Giovanni Cardone
In una mia analisi sull’opera di Prisco De Vivo apro il mio saggio dicendo: Penso che l’esperienza estetica si è contraddistinta in questi ultimi anni certamente è possibile ritrovare nel multiforme panorama dell’Arte concettuale un movimento nato intorno alla metà degli anni Sessanta del Novecento con l'intenzione di spostare l’attenzione artistica dalla dimensione sensibile ed emotiva al piano concettuale. Nel fare ciò l’artista assunse un atteggiamento di tipo analitico, spostando in questo modo i procedimenti del fare artistico dal piano espressivo o rappresentativo, a quello riflessivo di ordine metalinguistico. Attraverso questo spostamento,
l’artista fu chiamato ad impegnarsi nella costruzione di un discorso sull’arte a partire proprio dal momento stesso in cui iniziava la sua produzione artistica. In aggiunta, l’investigazione concettuale, nello specifico, si servì del linguaggio come strumento indispensabile per risalire dal dato sensibile a quello astratto, dalla fisicità della cosa ai procedimenti mentali che sottendono ad essa per arrivare a comprendere ciò che sta a monte della formazione dell’arte. All’insieme di questi meticolosi processi si interessò in particolar modo Joseph Kosuth, padre dell’Arte concettuale,che si rivela essere quindi, in questo orizzonte di ricerca, una figura emblematica per comprendere l’evoluzione di tali questioni . L’artista infatti elaborò nella sua poetica un abile intreccio atto non solo a svelare la natura dell’arte, come sottolineò fin dai suoi primi scritti, ma anche a penetrare nelle dinamiche che si celano nella società contemporanea,frutto delle relazioni di potere e mercato, figlie della società capitalista, impegnandosi inoltre nel ridefinire il ruolo dell’artista, non soltanto mero esecutore ma soggetto attivo nella ricerca del significato dell’arte. In aggiunta, Joseph Kosuth elaborò un forte dissenso nei confronti di tutta quella sfera di critici e intermediari dell’arte che professavano valori autentici, a favore di un’arte alta; nonostante ciò, tuttavia, le sue riflessioni presentano nella loro essenza molteplici contraddizioni che sottolineano ambigue aderenze proprio a quel sistema che lui stesso mise in discussione sin dall’inizio della sua carriera. Tali questioni presero voce quindi a partire dai suoi primi scritti, ed in particolar modo nella vivace critica che l’artista mosse contro il formalismo del critico statunitense Clement Greenberg.
Nel 1969 Joseph Kosuth scrisse: ‘L’arte dopo la filosofia’ da qui nasce il significato dell’arte concettuale testo fondamentale per comprendere il fare dell’artista fin dai suoi primi albori. All’interno dello scritto emergono alcune questioni molto importanti riguardanti la funzione specifica dell’arte, la sua vitalità e la conoscenza più precisa del termine “Arte concettuale”. Il concetto più importante che emerge da questo scritto e che accompagnerà Kosuth in tutto il suo percorso è l’idea che l’arte sia una tautologia linguistica: in questa prima fase della sua carriera l’opera d’arte quindi non fornisce informazioni di nessun tipo sull’esperienza concreta; essa è soltanto una presentazione dell’intenzione dell’artista, ovvero una proposizione linguistica presentata nel contesto dell’arte a commento sull’arte . Solo in questo modo infatti, secondo il padre del Concettualismo, l’arte si poteva allontanare da errate supposizioni filosofiche, prendendo pertanto le distanze dalla concezione di arte formalista che era stata elaborata
dal critico Clement Greenberg per cui l’arte e l’estetica erano la stessa cosa. Infatti, l’arte e la critica formalista accettavano secondo Kosuth una definizione di arte fondata unicamente su basi morfologiche in questo modo l’arte era semplicemente decorazione e puro esercizio estetico . Agli esordi della sua carriera, infatti, l’artista concettuale considerò l’arte e l’estetica così come due categorie separate, poiché secondo il suo punto di vista l’estetica si occupava essenzialmente della percezione; quest’ultima pertanto, secondo Kosuth, rimaneva su un livello estraneo alla funzione o ragion d’essere dell’oggetto di cui invece l’arte si sarebbe dovuta occupare, ovvero l’arte stessa . È chiaro quindi come in queste affermazioni Kosuth si riferisse in modo specifico a Clement Greenberg e a tal proposito si osservi perciò la parte del testo in cui l’artista sostiene che: “ la nozione che esistesse un legame tra arte e estetica non è vera. Fino ai tempi più recenti questa idea non è mai entrata nettamente in conflitto con considerazioni artistiche, non solo in ragione delle