
La “cifra” della pittura di Piero della Francesca - è stato osservato più volte - è nella calma, nella stabilità e nella ieraticità delle figure che popolano le sue opere e che esprimono un senso intenso e solenne di sacralità.
A fronte della diffusa iconografia pittorica - e in parte statuaria - improntata a forte gestualità (si pensi, per esempio, agli affreschi di Giotto e alla
Maddalena di Donatello), gestualità oltretutto presente e come connaturata nell'espressione più spontanea delle popolazioni italiche (del saluto, della gioia, del dolore, del lutto), Piero Della Francesca oppone una rappresentazione misurata, riflessiva, calata in un'apparente “neutralità“ sentimentale, ma vigorosamente cogitante, di natura idealistica, molto più razionale che - come ci si sarebbe aspettato - spirituale.
Le sue figure, pertanto, appaiono, più che dipinte, “scolpite” nell'immobilità della statuaria più antica (egizia e greco-romana), in una dimensione di a-temporalità (intesa come attenuazione della durata del tempo), che non appartiene né all'esperienza dell'umano né all'essenza dell'eternità.
La sua pittura, dunque, se così si può dire, non illumina gli occhi del cuore; ma rischiara gli occhi della mente, un'arte a-emozionale profondamente immersa in un suo spazio-tempo, ove più consono e calmo può porsi e comporsi il dialogo dell'umano col divino. Tante e tali furono le storie intorno alle vicende della “vera Croce”- del legno cioè, sul quale sarebbe stato crocefisso Gesù - che, attraverso i secoli, avrebbero costituito una sorta di “favola mitologica”, più epopea che leggenda, tramandata oralmente, ma non solo, fino a tutto il basso medioevo.
Il compendio più riuscito di tali storie è tuttavia contenuto in una fortunatissima raccolta agiografica, scritta in latino, in trentotto anni, da Jacopo da Varazze (Genova, 1228-1298), frate domenicano e vescovo, confermato beato nel 1816 da Pio VII. L'opera, intitolata “Legenda aurea”, divenne ben presto, italianizzata, “Leggenda aurea”. Tra le tante vite di santi - ben 182 stese dal solo Jacopo - vi compaiono, intervallati e descritti, episodi attinenti alla Croce.
Il testo, ampiamente diffuso non solo in Italia, riversato in circa 1400 codici manoscritti , inferiore solo alla Bibbia, suscitò un'indubbia influenza sugli artisti fino al XVI secolo,fino a quando, con l'affermarsi degli studi storiografici più avvertiti, fu del tutto dimenticata.
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Tra i tanti artisti ad esserne rimasti suggestionati, si possono ricordare Giotto(1267-1337) (Padova,
Cappella degli Scrovegni) e Piero della Francesca (1416-1492) (Arezzo,
Basilica di San Francesco), quest'ultimo con le sue più esplicite
Storie della Vera Croce (1452-1466). Altri affreschi di pregevole fattura, comunque ispirati dalla “Legenda”, è possibile ammirare nel Coro di Santa Croce a Firenze, eseguiti da Agnolo Gaddi (1350-1396) e nella Cappella della Croce di Giorno, nella Chiesa di S. Francesco, a Volterra, per mano di Cenni di Francesco (1368-1415).
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La lettura del grande affresco, che occupa le due pareti laterali e la parete di fondo della cappella Bacci nella suddetta basilica, richiede - per una lettura sufficientemente sobria ma capace di suscitare l'emozione dell'osservatore - una giusta dose di attenzione e di predisposizione all'“ascolto” narrativo.
Prima ancora di lasciarsi prendere dalla maestosità delle immagini, dalla purezza delle forme pari alla finezza dei suoi interessi matematici e geometrici, occorre tentare una premessa di tipo “strumentale” per permettere, subito dopo, di apprezzare fino in fondo l'impegno inventivo dell'insigne artista di San Sepolcro.
Le scene sono disposte su due livelli e su due lunotte in alto della citata cappella. È impensabile, in questa sede, descrivere per intero lo stile e il contenuto di ciascuna figurazione. Ma è forse utile - per avere un'idea sommariamente completa dell'insieme - fare una preliminare sintesi descrittiva degli episodi che compongono il ciclo per poi soffermarsi su uno degli episodi più significativi e famosi.
