Giovanni Cardone Aprile 2023
Fino al 25 Giugno si potrà ammirare al Palazzo Roverella Rovigo la mostra Renoir. L’alba di un nuovo classicismo a cura di Paolo Bolpagni. L’esposizione è promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi con il sostegno di Intesa Sanpaolo e la produzione di Silvana Editoriale. In mostra ben quarantasette opere di Renoir, provenienti da musei francesi, austriaci, svizzeri, italiani, tedeschi, danesi, olandesi e del Principato di Monaco (anche un capolavoro di proprietà personale del principe Alberto di Monaco, la “Baigneuse s’arrangeant les cheveux” del 1890 circa). Accanto alle opere di Renoir, sono esposti i capolavori dei grandi maestri dell’arte del passato cui egli s’ispirò nella fase matura della sua carriera: Vittore Carpaccio, Tiziano, Romanino, Peter Paul Rubens, Giambattista Tiepolo, Jean-Auguste-Dominique Ingres, ma anche di suoi contemporanei come lo scultore Aristide Maillol e gli “italiens de Paris” Giovanni Boldini, Giuseppe De Nittis, Federico Zandomeneghi e Medardo Rosso. Inoltre, a evidenziare possibili e spesso insospettabili confronti con artisti italiani di una o due generazioni successive, i dipinti di Armando Spadini, che Giorgio de Chirico definì «un Renoir dell’Italia», dello stesso de Chirico, di Filippo de Pisis, Arturo Tosi, Carlo Carrà, Enrico Paulucci, Bruno Saetti, e le sculture di Marino Marini, Arturo Martini, Antonietta Raphaël Mafai ed Eros Pellini.

In totale ottantatré opere, cui si aggiunge l’edizione storica della traduzione francese del “Libro dell’Arte” di Cennino Cennini, con la prefazione di Renoir, unico suo testo pubblicato in vita. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Pierre-Auguste Renoir apro il mio saggio dicendo: La letteratura artistica italiana è universalmente nota per alcuni testi fondamentali: i trattati di Leon Battista Alberti, le Vite del Vasari, il Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci e il Libro dell’Arte di Cennino Cennini. Tuttavia, al contrario dei primi tre, la fortuna editoriale del testo di Cennino è un fatto relativamente recente. La prima edizione a stampa del trattato (a cura di Giuseppe Tambroni) è del 1821. Da allora (e specialmente nel corso del XX secolo) si è assistito a una fioritura di edizioni e traduzioni di cui, fino a qualche tempo fa, non si aveva perfettamente coscienza. È fuori di dubbio che la fortuna editoriale del Libro dell’Arte si debba innanzi tutto all’essere, nella sostanza, un manuale di tecniche artistiche medievali (anche se, come vedremo, questa definizione può apparire per molti versi riduttiva); le edizioni a stampa aumentano quindi rapidamente con l’incremento dell’interesse per le tecniche medievali. Tuttavia, esattamente come nel caso delle opere di Alberti, Vasari e Leonardo, non vi è dubbio che il trattato cenniniano sia stato interpretato in maniera diversa dai suoi esegeti. Scopo di questo saggio è proprio quello di delineare alcune linee di tendenza svoltesi dal 1821 (anno della prima edizione) al 1950 circa attraverso l’esame delle sue edizioni a stampa. L’esistenza del trattato cenniniano è nota sin dai tempi del Vasari, che ne aveva accennato appunto nelle sue Vite. Ci si può chiedere legittimamente se Vasari avesse letto il manoscritto dell’artista di Colle Val d’Elsa, manoscritto di cui dice essere una copia presso tal Giuliano, orefice senese. Non si capisce bene, giudicando con occhi moderni e non a lui contemporanei, come, nel voler descrivere la parabola degli accadimenti artistici secondo una visione toscanocentrica, secondo cui l’arte era stata rifondata da Giotto ed aveva raggiunto la perfezione con Michelangelo, Vasari manchi completamente l’appuntamento con Cennino e si limiti a scrivere che Cennini nel suo libro aveva trattato “molti avvertimenti, de’ quali non fa bisogno ragionare, essendo oggi notissime tutte quelle cose che costui ebbe per gran secreti e rarissime in que’ tempi”.