caratteristiche morfologiche dell’arte che perpetuavano questo errore, ma anche perché le altre apparenti “funzioni” dell’arte e di raffigurare temi religiosi, ritrattistica di aristocratici, rappresentazione di particolari architettonici, ecc.. usavano l’arte per mascherare l’arte” . Da queste parole si può evincere come l’artista non riuscisse a vedere nell’estetica una via per conoscere la funzione dell’arte, a meno che, così come egli sottolineò in un passo successivo, la ricerca non seguisse le orme tracciate da Greenberg, ovvero qualora essa si fosse rivolta soltanto agli aspetti percettivi dell’arte, che Kosuth considerava meramente estrinseci. In quel caso però l’indagine sulla funzione e sulla definizione si sarebbe comunque basata soltanto ed esclusivamente sulla morfologia senza accedere a un significato più profondo. Alla luce di ciò, a parere dell’artista, la
critica formalista promossa da Greenberg non era in grado di aggiungere una nuova conoscenza alla comprensione della natura o funzione dell’arte, poiché si distingueva esclusivamente per essere un’analisi accurata degli attributi fisici degli oggetti che casualmente venivano posti in un certo contesto morfologico. Su questa scia quindi l’arte si poteva definire tale solo in virtù della sua rassomiglianza alla forma e a opere d’arte più antiche appartenenti al passato. Quanto sostenuto dal padre del concettualismo giunge a noi in tutta la sua forza e influenza, e proprio per questo risulta necessario osservare con più precisione ciò che venne messo in luce nel testo preso in considerazione. Infatti, tali affermazioni acquistano pienamente senso solo se relazionate in maniera opportuna con quei punti focali attorno a cui l’artista fa ruotare l’evoluzione della sua riflessione, cioè la discussione sulla natura dell’arte e sul ruolo dell’artista. A questo riguardo, fin dai suoi primi scritti,
Kosuth affermò che essere un artista significava mettere in discussione la natura dell’arte poiché solo attraverso ciò si poteva arrivare a comprendere la sua funzione. Gli artisti dovrebbero quindi adempiere a questo compito,sebbene i critici e gli artisti formalisti non fossero a suo modo di vedere assolutamente in grado di calarsi in questi aspetti cruciali per la ricerca artistica. Essi infatti, a suo parere, sceglievano quali lavori si potevano considerare arte e quali invece no, soltanto attraverso la forza della loro autorità aderente al sistema. Nella prospettiva concettuale invece l’opera di Marcel Duchamp che rappresentava un importante esempio di cambiamento della natura dell’arte poiché con l’avvento del ready made si passò dalla mera questione morfologica alla questione funzionale portando quindi a compimento quel passaggio essenziale dall’apparenza delle cose alla loro concezione . Inoltre, per comprendere il concetto di tautologia promosso da Joseph Kosuth è necessario osservare alcune questioni importanti che si legano agli intrecci che corrono tra l’arte e l’universo del linguaggio. L’artista, all’inizio della sua carriera, sostenne, esplicitandolo poi chiaramente nelle sue prime opere, che l’arte sarebbe composta da un insieme di proposizioni analitiche nella forma di tautologie in cui l’arte è sia il soggetto che l’oggetto della predicazione, che possono trovare il loro senso solo e unicamente nel contesto dell’arte stessa, lontano dai dati concreti dell’esperienza. Il prodotto artistico poteva essere concepito come una tautologia: l’idea che l’arte consista in una proposizione sull’arte medesima portava con sé l’assunto che si potesse valutare qualcosa come arte senza uscire dal contesto artistico. Secondo questo meccanismo l’arte quindi non avrebbe niente a che vedere con l’esperienza e le sue infinite sfaccettature, in particolare con l’esperienza percettiva,poiché la validità delle proposizioni costituenti l’arte non deriverebbe da presupposti empirici o fattuali ma linguistici, che possono essere ricondotti a logiche esatte e definite. Tuttavia, affermare ciò significava chiudere l’arte in un sistema vero a priori, evidenziando come la verità dell’oggetto dell’arte fosse astratta e lontana da ogni implicazione ricettiva e di percezione . Tutto ciò, se visto in una prima e sfocata luce,potrebbe apparire chiaro e privo di dubbi; tuttavia,confrontando le prime affermazioni risolute dell’artista con la critica alle tesi promosse da Clement Greenberg, insieme al contesto culturale che portò Kosuth all’elaborazione di tali considerazioni, la prima impressione tende a mutare fino ad assumere i toni divergenti di una interpretazione più complessa e sfaccettata.