Gli episodi rappresentati nelle Storie della Vera Croce di Piero sono:
1.- Morte di Adamo
2.- Adorazione del sacro legno e incontro Tra Salomone e la regina di Saba
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3.- Sollevamento del legno della Croce
4.- Annunciazione
5.- Sogno di Costantino
6.- Vittoria di Costantino su Massenzio
7.- Tortura dell'ebreo
8.- Ritrovamento delle tre croci e verifica della Croce
9.- Battaglia di Eraclio e Crosoe
10.- Esaltazione della croce.
1a.-
Adamo, accasciato sulla destra, con l'anziana Eva alle sue spalle, è in fin di vita. Suo figlio
Set riceve dall'
arcangelo Michele (sullo sfondo) il seme dell'
Albero della Conoscenza, che poi infila (scena centrale) in bocca al genitore morto. Dall'Albero ultrasecolare, che visse fino ai tempi di Salomone, sarà ricavato il legno per la Croce di Cristo.
2a.- La
Regina di Saba, attraversando un ponte, dopo aver riconosciuto in una trave il legno dell'albero della Conoscenza, si inginocchia ad adorarlo. Nella parte destra, in un interno, la Regina incontra il re Salomone, davanti al quale si inchina in segno di sottomissione.
3a.- La trave riconosciuta dalla
Regina di Saba viene sollevata, per essere sepolta su ordine di
Salomone, che teme sventure per il suo popolo.
4a.- Dall'alto, Dio invia l'
arcangelo Gabriele e lo
Spirito Santo per annunciare a
Maria l'incarnazione di Cristo nel suo grembo. Ella, facendo avverare in tal modo le Sacre Scritture, acconsente con un gesto,
5a.- Un angelo rivela in sogno a Costantino, addormentato nella sua tenda, il segno della croce e, a patto della sua conversione, preconizza la vittoria su Massenzio. L'Angelo gli porta una minuscola croce, simbolo dell'
In hoc signo vinces.
6a.- Battaglia di Ponte Milvio (312). Costantino mostra la Croce agli avversari, che si ritirano sconfitti.
7a.- La Croce, dopo la morte di Cristo, è stata sepolta e solo un ebreo di nome Giuda è a conoscenza di dove si trovi. Per obbligarlo a parlare
Elena lo fa calare in un pozzo, lasciandolo lì dentro fino a quando sarà disposto a parlare. La scena mostra i funzionari che lo tirano fuori strattonandolo.
8a.- La croce di Gesù e quelle dei due ladroni sono state ritrovate da Elena. Non riuscendo a capire quale possa essere quella su cui fu inchiodato Cristo, Elena le fa esporre tutte e tre sopra il cadavere di un giovane appena defunto, che risorge miracolosamente quando viene a contatto con la sacra reliquia. Elena e il suo seguito a quel punto si inginocchiano in adorazione.
9a.-
Cosroe II, re persiano della dinastia
sassanide, conquista
Gerusalemme e ruba la Vera Croce. Si fa adorare come una divinità (edicola nella parte destra) accanto al legno della Vera Croce; ma i cristiani, guidati dal re bizantino
Eraclio, lo fanno prigioniero dopo aver sconfitto il suo esercito nella
Battaglia di Ninive (dicembre
627) - nella quale muore uno dei suoi figli - e lo decapitano (gennaio
628).
10a.-
Eraclio, dopo la riconquista della Croce, la riporta, scalzo, a Gerusalemme come Cristo sulla strada del
Golgota. Fedeli convengono dalla città inginocchiandosi davanti alla sacra reliquia.
IL SOGNO DI COSTANTINO
L'affresco eleva alla più alta potenza l'arte pittorica, per tanti versi singolare e innovativa, di Piero della Francesca.
Dopo i molto probabili contatti avuti a Roma con la pittura fiamminga, si assiste qui al grande capolavoro che ha per protagonista non un personaggio, ma un elemento naturale: la luce.
Molto prima del “fotografo” Caravaggio, in quest'affresco Piero compie il miracolo primo di un “notturno“ al tempo stesso mistico e, sul piano umano, carico di sviluppi storici: da questo evento, infatti - esso stesso immerso nello stuolo di leggende che punteggiano la storia più antica dei popoli - dopo la vittoria di Costantino su Massenzio, l'ultimo difensore della paganità, il cristianesimo riceve il crisma dell'ufficialità di religione libera e ammessa al culto dei fedeli (editto di Milano, 313). Ma torniamo all'affresco.
