte che si piega per intero alle esigenze cinematografiche per trarre da loro una conoscenza e adoperarle per lo scopo che si prefige: fare un film come se lo avesse messo per intero su carta, ma trasformando la scrittura per il cinema in scrittura del cinema, l’antica passione per il disegno in un gesto funzionale a chiarire per sé e per altri l’immagine che si vuole produrre nel film. La struttura de La Terra vista dalla Luna è evidentemente ascrivibile alla fiaba. Peculiare è la scelta di costruire un doppio racconto, dove il primo è dedicato alla ricerca di Ciancicato e Baciù e il secondo si concentra invece su Assurdina e la messinscena sul Colosseo. Una scelta che si aggiunge ai numerosi cortocircuiti funzionali, in particolare il fallimento delle prove da parte degli eroi e la funzione negativa dell’oggetto magico, che emergono nel corso del racconto e ne costituiscono la principale vis comica. Questa forza è ulteriormente accresciuta dagli elementi paradossali e assurdi che caratterizzano l’intero racconto. Elementi che sono spesso ai limiti del grottesco: in particolare l’aspetto, le espressioni e i movimenti dei personaggi principali di Pedanilopoli. È il caso della scelta di riprendere principalmente il profilo destro del volto di Totò, che lo stesso attore descriveva in questi termini: «Ma la parte di destra, Gesù! Maria! che roba è? Buffa, dice lei. Senza dignità, dico io. Ah, come odio quella parte destra, quel mento! Dunque: anzitutto Totò non mi piace fisicamente». L’unica eccezione è rappresentata dal personaggio di Assurdina. L’interpretazione di Silvana Mangano si distingue per una combinazione di leggerezza e grazia: caratteristica che l’attrice risalta sia grazie alla sua corporalità, caratterizzata da un’espressione del volto severa (espressione che Pasolini avrebbe ulteriormente valorizzato ne L’Edipo re) che si contrappone al comportamento del suo personaggio, ingenuo e puro anche dopo la sua morte, e al suo aspetto (i capelli, turchesi o verdi, potrebbero essere un chiaro riferimento a un altro personaggio fantastico, la Fata dai capelli turchini de Le avventure di Pinocchio). L’ambientazione richiede un ulteriore elemento di analisi: se il racconto assume i contorni di una fiaba, lo scenario in cui si muovono i personaggi appare come una baraccopoli (forse futuristica). Pedanilopoli è quindi nettamente dissonante rispetto i fantasiosi personaggi che la abitano. Di più: la casa di Ciancicato e Baciù non è solo una povera stamberga, ma è anche un’accozzaglia di oggetti accumulati senza logica o utilità. Il riferimento alla società dei consumi che è ulteriormente avvalorato dall’incontro, se così lo si può definire, tra i due protagonisti e il manichino. I due Miao sono infatti ingannati dall’aspetto femminile del fantoccio e sono convinto del suo essere reale finché degli operai non lo portano via: la sensazione, acuita anche dal successivo comportamento con Assurdina per l’inganno al Colosseo, è che i due non siano malvagi, ma non posseggano alcuna forma di senso critico e che i loro canoni di bellezza siano massificati. Il Colosseo, idealmente un contraltare dello squallore paesaggistico e umano, è descritto come in rovina, macerie il cui unico fine è l’essere il palcoscenico di una messinscena. La miseria dei personaggi secondari, del signor Miao e di suo figlio trova un forte corrispettivo nell’aridità del paesaggio in cui si svolge l’intera vicenda: una situazione che Assurdina, a costo della sua vita, riuscirà solo in minima parte a modificare. Un ultimo appunto sul paesaggio de La Terra vista dalla Luna. L’episodio, come accennato nel primo paragrafo, dev’essere adeguatamente contestualizzato nella filmografia di Pier Paolo Pasolini. Il regista aveva già esplorato, sempre con la collaborazione di Totò e Ninetto Davoli, i labili confini che separano l’umorismo, paradossale fino al grottesco, il fantastico e il drammatico in Uccellacci e uccellini. La pellicola, penultimo lungometraggio avente per protagonista l’attore napoletano, presenta però un differente rapporto tra questi tre elementi rispetto a La Terra vista dalla Luna: in particolare, il paesaggio diviene via via più rarefatto e onirico, adeguandosi alle riflessioni del corvo. L’episodio de La Terra vista dalla luna pone un maggior accento sull’aspetto umoristico, lasciando passare in secondo piano quelle caratteristiche panoramiche che, come