Infatti, affermare che l’arte si possa ridurre soltanto a pure idee e contenuti mentali, nei quali ciò che conta è soltanto il linguaggio che li esprime e quindi rinunciare ad un’arte che sia anche emozione e partecipazione -, era in verità una scelta precisa per criticare il sistema dell’arte del tempo e i modelli di sviluppo proposti dal consumismo di origine capitalista. Tutto ciò aveva chiari legami con motivazioni sociali e politiche poiché negando o minimizzando il prodotto consumistico si voleva delegittimare anche la società capitalista che l’aveva concepito. La voce di Kosuth, quindi, deve essere inserita in questo preciso contesto, che si mostra a noi come un quadro drammatico in cui gli artisti concettuali anziché dipingere prospettive nuove e alternative alla realtà cercarono di annullare l’oggetto stesso dell’arte con l’illusione che ogni espressione artistica sarebbe potuta nascere e morire soltanto nella mente di chi l’aveva concepita . Inoltre, il movimento dell’Arte concettuale e quanto sottolineato da Joseph Kosuth, fu determinante per comprendere una questione aperta tutt’oggi sul rapporto tra l’opera d’arte e i contesti istituzionali che accolgono e legittimano la produzione artistica. Il movimento, infatti, nel suo procedere,riuscì a porre un’attenzione specifica sulla modifica dello statuto dell’oggetto artistico, sul rimodellamento delle strategie espositive e sulla ridefinizione del rapporto tra arte, critica e informazione. Fu probabilmente proprio per il fatto che gli artisti toccarono tematiche così delicate che non furono accettati fin da subito dalla critica dominante, proprio come sottolineato da uno scritto di Kosuth comparso nella rivista The Fox nel 1975. Secondo l’artista, infatti, la gang di Greenberg era piuttosto scettica verso i nuovi artisti degli anni Sessanta e inizi Settanta non inquadrabili con la loro produzione nella continuità della storia che era invece tanto cara ai formalisti. La distanza tra Arte concettuale e formalismo fu caratterizzata da svariati fattori, le differenze furono notevoli. Tuttavia, si possono rintracciare connessioni, influenze e relazioni tra quanto sostenuto da Kosuth con la sua idea di arte come tautologia e il formalismo di Greenberg. Infatti, il critico d’arte statunitense, così come l’artista concettuale, si interessò allo statuto epistemologico della natura dell’arte indicando tuttavia un approccio differente da quello concettuale, che doveva essere rivolto alla ricerca sul mezzo artistico piuttosto che sui concetti.
