GELA4_2Guardando oggi la Sicilia con in mente il celebre adagio pasoliniano di un’Italia che ha vissuto lo sviluppo senza progresso, quale potrà essere il futuro di Termini Imerese, Priolo, Gela ed Agrigento? Oggi che i petrolchimici sono in una crisi forse irreversibile, ma si pensa di costruire invadenti rigassificatori; oggi che gli stabilimenti dell’auto e i cementifici sono fermi, il contrasto tra Storia, Paesaggio e industrializzazione della Sicilia si fa più evidente agli occhi di tutti. Atteniamoci alla crudezza dei fatti senza giri di parole.


Bastarono pochi anni dall’entrata in vigore della Costituzione italiana perché uno dei suoi articoli fondamentali, il numero 9, iniziasse ad essere disatteso nel suo principio ispiratore: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
A sessantacinque anni dalla nascita della Carta costituzionale il dibattito riguardo all’impressionante numero di violazioni in nome dello “sviluppo”  e della “modernizzazione” si è fatto più acceso. Ci si è accorti che quell’articolo è rimasto troppe volte una dichiarazione d’intenti di fronte al fatto compiuto di un Paese cementificato in luoghi che si sarebbero dovuti preservare, industrializzato dove non si doveva industrializzare.
Il dibattito è certamente molto positivo ed è necessario che non resti inascoltato. Tuttavia non c’è solo da salvare il salvabile, ma anche da iniziare a pensare soluzioni per quelle aree d’Italia in cui gli sfregi sono stati più aggressivi. La cultura della ricerca scientifica e tecnica, nelle applicazioni e nelle scelte della ricostruzione postbellica e dello sviluppo economico da un lato, e le esigenze abitative dall’altro, entrarono ben presto in conflitto con la seconda parte di quanto invocava l’articolo costituzionale. Tecnica e scienza, sostenute da scellerate politiche prive di una visione olistica e di lungo periodo, unite a voraci interessi industriali pubblici e privati, prevalsero cioè sulla tutela del paesaggio, del patrimonio artistico e storico della Nazione. I risultati di questa incompatibilità, evidenti sin da subito se si fosse tenuta presente la carta costituzionale, si sono forse capiti a livello collettivo solo a seguito della crisi economica che ci attanaglia nel degrado ambientale. E’ cosa recente, infatti, aver compreso quanto siano costate certe scelte - e costeranno ancora - per la salute pubblica, l’ambiente, la storia e il futuro delle prossime generazioni. La consapevolezza di ciò che è avvenuto in regioni tra le più delicate per il rapporto tra paesaggio e storia del Paese (Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia), dove il mancato rispetto della carta costituzionale ha assunto il carattere perverso del danno irreparabile, è un tragico risveglio dall’oblio e richiede una risposta culturale di ampio respiro e lungimiranza.
Atteniamoci ai fatti. Per capire lo spirito con cui, agli inizi degli anni ’60, si considerava l’industrializzazione di Taranto e Gela come un salutare risveglio dal torpore dei secoli e dalla pigrizia delle genti del Sud, è molto utile vedere oggi due documentari, l’uno per la regia di Emilio Marsili (Pianeta acciaio, 1962) e l’altro di Giovanni Ferrara (Gela antica e nuova, 1964) col commento di Leonardo Sciascia.
 

Entrambi mostrano l’avanzamento dei lavori per i grandi impianti industriali e le aspettative di benessere e ricchezza che avrebbero portato. Una ricchezza velocemente consumata, che lascia sul terreno a 50 anni di distanza relitti difficilmente riconvertibili e un prezzo altissimo in termini di tutela dell’ambiente, del paesaggio e della storia.