abbiamo visto, offrono un ulteriore piano di letture delle vicende narrate in esso. La decisione di celare questo piano di lettura è certamente dovuta a motivi di minutaggio e di coerenza verso la struttura interna de Le streghe, ma è lecito supporre che si tratti anche di una forma di reazione allo scarso successo commerciale di Uccellacci e uccellini. Leggendo la sceneggiatura di Che cosa sono le nuvole si è colpiti da come Pasolini avesse immaginato una struttura e un intreccio molto più dettagliati di quello che poi sarà effettivamente trasposto in pellicola. L’aderenza al testo originale, deducibile già dall’episodio filmico, diviene evidente. L’episodio prevedeva un numero maggiore di scene, con relativi cambi di scenografia e costumi: la camera da letto di Desdemona, Cipro e altri passaggi sono stati tagliati, probabilmente per questioni di minutaggio. Ciò che resta è la costruzione di un impianto teatrale impeccabile, soprattutto da un punto di vista linguistico: raffrontando la sceneggiatura di Che cosa sono le nuvole? con il testo dell’Otello e con altre sceneggiature cinematografiche di Pasolini è possibile notare immediatamente come l’autore abbia costruito i dialoghi, le descrizioni dei luoghi e anche le indicazioni per gli attori e gli operatori secondo i canoni della sceneggiatura teatrale e non quella cinematografica o letteraria – il tutto senza rinunciare la minuzia che contraddistingue l’opera di PPP e che abbiamo già avuto modo di visionare nel precedente capitolo. A questo elemento, è possibile addurne un altro di particolare interesse: i riferimenti pittorici e, in generale, visivi disseminati nel corso dell’episodio. Le opere di Pasolini hanno un’attenzione per la costruzione plastica e l’illustrazione visiva che trascende il medium cinematografico e deriva da una commistione tra le passioni del regista e la sua formazione giovanile: non è esagerato affermare che, in ogni suo film e in ogni suo romanzo, sia possibile ritrovare opere e altri elementi che rinviano a opere letterarie, di arti illustrative o musicali di ogni genere. Eppure, prima di Che cosa sono le nuvole?, Pasolini non aveva mai mostrato esplicitamente tali riferimenti. Come accadeva ne La Terra vista dalla Luna, questi andavano a comporre un livello di lettura più profondo. Non è possibile avanzare ipotesi realistiche sulle motivazioni che hanno spinto Pasolini a manifestare o, per così dire, porre in evidenza alcuni elementi. Però è interessante notare alcune coincidenze. Esaminiamole con cura. Nel prologo del racconto, assistiamo alla ‘nascita’ di Otello. Tra le varie domande che pone, il neonato chiede chi sia l’immondezzaro. Alla risposta di Totò segue un movimento della telecamera che, immaginando il movimento della testa di Ninetto dal basso verso l’alto, inquadra vari quadri di Diego Velazquez, posti all’ingresso del teatrino dove si sta per tenere la rappresentazione – seguendo la ripresa si riconoscono Diego de Acedo Primo, il Principe Baldassarre Carlo con un nano, il ritratto di Filippo IV in Fraga e, infine, Las Meninas, che presenta il titolo del cortometraggio in calce. Successivamente, all’interno dell’abitacolo del camion di Modugno, troveremo ironicamente appesa non un’avvenente pin-up ma la Venere allo specchio, un’altra opera sempre di Velazquez. Ritroveremo riferimenti ai dipinti di Velazquez e altri artisti moderni sia nel Decameron, in cui La fucina di Vulcano è ricreato in un tableau vivant nel quale Pasolini (che interpreta l’allievo di Giotto) si identifica nel dio acheo46, che nei successivi lungometraggi che compongo la Trilogia della vita – il secondo dei quali sarà proprio un adattamento de I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer. La scelta del pittore spagnolo e di mostrare Las Meninas non può essere ritenuta casuale. Sebbene Pasolini non abbia mai celato il proprio amore per le arti visive e una passione specifica per la pittura trecentesca, come abbiamo visto riconducibile alla sua formazione universitaria presso Roberto Longhi, è interessante notare come dei riferimenti espliciti inizino a comparire proprio a partire da questo film. «Il mio gusto cinematografico – spiegava Pasolini in un’intervista – non è di origine cinematografica, ma figurativa. Quello che ho in testa come visione, come campo visivo, sono gli affreschi di Masaccio, Giotto, che sono i pittori che amo di più, assieme a certi manieristi (ad esempio il Pontormo).  