Nonostante ciò, anche Greenberg considerò la tendenza all’astrazione un carattere distintivo dell’arte nonché un passaggio necessario per l’evolversi della riflessione sul fare artistico. Alla luce di ciò, la funzionalità dell’arte era connessa alla riflessione sul medium poiché era proprio tramite questo, secondo il critico, che era possibile individuare la specificità e l’identità dell’arte stessa. Tali considerazioni si inserirono in una cornice che dava loro senso poiché orientata verso l’idea che potessero esistere dei valori oggettivi e definitori nel campo artistico, ciò quindi legittimava la volontà di eliminare da ogni disciplina artistica tutti gli effetti che non le appartenevano per essenza. Ho incontrato tantissime volte nel suo studio Prisco De Vivo e li si percepisce l’energia, la ricerca e la sperimentazione che descrive ha pieno la sua personalità di artista. Da sempre la pittura di Prisco De Vivo oscilla vertiginosamente tra una figurazione sottilmente raffinata e arte di “ Pensiero” energica e gestuale, tra vaghi richiami a Francis Bacon o a Giacometti e consapevoli riferimenti Edurd Munch, Egon Schiele, fino ad arrivare ad El Greco ed in particolar modo Jusepe De Ribera (Lo Spagnoletto), dove li ammirati al Museo di Capodimonte, fin dalla sua fanciullezza. Coincidentia Oppositorum le opere di Prisco De Vivo sono una ridda ubriacante di ossimori, di coerenti contraddizioni: sono immobili tempeste, sono lampi di tenebra fatti di materia spirituale, sono funambolici giochi da tavolo di disequilibrato equilibrio, criptiche rivelazioni di un caos ordinato, superfici tridimensionali di levigata scabrosità, arcaiche narrazioni contemporanee, apollinee composizioni dionisiache, ricche, colte e preziose opere di semplice e disarmante povertà. La forza primigenia e raffinata che promana da queste opere derivano proprio dall'innata capacità dell’artista di conciliare gli opposti.
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Non è poi casuale se molte opere sono state ispirate alla filosofia che diviene parole e immagine, poiché appare evidente che ogni qualvolta un quadro viene costruito sull'inquieto equilibrio tra Luce e Tenebra, Ordine e Caos, Forma e Materia informe, ebbene in tutti questi casi non è possibile non pensare a risvolti di tipo cosmogonico. Anche quando il titolo dei quadri parrebbe suggerirci altri orizzonti interpretativi. Anche se non tutte le opere Prisco De Vivo hanno espliciti riferimenti alla filosofia, quasi sempre dinnanzi ad uno di questi ci viene da pensare a quei momenti cruciali nella storia dell'Universo in cui la Luce è stata separata dalle Tenebre, le Terre dai Mari. Momenti che mitologie e religioni di tutti i tempi e in tutti i luoghi hanno raccontato molto spesso con immagini ed espressioni molto simili e che forse rappresentano un comune retaggio, profondo ed arcano dell'umana esperienza.
Ma forse nel Macrocosmo si rispecchia il Microcosmo. Forse le cosmogonie raccontano, metaforicamente, soggettive, psicologiche ontogenesi. Forse dietro il conflitto tra la Luce e la Tenebra, tra il Cosmo e il Caos, si cela quello tra il Conscio e l’Inconscio e la nascita del mondo simboleggia la nascita del soggetto. Nell’opera dedicata a Nietzsche parrebbero esplicitare proprio questo aspetto, questa ulteriore chiave di lettura. Ed allora possiamo interpretare sotto una diversa luce il difficile, complesso, conflittuale rapporto tra la Materia allo stato puro, indistinto indifferenziato e la Forma che cerca disperatamente di emergere, di imporsi, di imporre il proprio sigillo di razionalità (o quanto meno di ragionevolezza) sull’eterna rivale: un rapporto tanto dialettico e necessario quanto problematico e violento. Nello scontro ineluttabile tra la Forma e l’Informe, spesso i confini tra aggressore e aggredito si confondono, i ruoli si rovesciano a ripetizione, così rapidamente che talvolta capita di smarrirsi e di non distinguere più