la_grande_bellezza_paolo_sorrentinoLa grande bellezza sfiora ma non centra il bersaglio. Ci gira intorno ma, come il lanciatore di coltelli di una scena del film, non colpisce alla figura. Ne disegna il contorno, e se il sangue blu che cola dal pannello dove si sono conficcati i coltelli non può che essere posticcio non è un caso: il film, senza volerlo, è posticcio come i finti nobili che si danno in affitto per conferire dignità alle cene, fasullo come il finto sangue blu che si addensa sul pavimento.


L’ultimo film di Paolo Sorrentino arriva sugli schermi con circa quarant’anni di ritardo. Se non di più. Pretenzioso e presuntuoso, ambizioso, vacuo e affabulante: come il suo protagonista, Jep Gambardella, La grande bellezza si dispone, con scarso senso della misura, sul piatto di una bilancia che vede, nell’altro, niente di meno, La dolce vita, Roma e Satyriconla trilogia romana di Fellini. Ma non solo.
Gambardella (il solito Servillo, la cui bravura è ormai implicita nel personaggio cui di volta in volta dà voce e volto) sembra il fratello minore di Massimo De Luca, il protagonista di Ferito a morte, romanzo di Raffaele La Capria del 1961 (quindi quasi coevo della Dolce vita), con il quale condivide l’humus dell’alta borghesia napoletana, ironica, infantile, inconcludente e languida, il bagno a Nisida e un lontano amore idealizzato (la ragazza in questione ci viene mostrata solo attraverso un flash back rarefatto e deludente, localizzato suppergiù nello stesso specchio d’acqua dove Massimo era stato folgorato dalla sua Carla Boursier).
Gambardella voleva fare lo scrittore, ha finito per fare il giornalista di costume. E’ il re delle feste della becera borghesia romana, trucida, volgare, pacchiana, non ancora (forse non più) arrostita nei suoi falò delle vanità, in una città chissà se eterna, di sicuro eterea, invisibile, scarnificata. La scelta di Sorrentino di svuotarla, di renderla una scenografia immota e distratta enfatizza i ruoli delle maschere tragicomiche che la attraversano, avvitati nei loro cliché abusati su cui si imbastiscono storie insignificanti, che purtroppo lasciano lo spettatore altrettanto impassibile, non partecipe e non coinvolto. Sembra che ad abitare Roma non vi siano rimaste altro che suore e squallide anime in pena. Appare piuttosto paradossale che in un film corale come questo la città che sembra essere lo sfondo iconico e metaforico si limiti ad essere  rappresentata da un insieme così ristretto e conchiuso, come se non potesse contenere altro da sé: che si tratti di nobiltà decaduta o, come si diceva, fasulla; che si tratti di intellettualoidi di sinistra pieni di ideali ma anche di cospicui conti in banca cresciuti sotto le ali protettive del “Partito”, di velleitari aspiranti drammaturghi (Carlo Verdone), spogliarelliste fuori tempo massimo (Sabrina Ferilli): il circo ha i suoi attori e non c’è spazio per nessun altro. Mancano i politici. Forse per non scadere nel facile Fioritismo, ma la lacuna è assai bizzarra, in verità. Risultato: i personaggi appaiono scheletri, privati dell’ossigeno, a due dimensioni.

Questa desertificazione di Roma sembra alla fine far perdere di vista il quadro d’insieme. E’ tutta qui la banda del buco (culturale, esistenziale, etico)? Sono i millantatori dell’arte contemporanea, o del teatro d’avanguardia i responsabili? (non lo erano già quarant’anni fa? bersaglio facile. O, appunto, bersaglio mancato). Sono queste macchiette senz’anima, replicanti dei destini degli altri, i colpevoli? La borghesia della sniffata casual o del trenino sulle note di Brigittebardò-bardò?
Gambardella vorrebbe elevarsi, è in cerca d’ispirazione, di bellezza, di redenzione. Ancora?! Via Veneto si è svuotata, è una striscia d’asfalto grigia e spenta, ma Gambardella è ancora lì, da cinquant’anni, ha cambiato nome, ma è sempre lui: lo snob vanaglorioso, lucido e autoindulgente che attraversa Roma nei suoi vestiti chiari di lino e le scarpe costose. E’ lui l’ancora di salvezza? Possiamo affidare a lui le nostre speranze? O nella vecchia suora incartapecorita Madre Teresa-style che suggerisce la via di sacrificio e annientamento di sé per raggiungere la perfezione? Né nel primo né nella seconda, né nella coppia “normale” che va a letto alle dieci e mezza dopo aver sbrigato le faccende domestiche (ci mancherebbe altro). Chissà, forse nella domestica sudamericana.
Quello che nel film è assente (o solamente accennata) fra un’apparizione metafisica di cicogne e bambini e suorine che giocano innocenti nei chiostri dei conventi dalle parti del Colosseo (su cui affaccia la terrazza di Gambardella),  è proprio la Roma davvero cialtrona e perfida. I personaggi sono  insulsi, ma manca la cattiveria e l’orrore, di sé, degli altri e del mondo. Le riflessioni esistenziali sono livellate su un registro medio che non permette né di indignarsi né di condividere. Se Sorrentino decide di lavorare la trama del racconto su un piano meramente orizzontale (la crescita del protagonista, la sua presa di coscienza in cerca di riscatto è detta, ma non veicolata da un robusto tessuto narrativo) dietro al quale dovremmo/vorremmo essere precipitati nella stanca amarezza del vivere per sperimentarla e sfruttarne la reazione catartica, le conseguenze sono invece di ritrovarsi ad inseguire i personaggi nelle loro inconsistenti ripetizioni di canovacci logori (la logorrea radical-chic de La terrazza di Ettore Scola alla fine è il riferimento più conforme – ancora con i radical-chic?!).
Questo livello medio alla fine lascia il sospetto che sia proprio l’obiettivo inconfessato dell’operazione: il pubblico, il grande pubblico, alla fine forse finisce addirittura per apprezzare, identificandosi non nel drammaturgo sfigato, ma in “carloverdone”, non nella spogliarellista malata, ma in “sabrinaferilli”, che riconosce come compagni di strada della nostra stagione televisiva, mutilata e offesa, ma innocentemente mediocre.
Flaiano, Fellini, perfino Ettore Scola, Age e Scarpelli: dove siete?
Ezio Tarantino, 28/0572013

LA GRANDE BELLEZZA

di Paolo Sorrentino.
Con Toni Servillo, Carlo Verdone, Carlo Buccirosso, Sabrina Ferilli, Pamela Villoresi, Iaia Forte, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari.
durata 150 min. - Italia, Francia 2013.