Costantino - come il principe di Condé la notte precedente la battaglia di Rocroi o come Annibale prima di Canne - dorme, si direbbe placidamente, nella sua tenda. Lo sorvegliano due armati, l'uno di schiena l'altro di fronte. Ai piedi del letto, seduto su un piano del baldacchino, un valletto, la testa appoggiata al gomito, cattura con lo sguardo chi guarda; sguardo quest'ultimo che, per lo più, è indotto a spostarsi sulla lancia del primo armato. La lancia punta in alto sulla discesa, in picchiata, dell'angelo recante in mano un piccolo Crocefisso mostrato al dormiente. Il secondo armato rivolge la mazza verso il valletto: l'orologio dello sguardo compie in tal modo un giro completo, un periplo che attraversa stati d'immobilità pressoché assoluta (colui che, dopo la vittoria, sarà il nuovo imperatore; il valletto seduto e appoggiato al letto di Costantino, le guardie-cariatidi) e, in opposto, percorre uno stato dinamico (l'angelo messaggero planante sul padiglione da campo).
Ciò dimostra una volta di più come l'immagine “fissa” per eccellenza, quella pittorica, possa trasformarsi all'occhio dello spettatore sagace in un'illusoria ma dinamica sequenza di
flashes, che arrecano al dipinto profondità e vivezza e, all'osservatore, un indicibile godimento estetico.
Sullo sfondo, nel cielo, in una notte così “magica”, ma sul far dell'aurora, palpitano stelle appena occhieggianti, che disegnano costellazioni forse corrispondenti al tempo del sogno. Ma - come si diceva poc'anzi - per una volta non è la luna la regina della notte, ma la luce che discende dall'angelo, scorciato quanto basta per creare, in un fantasmagorico controluce, un'immagine straordinaria nella sua quasi alienità. È il famoso momento dell'
In hoc signo vinces, l'illuminazione onirica che condurrà Costantino a farsi paladino della causa cristiana, che vedrà poi con l'editto di Tessalonica (380) il suo più ufficiale riconoscimento di religione di stato.
La luce dell'angelo si propone in tal modo come una seconda stella cometa: la prima, splendente, sulla grotta di Betlemme; questa, luminosa, sulla tenda di Costantino. Sullo sfondo, le cuspidi di tante altre tende tradiscono la presenza di un esercito pronto all'imminente scontro con quello di Massenzio; ma quello, che può sembrare un malriposto riferimento alla Natività, cela, nel fondo, un'analogia rivelatrice: dentro e davanti la grotta - e qui, dentro e davanti la tenda di Costantino - dove brilla e illumina la luce celestiale è pace e, comunque, promessa e speranza di pace; intorno, un po' più lontano, a Betlemme, fremono le trame di Erode - e qui, nei pressi di Ponte Milvio - s'avvertono minacciosi i sordi frastuoni dei due eserciti contrapposti. La “vera Croce”, dopo quasi quattro secoli non ha smesso di brillare sugli occhi chiusi dell'umanità.
Le brulicanti penombre che si agitano misteriose all'interno della tenda segnano il “sorpasso” delle chiare cromie apprese dall'Angelico e da Domenico Veneziano. Ne fa altrettanta testimonianza il chiarore convesso dipinto sulla copertura del medesimo padiglione, che s'interrompe nella penombra della sottostante e scura concavità: un geniale artificio che procura a tutta la scena una profondità prospettica che cattura e orienta lo sguardo dell'osservatore.
Il fascio di luce che pervade l'insieme e che proviene dall'angelo annunziante scocca presumibilmente come un lampo nella chiaroveggenza onirica di Costantino e scolpisce geometricamente in penombra le sagome delle due guardie: l'istantaneità del lampo è arguibile dalla fascia oscura dell'ombra proiettata dall'elmo sul volto della guardia di destra.
Le
Storie della Vera Croce di Piero della Francesca non terminano con questo affresco; ma, come forse s'è desunto dal contesto, si è appena a metà del racconto; e, al pari della “Legenda aurea” così densa di episodi mitici, tirati sul filo arcano della fede impregnata di spirito medioevale, le
Storie di Piero, come sapientemente sottolinea il grande critico Roberto Longhi, condensano «un tale composto di mistica bellezza favoleggiata, di calmo epos e di storica gravità, di miracolo e di naturale, di ritmo perspicuo e di bella sintesi di forma e di colore che non si vide altrove nell'arte nostrana né di certo nella forestiera, giammai».