Per secoli, dopo Vasari, Cennini viene citato (di rado) e mai preso seriamente in considerazione. Baldinucci addirittura fornisce la collocazione di uno dei manoscritti che lo testimoniano ma nessuno si preoccupa di pubblicare l’opera. Non è il caso di stupirsene più di tanto; l’interesse per il Libro dell’Arte segue lo stesso andamento dell’interesse per l’arte degli Antichi Maestri; è cioè sostanzialmente nullo almeno fino ai primi del XIX secolo. La prima edizione a stampa del trattato cennianiano risale al 1821, ed è opera di Giuseppe Tambroni era un personaggio ben noto nel mondo italiano dell’erudizione di stampo accademico e neoclassico. C’è da chiedersi innanzi tutto che cosa lo spinga a proporre la princeps del Libro dell’Arte. A giudicare dal suo commento, non vi è dubbio che Tambroni avverta l’esigenza di divulgare e far meglio conoscere le tecniche artistiche in contrapposizione a complesse impalcature teoriche che vanno per la maggiore in quei tempi: Fra tutti coloro, che scrissero trattati dell’arte del dipingere, tutti gli altri, volendo sottilizzare e metafisicare, entrarono nelle dispute delle idee, e perdettero di veduta lo scopo principale. Anzi può dirsi che quanto più si è voluto parlare di cose sublimi e fantastiche, tanto più si è smarrita l’arte, la quale maggior incremento s’ebbe sempre più dalla pratica che dalla teoria. Perocchè veggiamo che Raffaello e tanti altri principali maestri non attinsero ad altre fonti che a quelle della natura e della pratica, e che i tanti trattati del bello e dell’ideale non hanno prodotto dappoi un solo di que’ valenti. Tambroni non fa mistero di ritenere che il manoscritto possa essere di grande utilità pratica per gli artisti, specie per coloro che esercitano l’arte dell’affresco, ormai andata totalmente smarrita Tambroni si trova a Roma e molto probabilmente l’accenno è ai primi Nazareni tedeschi, che all’inizio dell’800 hanno qui stabilito la loro base. Tuttavia non scende mai su un piano squisitamente tecnico (probabilmente non ne è in grado) e non è dato sapere quanto realmente il trattato possa essere stato di una qualche utilità per un artista che lo volesse consultare.

L’impressione è che la spinta principale sia data dalla volontà di utilizzare il manoscritto come importante strumento per risolvere una querelle famosissima: ovvero se effettivamente la pittura ad olio fosse stata ‘inventata’ da Van Eyck e, tramite Antonello da Messina, fosse poi transitata in Italia, come dice il Vasari nelle sue Vite; o se fosse praticata già precedentemente. La questione aveva fatto versare fiumi d’inchiostro (e altrettanti ne avrebbe fatti prosciugare nei decenni successivi), specie dopo che, nel 1774, Lessing aveva pubblicato la princeps dell’altro grande trattato di tecniche artistiche medievali, il De diversis artibus del monaco Teofilo, ritenuto dell’XI secolo d.C., in cui già compariva testimonianza delle tecniche ad olio.8 Il trattato cenniniano è considerato un altro testimone in questo senso, e quindi la dimostrazione che Vasari si era sbagliato (anche se poi le conclusioni che Tambroni ne trasse, ovvero che anche la pittura ad olio fosse stata ‘invenzione’ italiana, sulla base delle presunte origini peninsulari di Teofilo, erano del tutto sbagliate). Non è poi da sottovalutarsi un interesse di ordine linguistico; si tratta, anzi, di un tema molto sentito all’epoca, e lo sarà sempre più man mano che ci si inoltrerà nel secolo risorgimentale (basti pensare che Tommaseo comincia a lavorare al suo progetto di Dizionario già nel 1827, a partire da un’edizione del Vocabolario della Crusca del 1806). Scrive Tambroni: E questo libro di Cennino non è soltanto di molta utilità per l’arte. Esso è ancora di giovamento alla lingua nostra. Perocchè quantunque lo stile ne sia incolto e quasi sempre disadorno, quale poteva usare uno scrittore ignaro delle buone lettere, pure la lingua, comechè ripiena di modi plebei e d’idiotismi, è nullameno buona nell’universale, e contiene d’assai parole nuove ed eccellenti, sopratutto per le cose dell’arte. Delle quali parole io darò alla fine di questo libro un indice, onde i compilatori de’ vocabolarj possano giovarsene, e i filologi se ne servano a rischiarare qualcheduna delle quistioni, che toccano il fondo e le origini della lingua. E aggiunge in nota, in corrispondenza dell’indice promesso: Le voci, che ho qui riunite, potranno servire per la maggior parte ad accrescere il vocabolario delle belle arti del Baldinucci, il quale ha in vero lasciato troppo a desiderare in simile argomento sarà opera de’ principali letterati italiani l’ammettere le voci che crederanno illustri, ed escludere le viete e rozze.
E a niuno sarà più onesto di darne sentenza, quanto a que’ nobili ingegni del Monti, del Perticari, del Giordani, del Cesari, del Niccolini, e degli altri che si occupano ora della grave materia della lingua nostra. Fra 1911 e 1916 escono tre nuove edizioni del Libro dell’Arte: la prima, francese, con prefazione di Auguste Renoir (1911), la seconda, italiana, curata da Renzo Simi (1913), la terza, in tedesco, commentata da Jan Verkade (1914-1916). E qui potremmo finire, se non che proprio queste tre edizioni sono la chiara dimostrazione (oserei dire che sono una dimostrazione matura, nel senso che si manifestano a ridosso o addirittura nel corso della grande tragedia della guerra) di cosa è successo in tutta Europa dall’ultimo decennio del XIX secolo in poi. In realtà credo che esista una prova visuale di quanto appena detto, precedente di qualche anno rispetto alle tre traduzioni appena citate. Si trova in Ungheria, presso l’Accademia Musicale di Budapest, dove, nel 1907, Aladár Körösfói-Kriesch, uno degli artisti di punta dell’Art Nouveau ungherese, realizza un magnifico ciclo di affreschi intitolato Pellegrinaggio alla sorgente dell’arte. Senza dilungarmi, l’affresco principale mostra due file di personaggi che si recano appunto ad abbeverarsi ad una simbolica fontana da cui sgorga la sorgente dell’arte. Sulla fontana, l’artista sente il bisogno di scrivere: “La mia gratitudine a Cennino Cennini, il mio tributo ai Maestri di Siena”. L’esplosione dell’Art Nouveau in Europa, la nascita delle Secessioni nelle loro varie declinazioni nazionali, il superamento del naturalismo, l’antipositivismo, l’attenzione a simbolismo, sintetismo, spiritualità dell’arte sono un fenomeno universale. Ne è un aspetto tutt’altro che secondario anche la riscoperta non solo delle tecniche, ma anche delle modalità di creazione delle opere medievali.