l’una cosa dall’altra. Le opere di Prisco De Vivo raccontano anche questo: quanto labile sia il confine che separa il Soggetto dall’Oggetto, l’Uomo dal Mondo che lo circonda. E quanto difficile, e doloroso, e per nulla certo, sia il processo di auto-definizione e non ci mostrano l’esito di questo titanico scontro, quanto piuttosto una fase, nel vivo del combattimento. Così colori e materiali che scompongono e ricompongono il piano narrativo appaiono come una vera e propria raffigurazione delle linee di forza e dei campi di energia che si sprigionano nel corso di questi eventi di autentica ontogenesi dell’Io. Ontogenesi che rappresenta il primo, vero contenuto di queste opere. Quello a cui assistiamo, dunque, per quanto violento, brutale, o anche solo essenziale, possa sembrarci è, in definitiva, un lieto evento, nel senso comune della parola: vale a dire una nascita. La nascita di un Soggetto: sia esso un pensiero, un individuo, un personaggio mitico o una creatura degli abissi della psiche. In altre parole si potrebbe descrivere tale processo creativo come un conflitto tra la Coscienza e l’Inconscio: come l’impellente ‘ma impossibile’ tentativo della parte solare dell’Io di rendere conto delle sue parti più oscure e irriducibili. Ecco, proprio in questo è il valore, l’apporto di conoscenza, la scoperta di De Vivo la scoperta dell’irriducibilità dell’Informe, dell’impossibilità di piegare completamente l’Irrazionale alle ragioni della Ragione. E viceversa. Perché se è vero che “il cuore ha delle ragioni che la ragione ignora”’ Blaise Pascal è altrettanto vero che spesso (quasi sempre) “c’è del metodo nella nostra follia. Volevo evidenziare infine questo rapporto tra l’opera di Prisco De Vivo e quella di Carlo Alfano un grande maestro che ha lasciato una traccia indelebile nella storia dell’arte contemporanea, Prisco De Vivo da un quindicennio segue il suo percorso dando una sua visione, una sua ricerca e una rinnovata sperimentazione. Guardando questo ultimo progetto di Prisco De Vivo penso che come disse lo studioso tedesco Lessing il quale porta avanti una teoria che vuole, per la prima volta, attraverso la distinzione fra le arti, rintracciare un sistema estetico e una guida tecnica “basati sul riconoscimento della ‘pluralità’ dell’esperienza estetica intesa come un processo cui fanno capo fattori eterogenei anche extrartistici o addirittura extralinguistici”. L’esperienza estetica, secondo Lessing, non può più limitarsi al mero concetto di bellezza, ma deve anche coinvolgere la conoscenza sensibile e il soggetto nella sua totalità, vale a dire la conoscenza intellettuale.
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Non a caso nelle sue argomentazioni, rende partecipi tutti i sensi, dall’olfatto al gusto, dalla vista al tatto, riuscendo perfino a parlare di ‘estetica del brutto’, categoria che dopo il
Laokoon otterrà diritto di cittadinanza nell’estetica tedesca con esiti teorici, ma soprattutto artistici, di portata incalcolabile. Ma è l’aspetto ‘semiotico’ quello che più ci interessa indagare il quale ci riporta immediatamente al sottotitolo del testo, che evidenzia gli aspetti più innovativi dello studio di Lessing,
Über die Grenzen der Malerei und Poesie: sono infatti i limiti, o meglio i ‘confini’, tra le due arti il vero
ductus argomentativo dell’indagine lessinghiana. Leggendo Lessing certamente si prende le distanze dall’atteggiamento di coloro che hanno deliberatamente rintracciato negli scritti