Il viaggio nel sottosuolo fisico, storico e metaforico della Sicilia del 2013 inizia da Gela…
 
 
1.  GELA NON E' UNA CITTA' POVERA (parte prima)

Apparet Camarina procul, campique geloi.
Immanisque Gela fluvii cognomine dicta

Virgilio, Eneide, IIII, 701-702

GELA1_2Quanti sono i turisti che d’estate percorrono la SS 115 sud-occidentale sicula Siracusa-Trapani? Possibile mai che a Gela, in quel tratto urbano imbuto che genera code, pochi pensino di fermarsi?
Fermarsi a Gela significa per molti farlo solo per gli stop dei semafori e per ammirare con la coda dell’occhio le nuove provvidenziali rotonde ricolme di agavi puntute, infestate di carte, infestate di bottiglie di plastica vuote (Fig. 1).
Lo dicevi sempre che Gela non poteva essere solo quel transitare per un altrove migliore, che avresti voluto romperlo il tabù che Gela è solo la SS 115, con la sua periferia neoplastica, i suoi edifici abitati solo al piano terra, rialzati abusivi e incompiuti al secondo, con i cassoni azzurri dell’acqua sui tetti che sopperiscono alla mito della siccità, invero siccità indotta, siccità mafiosa DOC. Per rompere il tabù e verificare l’immensità virgiliana di Gela ci voleva allora una giornata di maestrale che ti impedisse di andare in spiaggia, di bagnarti nel mare in un giorno d’agosto.

GELA2E allora la SS 115 stavolta la percorri con un altro spirito, uno spirito tutto rivolto e concentrato a demolirlo quel tabù che Gela sia uno schifo di città, una città tutta abusiva e nauseabonda, una città tutta racket e cosche mafiose. Licata vede Gela come Gela vede Licata, s’affacciano sullo stesso mare (Fig. 2), guardano lo stesso orizzonte, l’una figlia dell’altra. Gela occupata dai Mamertini nel 282 a.C e distrutta da Finzia d’Agrigento che deportò i gelesi a Finziade, l’attuale Licata, che ora è sdraiata sotto la montagna S. Angelo, mentre all’epoca Finziade s’arroccava sulla montagna, proprio dove ora c’è il castello seicentesco che guarda il mare e il cimitero sul mare.
 
Arrivi alla prima rotonda gelese che sono le 9:30 dopo aver percorso i 15 km di quella litoranea ancora tutta bunkers di Mussolini (Fig. 3) che, nella notte tra il 9 e il 10 luglio ’43, videro sbarcare il cane Husky siberiano del Gen. Patton, un Husky enorme, fatto di 160.000 uomini e 4000 veicoli tra carri armati, jeep, camion, eccetera eccetera, lo videro sbarcare quell’Husky irrefrenabile i fanti stupiti di sua Maestà Vittorio Emanuele, senza poterlo lasciare di certo sul bagnasciuga come aveva tuonato er puzzone, ormai suonato, ormai prossimo al 25 luglio, col cane alle calcagna, tanto che poteva sentirgli il fiato arrivargli sul collo, il latrato furioso rimbombargli nelle orecchie.

GELA3_2Alla rotonda giri a destra e prosegui per il lungo mare, un mare immenso, aperto e azzurro, battuto dal maestrale che nemmeno le petroliere a largo vogliono navigare. Se ne stanno lì, ferme come scogli antracite in mezzo al mare, in attesa che si plachi il maestrale.
Un lido dopo l’altro arrivi alla “Conchiglia” (Fig. 4), spiaggiata come una valva erosa dal mare. Edificio avveniristico in cemento armato e pozzolana, a forma appunto di conchiglia, edificato per gli imprenditori balneari fratelli Ventura e dall’architetto Filippo Trobia, tra il ’57 e il ’58, circondato dal mare, oggi relitto semi-crollato dove riecheggiano ancora i fantasmi dei balli e dei canti di un epoca felice, tutta speranze, all’alba del boom economico, all’alba del petrolchimico di Enrico Mattei.


GELA4_1Il 14 agosto del ’37, al vecchio edificio ligneo del lido, ci ballò pure er puzzone, in visita a Gela, petto a petto con Donna Cesarina Morso (Fig. 5, http://www.gelanelmondo.it/forum/gela-anni-20-40-vt106.html). Il duce romagnolo in completo bianco, la femmina sicula in gonna nera e camicia altrettanto bianca, immortalati in uno sguardo di sfida tra sessi, nel tripudio fascistissimo di tutti i gerarchi siculi, ben lontani dalla catastrofe, ben lontani dallo sbarco dell’Husky siberiano del Patton, non immaginavano i suoi latrati, il fiato odor d’acciaio e polvere pirica che si sarebbe abbattuto sulle coste gelesi, fino a Licata, fino a Torre di Gaffe.