Esattamente come nel caso della Herringham, Cennino diventa un autore ‘moderno’, col suo richiamo all’umiltà, all’obbedienza, alla perseveranza. Se fino a metà dell’Ottocento l’esperienza dell’artista straniero in Italia era rivolta ai Carracci, a Raffaello, al colorismo veneziano, ora si viene in pellegrinaggio a vedere i grandi cicli degli affreschi di Giotto ad Assisi e degli altri maestri toscani del Medio-Evo. Tutti quelli appena accennati sono temi facilmente riscontrabili nelle nuove traduzioni di Cennino. Renzo Simi pubblica la terza edizione italiana nel 1913. È figlio di Filadelfo Simi, artista liberty la cui scuola internazionale, aperta a Firenze da fine Ottocento, andrebbe studiata a fondo se annovera fra i suoi allievi Telemaco Signorini e Giovanni Fattori da un lato, ma dall’altro tutta una serie di artisti stranieri particolarmente attenti alla cultura quattrocentesca italiana (sono provate, ad esempio, frequentazioni di Filadelfo Simi con artisti finlandesi che, tornati in patria, inaugurano la locale scuola di pittura a fresco). La versione di Renzo è semplicemente la sua tesi di laurea, poi riadattata. Dobbiamo dire, innanzi tutto, che l’edizione Simi è di gran lunga la più fortunata di tutte quelle stampate, vuoi per le numerose riedizioni italiane vuoi perché la maggior parte delle successive traduzioni si basa su questa. Da un punto di vista editoriale, l’operazione di Simi è molto semplice: libera l’opera da ogni eccessivo apparato di note a commento e cerca di restituire un linguaggio più moderno e comprensibile al lettore. Vale la pena riportare ampi stralci dalle tre pagine iniziali della prefazione, in cui Simi si occupa della poetica di Cennino: Il tempo, come il mare, se molte cose distrugge, altre solamente le nasconde; un giorno poi le ridona agli uomini, più care e più preziose: il carbone si è fatto diamante . L’amore dell’esotico e l’amore del contrasto ci attirano verso ciò che è più lontano da noi: la generazione presente, critica irreligiosa e positiva, adora la candida espressione d’una fede perduta, come la donna nell’età matura è sedotta dall’inesperta innocenza dei giovanetti. Si va ad Assisi come in pellegrinaggio . Il contrasto assoluto fra l’arte d’oggi e d’allora spiega questa passione. L’arte d’allora è impersonale, e principalmente per questo grandiosa. Povera di mezzi, semplice per natura e per necessità, segue formule consacrate dall’uso e se ne contenta . Va naturalmente congiunta alla impersonalità la generalità. Non ritratti, ma simboli o tipi; non un dolore, ma il dolore; non il dettaglio particolare, ma le linee di costruzione; non la profonda ricerca moderna del colore, ma un tono unito, col suo chiaro e il suo scuro . Di tutte queste cose, il Cennini scrive con molta precisione, molta minuzia e molto amore. Il suo libro, documento prezioso per la storia della tecnica, è sopra tutto, per noi, un commento poetico a quella spirituale semplicità dei primitivi che male da molti si volle imitare; poiché l’acqua del fiume corre dalla sorgente alla foce, ogni stagione ha un suo carattere di bellezza e la vita dell’uomo una sola infanzia. Cennino nel mito. Cennino come San Francesco. Non importa che, nella realtà delle cose, si sappia da un pezzo (dall’edizione Milanesi) che l’artista di Colle Val d’Elsa non era un frate. Qui stiamo parlando di sacerdozio nell’arte. L’arte è una religione. Scriveva già Segantini nel 1891: l’arte deve rimpiazzare il vuoto lasciato in noi dalle religioni; l’arte dell’avvenire dovrà apparire come scienza dello spirito, essendo l’opera d’arte rivelazione di esso. Letteratura, musica, pittura non più serve o prostitute, ma signore potenti e gentili formeranno la trinità dello spirito: per esse sarà religione e musa la evoluzione cosmica, guida la scienza, fonte d’ispirazione il sentimento alto e sereno della natura. È appena evidente che dal sacerdozio nell’arte a ‘sacerdozio ed arte’ il passaggio può essere molto breve. È il caso dell’olandese Jan Verkade, protestante convertitosi al cattolicesimo, che incarna questi valori così profondamente da farsi monaco e vivere al servizio del monastero di Beuron, uno dei grandi centri artistici che, a cavallo fra Ottocento e Novecento, cercano di rinnovare l’arte sacra in senso moderno.