dei classici greci e latini ‘dottrine’ valide a supportare i propri fini estetici. Ma noi moderni abbiamo creduto in molti casi di averli di gran lunga superati, trasformando i loro angusti viottoli in strade maestre; per quanto anche le più brevi e sicure strade maestre si possano ridurre in sentieri che conducono per luoghi incolti. La sfolgorante antitesi del Voltaire greco secondo cui la pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura parlante, non stava certo in un trattato. Era una di quelle idee che venivano in mente spesso a Simonide, la cui verità è talmente evidente che crediamo di dover trascurare l’inesattezza e la falsità che l’accompagnano. Nondimeno tutto ciò non sfuggì agli antichi. Lessing diversamente da Winckelmann, non è tanto interessato al complesso statuario e ai suoi aspetti archeologici egli piuttosto rivolge la sua attenzione a questioni di teoria della pittura. E quello che fa Prisco De Vivo con la sua ricerca e con il suo linguaggio cerca di descrive un mondo dove anima e corpo e vita e morte sono la stessa cosa. Ma essendo egli un’artista contemporaneo tende ha denunciare le discrasie di un mondo senza morale, dove l’angoscia e la paura sono il tema portante della nostra società contemporanea ma il compito dell’artista attraverso la sua ricerca è di innovare il messaggio fatto di parola e immagini . Ecco perché egli in parte si rifà ad uno dei punti di forza dell’argomentazione lessinghiana relativa al Laocoonte e dunque alla differenza di rappresentazione dell’arte , che è relativa a quello che lo studioso definisce ‘einzigen Augenblick’ il momento pregnante, che, come vedremo, ritornerà anche nelle teorie sull’
ékphrasis. Nelle opere di Prisco De Vivo si percepisce il forte messaggio che ha determinato l’eclettismo dell’artista che determina attraverso la sua arte lo spazio, per condensare i passaggi temporali di una vicenda, e riassumere in sé il passato, il presente e il futuro. L’arte esprime come sempre una elevata tensione spirituale alla base di tutto questo vi è il ‘sentimento’ che ritroviamo nelle opere dell’artista, che sono un’insieme universale della condizione umana, della realtà, in forme concettuali ideate dall’artista che tende di unire anche altri linguaggi e metodi espressivi. L’aspetto interpersonale che assume oggi il racconto fa si che l’arte divenga messaggio universale. Le opere di Prisco De Vivo si nutrano senza volerlo di quell’esigenza di non annullare l’arte ma di attuare in parte un nuovo pensiero essendo egli è un’artista che tende di decantare un epoca dove i valori morali sono ormai perduti, ad un tempo però narra dell’amore universale.
Ecco perché nelle sue opere la caratteristica principale è l’accumulo di significati. Una pluralità che va di pari passo con la variabile disseminazione di segni, immagini, figure mescolati in un magma che trova proprio nella complessità la sua giustificazione operativa. Per produrre questo effetto di spessore l’artista adotta una tecnica particolare, con materiali diversi magistralmente amalgamati, talora rappresi talaltro distesi, e sovrapposti.

Tutto questo lo si può definire l’incontro- scontro tra essere e divenire dove il segno ed il colore per alcuni aspetti sono alle base del linguaggio dove l’artista si rifà principalmente al segno e al gesto che gli permettono di dare forza al suo messaggio. Questo succede inconsapevolmente nelle opere di Prisco De Vivo che ha saputo coinvolgere lo spettatore facendo si che l’opera divenisse unica e in parte riconoscibile dove gli estratti dalle apparenze quotidiane, si mescolano ad ectoplasmi misteriosi, fantasmi della memoria, riferimenti onirici. Le opere descrivono in pieno i contenuti dell’artista che in parte si rifà ad un percorso concettuale per far si che tutti possono entrare nel suo mondo che è tormentato da pensieri e azioni che fanno parte di una società dove regna l’incertezza, l’ambiguità dei significati che non sono fuorvianti, ma generano un seguito di suggestioni che costituiscono proprio la principale connotazione della ricerca di Prisco De Vivo, i lavori attuali dell’artista raccontano una nuova e interessante fase di semplificazione, o meglio di aggregazione descrittiva che suggerisce un più ampio campo d’ispirazione, tematiche contigue alle immagini, alla forma allo spazio che narrano per alcuni aspetti il ‘degrado’ culturale della nostra società contemporanea . Sembrano