Quindi le mie immagini, quando sono in movimento, sono in movimento un po’ come se l’obiettivo si muovesse su loro sopra un quadro; concepisco sempre il fondo come il fondo di un quadro, come uno scenario, e per questo lo aggredisco sempre frontalmente. E le figure si muovono su questo fondo sempre in maniera simmetrica, per quanto è possibile: primo piano contro primo piano, panoramica di andata contro panoramica di ritorno, ritmi regolari (possibilmente ternari) di campi, ecc. » . Pasolini aveva apertamente manifestato il suo amore per l’arte pittorica a partire dal Trecento e fino al Seicento. Questa passione, frutto di studi giovanili, come abbiamo visto avrà un ruolo di primo piano nella successiva produzione filmica dell’autore e, con l’eccezione di un tableau vivant ne La ricotta e di un vago riferimento al Cristo del Mantegna in Mamma Roma, non era mai stata manifesta con tale chiarezza. Cosa rappresenta Las Meninas? Perché inquadrare proprio questo quadro e perché farlo attraverso un movimento di camera così specifico? Comincerei a rispondere a queste domande partendo dalla prima, alla quale sembra opportuno rispondere affermando che nel quadro si mette in scena «un sistema sottile di finte». Questa definizione è esposta nella dettaglia descrizione e commento della sopraccitata opera del Velazquez che apre il saggio Les mots et les choses di Michel Foucault. Il filosofo e storico francese rielabora il concetto platonico di «episteme». L’assunto da cui muove la riflessione è che tutti i periodi della storia abbiano posseduto specifiche, sottese condizioni di verità, sulle quali si costruiva ciò che era ritenuto accettabile. Inoltre, si sostiene che le condizioni del discorso si modifichino nel tempo, nel passaggio da un’episteme di un periodo ad un altro, in modo più o meno progressivo. Foucault si concentra e dimostra i parallelismi esistenti in tre campi: la linguistica, la biologia e l’economia. Scritto e pubblicato in Francia per Gallimard nel 1966, Le parole e le cose è stato tradotto da Emilio Panaitescu e pubblicato in Italia da Rizzoli nei primi mesi del 1967: è possibile che Pasolini avesse letto l’opera di Foucault? Pasolini cita espressamente il pensatore francese nel saggio La fine dell’avanguardia: «E se i «fenomeni» non possono per caso essere le grandi forme «sintagmatiche», con cui si esprime il concreto linguaggio della realtà (o la «Prosa del mondo», come suona il titolo di un nuovo libro di Foucault che non ho letto ancora)». Il saggio è stato pubblicato per la prima volta nel luglio del 1966 . Il titolo «Prosa del mondo» è un’imprecisione. Tale espressione, mutuata da Merleau-Ponty, è usata da Foucault per dar titolo al secondo capitolo de Le parole e le cose. Considerando i tempi di pubblicazione di una rivista, è possibile ipotizzare che Pasolini abbia letto Le parole e le opere pochi mesi prima della realizzazione di Che cosa sono le nuvole?, per la precisione tra la seconda metà del 1966 e l’inizio del 1967. La somiglianza (o, per meglio dire, l’opposto verso) del movimento di camera che conduce lo spettatore e Otello ad ammirare al quadro di Velazquez/manifesto è un sentito omaggio all’analisi di Foucault: «Ma occorre ridiscendere dal fondo del quadro verso la parte anteriore della scena; occorre lasciare il circuito di cui abbiamo percorso la voluta. Partendo dallo sguardo del pittore che, a sinistra, costituisce come un centro spostato, si scorge anzitutto il rovescio della tela, poi i quadri esposti con nel centro lo specchio, poi la porta aperta, poi altri quadri, dei quali una prospettiva molto scorciata lascia vedere solo le cornici nel loro spessore, infine, all’estrema destra, la finestra, o piuttosto lo squarcio attraverso cui irrompe la luce. Questa conchiglia elicoidale offre l’intero ciclo della rappresentazione: lo sguardo, la tavolozza e il pennello, la tela innocente di segni (vale a dire gli strumenti materiali della rappresentazione), i quadri, i riflessi, l’uomo reale (vale a dire la rappresentazione ultimata ma come redenta dei suoi contenuti illusori o veri che le sono giustapposti); poi la rappresentazione si scioglie: ormai se ne vedono soltanto le cornici e la luce che dall’esterno impregna i quadri, ma che questi di rimando devono ricostituire nella loro natura propria come se venisse da un altro luogo attraversando le loro cornici