Verkade è l’autore della seconda traduzione tedesca di Cennino, già completata nel 1914, ma pubblicata solo nel corso della guerra. Se torniamo con la mente a quello che l’autore della prima traduzione nella medesima lingua (Albert Ilg) scriveva in merito a Cennino (ultimo dei Giotteschi, uomo che viveva fuori dai tempi con lo sguardo rivolto al passato) ci rendiamo conto dell’abisso culturale che separa le due versioni. Scrive Verkade nella sua prefazione: “se qualcuno mi chiedesse quale sia il vantaggio di quest’opera , risponderei che consiste fondamentalmente in una migliore comprensione di quell’arte che oggi è divenuta nuovamente a noi così cara i cui eroi furono Giotto, i Memmi, Lorenzetti e l’Orcagna. Attraverso il trattato di Cennino all’apparenza così arido fluisce lo stesso, meraviglioso spirito che ci colpisce nell’opera di quei maestri. È lo spirito della venerazione e della pietà, dell’amore e dell’entusiasmo, che ingenuo, ma devoto nella fede cerca di plasmare immagini che siano chiaro specchio della sua forza e della sua delicatezza quasi non riconosciuta. Il libro ci porta più vicini a questo spirito, che non appartiene più ai nostri tempi. La nuova direzione verso cui si indirizzerà la pittura sarà di natura spirituale. E tuttavia, la pittura fino ad oggi è stata supportata dalle tecniche dell’età del naturalismo. Potranno forse i pittori del Trecento e il maestro delle loro tecniche aiutarci a sviluppare modi di espressione a noi più consoni?” Verkade scrive a guerra scoppiata, ma in realtà è un artista la cui biografia testimonia come la cultura europea abbia comuni radici che saranno poi sepolte sotto milioni di morti. Si è formato in Francia, ha aderito ai Nabis, e presso i Nabis ha conosciuto un giovane Maurice Denis, uno dei personaggi di maggior spicco della cultura e del cattolicesimo francese della prima metà del Novecento, nel bene e nel male. È Maurice Denis, che probabilmente ha letto Cennino già prima del 1909, a progettare una nuova edizione francese dell’opera. Il trattato viene ristampato nel 1911; costituisce in qualche modo un unicum, per due motivi: a) non viene preparata, come in tutti i casi dopo l’edizione Milanesi, una nuova versione basata sull’interpolazione dei due manoscritti fiorentini, ma si prende la prima edizione francese (quella di Victor Mottez, basata sul testimone vaticano) e la si completa coi capitoli mancanti, a cura del figlio, Henri Mottez, anch’egli pittore (da un punto di vista filologico l’operazione è del tutto opinabile; è vero che vengono colmate le lacune, ma il testo vaticano, essendo molto tardo, è pieno zeppo di errori di trascrizione che non vengono corretti); b) si chiede e si ottiene ad Auguste Renoir di inserire una prefazione in forma di lettera ad Henri. Diciamo subito che la presenza delle prefazione di Renoir rende quest’edizione particolarmente famosa, e non solo in Francia. Non sono pochi i casi di traduzioni basate sulla versione francese, anche se scorretta, proprio per via del testo di Renoir. Come noto, solo i primi vent’anni della carriera artistica di Renoir sono quelli dell’impressionismo; poi c’è una frattura, provocata dal senso di insoddisfazione, e la pittura dell’artista francese vira nettamente verso uno stile più classico ed attento alla pittura del Quattrocento italiano.
È del 1883, stando ad un colloquio fra Renoir e Ambroise Vollard, l’incontro con il trattato di Cennino Cennini. Quello che è certo è che fu un rapporto molto intenso. Questa è la testimonianza di una visita a Renoir fatta da Camille Mauclair, scrittore ed amico dell’artista: Da molto tempo questo maestro che aveva in precedenza firmato delicatissimi capolavori di una sensualità ben equilibrata non produceva altro che immagini di donne nude sovrappeso, deformate dall’elefantiasi, imbrattate di un rosso violaceo, appesantite in corpi enormi con piccole teste in cima, con bocche à la femme fatale, nasi piatti ed occhi bovini; e sono pitture tuttavia vendute a prezzi altissimi ed apprezzate per rispetto dell’autore. Trovai quest’uomo, anziano e sofferente completamente ipnotizzato da una lettura, di cui parlava con entusiasmo ingenuo e commovente. ‘Un italiano del XIV secolo. È incredibile quello che sapevano quegli uomini. Oggi la gente non conosce più nulla. Io vi sto imparando cose su cui avevo dubbi. So quello che ancora mi manca, non posso crederci l’ho solo preso in prestito’. Davvero colpito dalla sua modestia, diedi un’occhiata al libro. Era il piccolo trattato di pittura del buon e mediocre Cennino Cennini. Ma torniamo all’edizione del 1911: nasce anch’essa nel filone del cattolicesimo europeo. Ma se quella di Verkade sembra essere la ricerca di nuove forme di espressione per l’arte sacra, Renoir dà voce all’ala conservatrice del cattolicesimo francese, venata di un profondo pessimismo (e negli anni destinata a compromettersi coi movimenti fascisti transalpini): quello di Renoir è un mondo che si chiude a riccio in se stesso e a cui manca prospettiva. Se naturalmente la lettera introduttiva loda il lavoro