La giovane Margherita, popolarmente nota come la “Fornarina”, si direbbe che, per questo ritratto e per compiacere al suo amante, si sia messa in ghingheri, sfoggiando il gran pavese di un’eleganza a cui parrebbe naturalmente predestinata e, con ciò, fornendo al “pennello divino” l’estro della realizzazione di un capolavoro inarrivabile. Non si fa qui di proposito menzione di ogni altra ipotesi circa la vera identità della donzella: non si vuole disturbare con questioni in fondo marginali ciò che invece colpisce l’osservatore alla vista d’una immagine siffatta. E succede già, al primo sguardo aperto sul dipinto, che tutt’intorno si faccia silenzio: si affievoliscono fino ad estinguersi le “voci” della quotidianità, ed Ella si appalesa furtivamente unica nel suo fulgore, apice di una dipintura suprema, capace di conferire magnificenza al reale e sublimarlo in visioni di fascino raro ed esultante; tanto da far esclamare al Vasari “…
e di quella fece un ritratto bellissimo che pareva viva viva”.

Ma alla Fornarina non si addice il silenzio e, infatti, da un accesso invisibile nel quadro, filtrano all’improvviso le note di una
frottola, che fa lievemente increspare le labbra a lei ch’è in posa. A farle letizia s’è levata una voce solista scortata dal suono d’un liuto:
“El grillo è bon cantore / che tiene longo verso / Dale beve grillo canta / El grillo è bon cantore ! Ma non fa come li altri uccelli / Come li han canytato un poco / Van’ de fatto in altro loco / Sempre el grillo sta pur saldo / Quando la maggio el caldo / Alhor canta sol per amore”.
L’urbinate è a buon punto del lavoro sull’opera, anzi, quasi al termine. Gli resta solo da impreziosire il ritratto della sua amata con il sigillo d’una spilla tra i capelli: un gioiello incastonato, un pendente, composto da un rubino quadrato, uno zaffiro ed una perla. Ma forse non basta; infatti lo scollo di lei appare come una spianata deserta e su questa, allora, s’ingegna da ultimo a farvi scorrere intorno una collana di perle ambrate incastonate nell’oro.
L’occhio di Raffaello, mai appagato, indugia ancora sulla creatura dipinta, che, non guardinga e maliziosamente complice, gli si offre alla fine nella sua appena scorciata ed elegantissima postura. La composizione, compresa in una sorta di mandorla cuspidata, riecheggia inevitabilmente quella, precorritrice, della
Monna di Leonardo: stesso scorcio appena voltato di tre quarti, stesso sguardo che intercetta, come invaghito, quello dell’osservatore. Il volto, perfetto nella sua rosea ovalità, incorniciato da una capigliatura scura e smagliante, non riesce tuttavia a celare, neanche qui, le tracce del magistero vinciano: la dice lunga il perfetto sfumato intorno agli occhioni dalle pupille nerissime e nelle fossettine a margine della bocca. Un velo di lino, prerogativa delle donne sposate e con prole (ma qui riprodotto per più alti intendimenti, che non escludono il legame coi più titolati lignaggi delle nobildonne e, addirittura, con lo stesso velo presente sul capo delle tante raffigurazioni della Vergine), svolge un duplice compito: separa a mo’ di “tenda”, ponendola in più evidente rilievo, la mezza figura della giovane dallo sfondo scuro e, nello stesso tempo, “costringe” lo sguardo dell’osservatore a fissarsi via via, in discesa, sulla luminosità del volto, dello scollato e, attraverso pieghe, sbuffi e crespe, sulla baroccheggiante manica sinistra.

Qui anche l’occhio più critico “sbanda” nel cercare di porre a confronto la “beltà” del viso della velata con il disegno e la fattura da capogiro di codesta manica, non riscontrabili, forse, neppure nella veste fiorita della giovane e botticelliana
“Primavera”. E il nesso è d’obbligo, in questo caso, con un’altra pressoché contemporanea manica di genere maschile, quella, villosa, del
“Ritratto di Baldassare Castiglione”; e il
link si giustifica per sottolineare, anche in questa circostanza, la suprema qualità della riproduzione artistica dell’urbinate.
Il virtuosismo pittorico di Raffaello raggiunge nella “
Velata” le vette più eccelse, che specialmente si distingue per l’uso altrettanto geniale del cromatismo, sciolto in questa tela soprattutto nelle tinte calde dell’ocra e dell’avorio, lasciando al bianco di fondersi, a seconda dell’altezza degli sbuffi e della profondità delle pieghe, nelle “luci” più o meno spiccate del bianco; tinte che vengono, tuttavia, marcate, nelle rifiniture dell’abito, dal regale color oro.
C’è, per concludere questo incontro ravvicinato con la
Velata, un ultimo, imper-dibile e gustoso particolare. Si osservi la tempia sinistra della giovane e si scorgerà un refolo sbarazzino di capelli (è stato indicato, alla maniera dantesca, come il “cirro negletto”), che si affranca dalla massa ordinata della capigliatura e, come un leggiadro tirabacio, scende vezzoso fin quasi a lambire il lobo dell’orecchio.
Raffaello il Magnifico è anche questo, capace di trasfondere le minute “cose” umane in sortilegi di sovrastante e prezioso incanto e le sublimi “cose” divine in accessibili e “umane” visioni.
Luigi Musacchio febbraio 2021
fig. 1 Raffaello autoritratto, Firenze Galleria degli Uffizi 1506 circa
fig. 2 Raffaello, La Velata, 1515 Firenze Palazzo Pitti