di legno scuro» . Il movimento della telecamera di Pasolini oltrepasserà quello di Foucault; parte fuori campo e, al suo termine, non c’è il rappresentatore (il pittore o il regista in rapporto con lo spettatore) ma la rappresentazione (il quadro o la messa in scena teatrale). Si ricrea, attraverso un medium differente, il rapporto per cui «spettatore e modello invertono le loro parti all’infinito» e, tra pittore-regista e del neonato Otello, attori-modelli raffigurati e spettatori, si costruisce «un triangolo virtuale, che definisce nel suo percorso il quadro di un quadro. Gli occhi del pittore costringono  ad entrare nel suo quadro, gli assegnano un luogo privilegiato e insieme obbligatorio», esattamente come privilegiato è lo sguardo e l’esperienza del mondo di Totò e obbligatorio è il tradimento che egli, in quanto Jago, deve compiere. Il ritorno al ruolo di Totò preme verso un’ulteriore considerazione che rinvia alle considerazioni di Foucault. Jago non è il protagonista dell’Otello. È il suo antagonista. Il personaggio descritto da Shakespeare differisce dal personaggio delineato da Pasolini. Il ‘cane spartano’, nell’Otello, rispetta alcuni dei principi fondamentali della sceneggiatura: il principio dell’antagonismo e che «un avversario è eccezionalmente bravo a colpire le più grandi debolezze dell’eroe». Jago è un’antagonista esemplare perché, mettendo in crisi l’ideale di Otello, lo spinge a compiere una scelta terribile. Questa decisione, compiuta sotto pressione, è l’effettivo tradimento della natura di Otello, dell’amore di Desdemona e dell’ammirazione degli altri personaggi ed è ciò che rende emozionante la tragedia di Shakespeare. Il personaggio pasoliniano differisce, in parte, dall’originale. Per farlo, Pasolini crea un sostrato di ‘realtà’ posto tra la tragedia dell’Otello e noi spettatori. È questo il piano in cui vivono i burattini, il burattinaio, il pubblico che assiste alla rappresentazione e l’immondezzaro. Siamo stati introdotti in questo piano da Las Meninas, un quadro al cui centro è raffigurato uno specchio. «Nella pittura olandese era consuetudine che gli specchi svolgessero una funzione di duplicazione: Vi si vedeva la medesima cosa che nella prima istanza del quadro, ma decomposta e ricomposta secondo un’altra legge. Qui lo specchio non dice nulla di ciò che già è stato detto. Eppure la sua posizione è quasi centrale:  dovrebbe pertanto essere attraversato dalle stesse linee prospettiche del quadro stesso » . Lo specchio, così analizzato da Foucault, si identifica pienamente con il personaggio di Jago burattino, che ricompone e decompone continuamente le linee prospettiche dell’Otello (e del suo personaggio). È questo suo movimento, unitamente al riconoscerlo come Totò e nonostante il registro di colore degli abiti con il quale Pasolini ce lo presenta, che cortocircuita il nostro giudizio sul personaggio Jago e consente di realizzare, anche nel cortometraggio, «la funzione reale di questo riflesso attirare all’interno del quadro ciò che gli intimamente estraneo» . Jago-Totò è così trasfigurato nel protagonista assoluto di Che cosa sono le nuvole? Infine posso dire che Paolini passando dalla raffigurazione alla rappresentazione ci ha dato opere uniche che hanno fatto la storia del cinema e principalmente della Pittura. Oggi i linguaggi sono cambiati è in parte anche Pasolini ha subito queste influenze, dalle opere esposte in mostra possiamo ammirare la bellezza della diversità di linguaggi grazie a : Lucio Afeltra, Luz Bañon, Claudio Buttignol, Virginia Bernal, Carlo De Lucia, Kraser, Manuel Pérez, Simon Ostan Simone, Cesare Serafino, Alejandro Torres, Salvador Torres, Enzo Trepiccione, Vittorio Vanacore. Durante la rassegna si prevedono, sempre nella Sala dell’Ostrichina al Fusaro  eventi e convegni sulla figura di Pier Paolo Pasolini il 6 dicembre con interventi dei proff. Nicola Magliulo ed Ernesto Salemme e quello previsto per il Finissage del 31 Gennaio 2023 con l’intervento di Dacia Maraini. Mentre il Vernissage è stato aperto con l’intervento del Prof. Giovanni Cardone Storico dell’Arte che ha avuto il piacere di raccontare la figura di Pasolini ai giovani delle scuole del territorio napoletano e campano. 
Real Casina Vanvitelliana al Fusaro di Bacoli – Napoli
Pasolini 22-22
Venerdì e Sabato dalle ore 17:00 alle ore 20:30
 Domenica dalle ore 10:00  alle ore 13:00 e dalle ore 17:00 alle ore 20:30