di Cennino, l’artista si sofferma anche sulle cause della decadenza della pittura nella sua epoca, e ne identifica tre: a) la perdita del sentimento religioso (lo splendore passato della cultura cattolica era alla base del fiorire delle arti), rimpiazzato da razionalismo e tecnologia; b) l’emancipazione dell’artista da tradizioni condivise, che avevano in precedenza preservato la base culturale di fondo per la produzione di lavori d’arte collettivi (si pensi alle cattedrali); c) la specializzazione del lavoro e la divisione del lavoro nella produzione industriale, che aveva fortemente ridotto l’importanza dei mestieri artigianali nella creazione materiale, sostituendo il lavoro creativo manuale con la produzione alienata di massa. E, quel che è peggio, Renoir dubita fortemente che questi valori e che lo spirito degli antichi maestri possano mai essere recuperati. La Prima Guerra Mondiale guerra mondiale spazza via il mondo dell’Art Nouveau. E tuttavia Cennino, dopo un decennio di sostanziale silenzio, riprende a vivere e a diffondersi, seguendo percorsi a volte inattesi. Naturalmente, si perde l’afflato spirituale e aumenta l’interesse tecnico-scientifico nei confronti del testo. Non abbiamo qui tempo e modo di seguire i tanti rivoli che, all’improvviso, riaffiorano in giro per il mondo. Bisognerà tuttavia segnalare che già prima del 1924 viene approntata un’edizione giapponese, a cura di Nakamura Tsune (l’edizione purtroppo vedrà la luce solo quarant’anni dopo) e, andando in ordine cronologico, bisognerà citare due edizioni polacche (1933 e 1934) una rumena (1936?), ed una norvegese addirittura nel corso della seconda Guerra mondiale (1942). Ma io voglio qui soffermarmi su due edizioni coeve, espressione di due mondi totalmente agli antipodi: quella americana e quella russa del 1933. Daniel Varney Thompson è il traduttore della terza edizione in lingua inglese (la prima negli Stati Uniti) del Libro dell’Arte. Il suo approccio al testo avviene direttamente sui manoscritti, Nel 1932 pubblica una nuova versione italiana dell’opera cenniniana (la quarta, dopo Tambroni, Milanesi e Simi); l’anno dopo produce la sua traduzione inglese. Thompson è, dal 1926, professore universitario di Storia dell’Arte e di Pittura a Tempera a Yale. Il suo testo è di impronta chiaramente didascalica e divulgativa: “I have… tried in my translation to give first place wherever possible to the convenience of the practicing student and painter”. Si tratta, a mio avviso, della miglior traduzione del testo in altra lingua. Più di quarant’anni dopo, Thompson ebbe modo di fare alcune considerazioni sulla sua fatica giovanile, considerazioni che, fortunatamente, ci sono giunte tramite alcune registrazioni. Non starò qui a riproporle. Ma c’è una consapevolezza che non ho trovato in nessun altro traduttore precedente o successivo; ovvero che, quando ci si trova di fronte a un testo come quello di Cennino, il problema di chi deve tradurre è duplice: da un lato permettere al lettore di risparmiare il tempo che perderebbe nel consultare un vocabolario; dall’altro (e molto prima) di comprendere e verificare sperimentalmente le ricette esposte dall’autore. Dice Thompson “Potrei riassumere le difficoltà dicendo che normalmente non è molto difficile tradurre con accuratezza quello che sapete che un autore vuole dire. Ma se non lo sapete, si finisce per incorrere negli errori che ho fatto io”. Difficile dargli torto.

L’edizione russa è invece tradotta da Alla Nicolaevna Luzhetskaya, con il commento di ?leksey Aleksandrovich Rybnikov. Siamo in pieno regime stalinista. Citarla mi permette di accennare a un aspetto molto interessante, ovvero alla politica svolta dal regime nella traduzione dei trattati rinascimentali e, più in generale, dei grandi classici della storia dell’arte. Non è certo una politica illuminata, sia chiaro. Ma siamo di fronte all’ennesimo tentativo di rivivificare, dopo Roma e Bisanzio, il mito della ‘terza Roma’ (un luogo comune che a dire il vero non è stato monopolio esclusivo delle dittature: anche nella Londra vittoriana si parlava di “terza Roma”). Per migliorare il livello degli artisti e degli architetti russi si ritiene indispensabile, appunto, procedere alle traduzioni. Naturalmente si opera secondo i metodi dello stalinismo più severo: fra il 1933 e il 1941 il secondo e il terzo piano quinquennale del regime stabiliscono che tutti i trattati rinascimentali di architettura debbano essere tradotti in russo; vengono aggiunti altri testi come il De pictura di Leon Battista Alberti. A dire il vero, a nostra conoscenza, il Libro dell’Arte di Cennino non rientra nel novero delle opere da tradurre, ma è fuor di dubbio che la pubblicazione vada inserita in questo clima di pubblicazioni forzate (o forzose). Limitandosi al mero esame delle sezioni introduttive, la traduzione, condotta da Luzhetskaya sulla base dell’edizione Milanesi, potrebbe benissimo essere quella di un paese democratico. Dove emerge il Cennino ‘sovietico’ è nell’introduzione di Rybnikov (l’impatto del capitalismo sulla