infatti ricollegarsi a quelle esperienze fondamentali che fanno si che le composizioni evidenziano quelle eccedenze segniche che si attenuano per isolare spazi vuoti, fondali monocromi in cui galleggiano pochi elementi figurativi dalle evidenti allusioni astrali. Si direbbe che l’artista, dopo tante calate nei recessi della coscienza individuale, voglia interrogarsi sul cammino di ognuno e quindi saggiare panorami più vasti di quelli introspettivi, porre in campo simboli di valore universale. Grazie all’operato artistico- culturale di Prisco De Vivo volevo citare due Filosofi contemporanei Aldo Masullo ed Emanuele Severino:
Aldo Masullo amava citare una frase che nell’ultimo periodo diceva ai giovani tratta da Giambattista Vico dalla quarta lezione : “ Il Mondo è ancora giovane e ci devono essere ancora tante scoperte aspetta solo voi” questa era la grandezza di Masullo parlare di Vico e di Bruno ma nel contempo farli divenire contemporanei. In una delle tante presentazioni che faceva su Giordano Bruno spiegò con grande semplicità che cosa significasse essere Bruniani cioè coloro che studiano Bruno, poi c’erano i Brunisti quelli che studiavano Bruno perché erano curiosi del grande filosofo e molte volte erano migliori dei bruniani, poi c’erano i giordanisti questi sono i fanatici di Bruno tutti i napoletani sono chi più e chi meno tifosi di questo grande filosofo. Mentre Emanuele Severino diceva : “Ebbene per tentare una rifondazione del senso dell'arte non più come espressione del nichilismo e della conseguente volontà di potenza, bisogna riconsiderare il senso autentico dell'essere, la sua struttura originaria, mostrando che nel suo originario significato, che viene esposto da Parmenide, è inclusa la totalità dell’essente che entra nell’apparire. Quindi, bisogna ritornare a Parmenide, ma per andare oltre Paramede e quindi bisogna tracciare la via che Severino già nella sua prima grande opera “La struttura originaria”, indica come la via del giorno, la via in cui l'essere, la totalità dell'essere, è ed è impossibile che non sia”. Attraverso le parole di questi due grandi filosofi contemporanei Prisco De Vivo con le sue opere vuole farci riflettere sul destino comune ecco perché coinvolge il fruitore comunicando il proprio pensiero a chi lo riceve, oppure a chi è disponibile a farlo divenire proprio. Riprendendo infine le parole dell’artista tratte dall’intervista di Rosaria Ragni Licinio: I “Reperti" sono la testimonianza tangibile, di un vissuto non solo filosofico, ma fisico e spirituale. Il pensiero per esempio può diventare una stratificazione di tracce e di materie… io con molta umiltà ho pensato di indagare come un provetto investigatore visivo. A tal proposito mi viene in mente una vecchia intervista di Antonio Gnoli, per il filosofo
Manlio Sgalambro, apparsa su La Repubblica più di venti anni fa; Gnoli esordiva così: “... Ad un certo punto nei suoi versi compare anche l'investigatore Marlowe. Ci stupisca Sgalambro.” L'aspro filosofo a proposito di Nietzsche e del suo libretto " Per versi e voce" a lui dedicato, diceva: “Mi hanno passato delle carte di un tale Nietzsche, il nominato avrebbe commesso e commissionato un numero imprecisato di delitti…. Mi hanno incaricato, ho indagato, ecco il risultato". Ebbene il mio atteggiamento è meno ironico sicuramente, in quanto artista visivo, ma è davvero vicino a Sgalambro: cerco di applicare la sua stessa metodologia. Per la definizione, invece, di "Imperdonabili" mi sono rifatto semplicemente ad una grande poetessa italiana, Cristina Campo, che con uno dei suoi più importanti saggi “Gli imperdonabili" mette in evidenza la bellezza e la pericolosità di certi pensatori. La mia non vuol essere una classificazione di certi autori filosofici, ma cerca di definire un contenitore senza forma, che cattura menti eccelse, il loro tempo, il loro vissuto, le loro idee, quelle idee, che hanno attraversato anche il mio cammino.
marzo 2022