separazione fra scienza ed arte, la riduzione della produzione artistica a puro commercio in seguito ai mutati modi di produzione), senza peraltro che si raggiungano livelli di propaganda ben noti in altre circostanze. Stranamente (e forse per motivi casuali), nei cinque anni successivi alla seconda Guerra mondiale compaiono diverse traduzioni del trattato cenniniano. Tralascerò (anche perché non ho avuto modo di esaminarle) la prima edizione in lingua ceca (1946), la prima in svedese (1947) e quella in serbo-croato (1950). In realtà mi è parso il caso di estendere l’analisi fino al 1950 perché è nel ristretto ambito di questi anni che compaiono le prime due edizioni in lingua spagnola, che io sappia concepite indipendentemente l’una dall’altra (ma con le avvertenze che diremo). La Spagna, diciamocelo, era la grande assente nel panorama delle edizioni del trattato cenniniano. L’isolamento in cui si viene a trovare in quegli anni e nei decenni successivi viene testimoniato da un dato evidente: nessuna delle edizioni successive (italiane o non) cita in bibliografia le traduzioni spagnole. La prima edizione in lingua spagnola del Libro dell’Arte in realtà non compare in Spagna. Viene pubblicata a Buenos Aires nel 1947 con prefazione di Aldo Mieli e traduzione di Ricardo Resta. Non credo che ci sia persona che possa aver sperimentato le tragedie del Novecento più di Aldo Mieli, professore universitario e storico della scienza italiano dalla cultura sconfinata, scappato dall’Italia in Francia nel 1928 perché socialista; poi in fuga dalla Francia all’Argentina nel 1939 perché consapevole della minaccia nazista (era anche ebreo); ed infine privato della possibilità di portare avanti i suoi studi universitari dal colpo di Stato filo-fascista argentino del 1943. Eppure Mieli era un nome noto a livello mondiale. Aveva fondato e diretto Archeion, rivista di Storia della scienza famosissima all’epoca (Daniel V. Thompson, il traduttore dell’edizione americana del 1933 vi aveva scritto sopra più volte). Nel 1947 è un uomo ridotto in povertà assoluta e malato. Probabile che sbarchi il lunario scrivendo testi di accompagnamento ai classici della erudizione italiana, che in Argentina hanno un loro mercato, un po’ per il numero straordinario di emigrati italiani, un po’ perché in quegli anni la comunità dei rifugiati politici è assai numerosa. Il binomio Mieli-Resta si è specializzato in fonti di storia dell’arte. Nel 1946 ha pubblicato la Divina Proporzione di Luca Pacioli; nel 1947, appunto, il Libro dell’Arte di Cennino Cennini (basato sull’edizione Simi). Da segnalare poi (vedremo perché) che Mieli e Resta scrivono per case editrici (Argos e Losada) gestite e possedute da rifugiati italiani e, soprattutto, da esuli della guerra civile spagnola. In realtà, pur pubblicata successivamente (nel 1950), la seconda edizione spagnola, a cura di Francisco Pérez-Dolz sembra essere stata compiuta prima rispetto a quella di Mieli, poiché la prefazione è datata “estate 1945”. Tutto quello che so, di Francisco Pérez-Dolz, è desunto dal sito Internet (assai sobrio e gradevole) che gli è stato dedicato dai familiari. L’artista vi viene definito come ‘un uomo del Rinascimento nel XX secolo’, intendendo con questa affermazione che si trattava di persona particolarmente colta e versatile; in effetti, fra i suoi tanti scritti, non si rinvengono solo opere dedicate all’arte (e in particolare alle tecniche artistiche e alla teoria dei colori) ma anche testi di letteratura, musica e teatro. Pérez-Dolz visse a lungo a Barcellona, dove insegnò storia dell’arte presso la locale Accademia, di cui fu anche segretario. La sua edizione di Cennino, condotta su quella di Renzo Simi, è assolutamente piacevole. La sua introduzione rientra perfettamente in quel clima Art Nouveau di cui abbiamo visto essere impregnate le versioni pubblicate negli anni ‘10 del ‘900. Non ho la più pallida idea del perché il trattato, pronto nel 1944, fu stampato solo nel 1950. Un’ipotesi del tutto provvisoria e facilmente smentibile potrebbe essere questa: Cennino viene stampato in Argentina nel 1947 da un socialista (Mieli) e da un editore che fa capo ad esuli della guerra civile. Una circostanza scomoda per il regime spagnolo, specie se qualche copia avesse cominciato a circolare nella penisola iberica (e il fatto che in ultima analisi si tratti di un ricettario avrebbe potuto suscitare l’interesse degli artisti spagnoli). Da qui la spinta a depotenziare l’edizione argentina e ad averne una spagnola, gradita alle autorità. Potrebbe essere il caso dell’edizione Pérez-Dolz. Ma stiamo facendo pure ipotesi. Quello che è certo è che la traduzione dell’artista spagnolo uscì (come molti altri suoi testi) presso l’editoriale Meseguer di Barcellona nel 1950, nell’ambito della collana Manuales Meseguer (a sottolineare la sua natura pratica). Non escludo affatto che possa essere stata oggetto di studio in insegnamenti accademici, posto che ne sono uscite almeno quattro edizioni: nel 1950, nel 1956, nel 1968 e nel 1979. Certo è che la notorietà della fatica di Francisco Pérez-Dolz è rimasta confinata alla sola Spagna, e che a partire dal 1988 è presente sul mercato iberico una nuova edizione che è la traduzione letterale (introduzione compresa) di un’edizione italiana del 1971 a cura di Franco Brunello. Posso dire che Renoir riesce già a presentare dipinti del primo periodo della sua maturità come istantanee di vita quotidiana, luminose e ricche di gamme cromatiche. Queste istantanee possono tranquillamente essere riassunte in una sola parola: “impressioniste”. Intorno alla metà del decennio, tuttavia, l’artista si allontana dall’Impressionismo per dedicarsi alla ritrattistica e alle figure in genere. Inizia così ad adottare una tecnica un po’ meno libera e più convenzionale, soprattutto nelle configurazioni femminili. “Ecco quello che voglio dipingere”, è una frase che l’artista ripete spesso a se stesso e agli altri: una percezione idilliaca. Percezione caratterizzata soprattutto dalla profonda sensualità delle donne che sceglie come modelle e dall’intensa ricchezza cromatica e completezza delle forme. Durante il soggiorno in Italia del 1881, con l’entrare a diretto contatto della pittura dei nostri maestri del Rinascimento, soprattutto con quella di Raffaello, Renoir incomincia a pensare di trovarsi in una strada non troppo buona. Negli anni che seguono, infatti, l’artista adotta una tecnica più accademica, nel tentativo di migliorare il realismo giovanile e quindi arrivare al vero e proprio classicismo. L’attuale periodo viene così denominato da alcuni studiosi della storia dell’arte come
“il suo periodo di Ingres “, proprio per la nuova importanza che esso dà alla linearità e ai contorni delle immagini e, soprattutto, alle figure. È, per l’appunto, proprio durante il viaggio nella nostra penisola che, secondo alcuni studiosi contemporanei altri invece sostengono tesi diverse Renoir soggiorna a Capistrano. Questo è un piccolo paese della Calabria, dove l’artista trova ospitalità da un religioso, che per ricompensarlo del vitto e alloggio coglie l’occasione di restaurare Il Battesimo di Gesù sul fiume Giordano , un affresco della chiesa matrice. Entrato nel nuovo decennio, 1890-1900, tuttavia, il pittore ha dei ripensamenti riguardo il suo linguaggio pittorico e quindi cambia di nuovo indirizzo.
Inizia ad impiegare un cromatismo più delicato e tratteggiato, tanto da dissolvere i profili come nei lavori agli esordi della sua carriera artistica. Poco più tardi, già prima della metà dell’ultimo decennio del secolo, il pittore si concentra nella cura delle figure, soprattutto sui nudi monumentali. In tale periodo subisce gli influssi della pittura di Alfred Dehodencq, che si evidenziano sulle opere di genere con scene domestiche, tra cui si ricorda Jeunes Filles au pieno1892. Naturalmente con quest’opera Renoir non resiste alla tentazione di dipingere altre tele avendo come modella la bellissima figlia Julie di Berthe Morisot , di cui è ospite in tale periodo. In questa composizione l’artista riesce a creare una profonda intimità, soprattutto con le delicate e morbide variazioni delle due eleganti figure in primo piano. Queste ultime, nonostante uno sfondo abbastanza netto e dettagliato ma fatto di veloci e decise pennellate sembrano staccarsi dalla tela. Gli ultimi nudi realizzati da Renoir sono i più tipici e meglio riusciti del suo periodo maturo, abbastanza noto per la propensione alla scelta di modelle ben in carne. Renoir, nel corso di tutta la sua carriera artistica, realizza oltre un migliaio di dipinti. Il suo caldo e sensuale linguaggio pittorico ha fatto sì che sue opere possano considerarsi, tra l’altro di cui abbiamo già abbondantemente parlato in questa pagina e in quelle precedenti tra le più celebri dell’Impressionismo. Furono anche fra le più riprodotte nelle pagine della storia dell’arte. Mentre nelle le Bagnanti sono il suo ultimo lavoro, realizzato con i pennelli legati alle dita ormai incapaci di muoversi autonomamente perché rattrappite. La composizione si presenta con due gruppi di donne nude: due in primo piano e tre nei piani successivi (si osservi lo sfondo sulla destra). Tutto il contesto è ripreso nel giardino di Renoir, situato a Cagnes-sur-Mer. Le sue figure sono sfrangiate in un unico, costante e fluido ritmo luminoso. Dalla Storia dell’arte apprendiamo che l’Impressionismo è considerato dagli studiosi di Storia dell’arte del periodo come impresa folle. Proprio per questo motivo dura pochi anni. Insieme a Monet, suo compagno di avventura, condivide tutte le conseguenze del movimento impressionista, fatte di grandi entusiasmi, umiliazioni, ma anche di vera gloria. Nonostante il suo temperamento non troppo vicino a quello di Monet, lavora fianco a fianco con lui nelle numerose, lunghe ed entusiasmanti sedute per la pittura “en plein-air”. Per un certo periodo lavorano sempre molto vicini, riportando sulle tele gli stessi soggetti, le stesse emozioni e gli stessi “attimi” catturati nelle varie ore della giornata con un penetrante linguaggio espressivo che ha dell’incredibile. Si scambiano opinioni, suggerimenti, emozioni e, talvolta, anche qualche pennellata, influenzandosi a vicenda. In quei momenti di piccolo relax, con i due artisti un poco scostati dai rispettivi cavalletti, sarebbe stato molto difficile attribuire la paternità di quelle opere. Non soltanto qualcosa di puramente tecnico diversifica le opere di Renoir da quelle di Monet, ma anche di emozionale: le gradazioni cromatiche del primo sono più ricche e il suo controllo emotivo raggiunge la completa libertà. I paesaggi sono carichi di raggianti emozioni capaci di colpire la parte più profonda dell’animo umano. Le pennellate hanno il potere di rendere bello, elegante e soprattutto “vivo”, anche un soggetto privo di tutto questo. Il suo animo è talmente sensibile da esaltarsi al massimo davanti a qualsiasi soggetto: il volto tenero di una bambina, l’animazione festosa di un paesaggio, la calma di un fiume, una semplice composizione floreale, i boulevard di Parigi ecc. Secondo gli studiosi della Storia dell’arte qualsiasi soggetto egli riproduca sulla tela risulta elegante, brioso, con colori luminosi e, soprattutto sprigiona energia emozionale: l’opera diventa un canto lirico la cui armonia colpisce non soltanto l’occhio dell’osservatore, ma anche il suo sentimento. Nei paesaggi, che sono vivi per conto proprio, non manca mai la scena di vita umana, riportata sotto qualsiasi aspetto, dove si respira un’aria di autenticità non inquinata da preconcetti o scelte di stile dettati da regole fisse. Il suo stato emozionale, che varia attimo per attimo, viene riportato sulla tela con tocchi decisi, senza tanti ragionamenti e nessun ripensamento. Renoir disdegna la pittura in studio ed ascolta il proprio bisogno di andare a dipingere all’aria aperta, dove sente entrare direttamente nel profondo del suo animo l’essenza stessa della vita. Il suo dipingere è un continuo scambio di emozioni tra la natura, il suo animo sensibile e la tela, e il suo canto lirico diventa sempre più incisivo, facendo nascere ad ogni pennellata una nuova e gradevole sensazione. Le ultime fasi della preparazione della mostra hanno anche conosciuto un colpo di scena da cardiopalma: il 9 febbraio, infatti, uno dei musei prestatori, che aveva concesso il bronzo della “Venus Victrix” di Renoir del 1916, ha dovuto annunciare a malincuore di non poter più concedere l’opera, essendo emerso il sospetto di una sua provenienza problematica durante il periodo dell’occupazione nazista nel corso della Seconda guerra mondiale. Il curatore e gli organizzatori non si sono però persi d’animo, e si è così riusciti ottenere, a tempi da primato, dalla Kunsthalle di Amburgo una scultura forse ancora più importante, ovvero la “Piccola Venere in piedi” del 1913, che della “Venus Victrix” costituisce il fondamentale precedente, e uno dei primi casi in cui Renoir si misurò con la scultura, aiutato dall’assistente Richard Guino, allievo di Maillol. E nell’ultima sala c’è un’autentica emozionante chicca, anche per i cinefili: come noto, il secondo figlio di Pierre-Auguste Renoir fu Jean Renoir, uno dei più grandi registi della storia. In un suo film del 1936, il raro “Una gita in campagna”, rese omaggio al padre quasi ricreando, nelle eleganti inquadrature, le scene e le atmosfere dei suoi dipinti. In mostra sarà possibile vedere, in versione restaurata, alcuni spezzoni significativi della versione originale del film, con sottotitoli in italiano.
Pierre-Auguste Renoir Biografia
E’ stato uno dei massimi esponenti dell’Impressionismo. Questa fase della sua produzione è la più nota al grande pubblico, ma fu caratterizzata da una certa disparità di vedute con Monet, Pissarro e Degas. Già verso la fine degli anni Settanta Renoir era tormentato dall’insoddisfazione, dal bisogno di trovare vie alternative. Il viaggio compiuto in Italia nel 1881-1882 fu importante nel far evolvere la sua arte: da qui, dalla luce di Venezia e del Mediterraneo, dalla lezione dei grandi maestri del passato (
Carpaccio, Raffaello, Tiziano, Rubens, Tiepolo, Ingres) e dalle riflessioni sulla tecnica pittorica nacquero i germi di una sorta di nuova classicità. Renoir arrivò così ad anticipare via via non pochi aspetti del “ritorno all’ordine” che sarebbe esploso verso la fine degli anni Dieci del Novecento in reazione alle avanguardie. Insomma, la fase matura e
poi conclusiva della sua carriera, su cui s’incentra questa mostra, non fu affatto un periodo di decadenza, ma anzi si rivela quasi, con le opere pacate, sontuose e spesso monumentali che la connotano, un presagio di sviluppi successivi dell’arte. L’intento è quindi di porre in risalto l’originalità di una produzione che non fu per nulla attardata, ma che costituì uno dei primi casi di quella “moderna classicità” che sarebbe stata perseguita da molti pittori e scultori degli anni Dieci, Venti e Trenta, in maniera speciale in Italia.
Palazzo Roverella Rovigo
Renoir. L’alba di un nuovo classicismo
dal 25 Febbraio 2023 al 25 Giugno 2023
dal Lunedì al Venerdì dalle ore 9.00 alle ore 19.00
Sabato e Domenica dalle ore 9.00 alle ore 20.00