Le speranze le portò il Mattei Enrico, marchigiano, figlio del sottufficiale dei Carabinieri, partigiano cattolico, passata la guerra, passato l’Husky, s’era affidato alla mano di Luigi Broggini per dar simbolo alla sua nuova idea d’Italia, un’Italia costituzionalmente democratica ed energicamente indipendente dalle sette sorelle del petrolio.
GELA5Allo scultore varesotto Broggini, e al designer Giuseppe Buzzi, il Mattei chiese di pensare ad un “cane a sei zampe, fedele amico dell’uomo a quattro ruote”. I due si misero a lavoro di lena, e nel ’53 gli portarono il bozzetto. Il drago-cane irsuto di Broggini-Guzzi era rivolto in avanti, ed emetteva la fiamma dinanzi a sé. Poteva sembrare che avesse l'intenzione di bruciare qualcuno. Al Mattei parse aggressivo, per cui la posizione della testa, e di conseguenza la fiammata, furono corrette all'indietro, in una postura non del tutto naturale ma che ricordava la lupa di Roma con sotto i suoi cuccioli d’uomo (Fig. 6). Era nato il marchio dell’Eni a cui seguì quello dell’Enigas, un gatto che sputa fuoco, pure lui all’indietro.
Sia il cane-drago che il gatto-drago dovevano apparire come esseri mostruosi, divine figure mitologiche, ctonie come Cerbero o la Chimera, come del resto è nella natura di una compagnia legata allo sfruttamento del sottosuolo. Pare che Mattei fosse ossessionato dalla leggenda del drago Tarantasio, vissuto nel lago Garundo da dove aveva terrorizzato per secoli la lodigiana. Quando fu scoperto il metano in quelle zone, a Lodi si disse che il mostro, un tempo guardiano delle paludi, fosse scomparso sotto terra dopo la loro bonifica, per essere riapparso in forma di gas. Tarantasio divorava i bambini, fracassava le barche ed il suo fiato pestilenziale ammorbava l'aria causando una strana malattia denominata febbre gialla. In memoria di ciò, una frazione di Cassano d'Adda si chiama ancora Taranta. C‘è poi chi dice che il dragone Tarànto o Tarantasio, dal nome salentino, morì non rinsecchito per il prosciugamento e la bonifica ma perché ucciso dal capostipite dei Visconti che dopo aver massacrato la creatura avrebbe adottato come simbolo il biscione con il bambino in bocca.

GELA6_eni_cane_broggini_ufs1Al Mattei l’idea di fare un grande film documentario sulle risorse energetiche trovate nel sottosuolo italico piacque subito. Coinvolse la Rai come produttore aggiunto e convocò il massimo esperto di documentari al mondo in quel 1960, l’olandese Joris Ivens, il comunista Ivens. L’olandese accettò ma prima di firmare contratti andò dritto dritto dal compagno Togliatti a chiedere l’autorizzazione, il capo disse che si, che si poteva fare, che Mattei non era un padrone come gli altri. Ivens pensò allora a un documentario in tre episodi sull'Italia e sui cambiamenti provocati dalla scoperta di metano e petrolio. Lui avrebbe fatto la supervisione registica finale ma il film l’avrebbero girato i giovani fratelli Taviani, Valentino Orsini, Tinto Brass e il commento l’avrebbe scritto Alberto Moravia. I giovani registi si misero al lavoro, filmarono nel ferrarese, nella lodigiana, ma quando arrivarono in Basilicata si trovarono di fronte alla popolazioni lucane con i bambini pieni di mosche sugli occhi, la fame scavata nelle facce dei loro genitori.
A Gela le cose andarono meglio ma solo in parte, c’era già il Lido Conchiglia, c’erano le serate con Claudio Villa, i concorsi canori per bambine come in “Bellissima” di Visconti, ma tanti gelesi vivevano con l’asino in casa, i picciriddi senza scarpe, eccetera eccetera.
Quando il film inchiesta fu pronto lo portarono a Viale Mazzini dai dirigenti RAI e quelli, in riunione plenaria, dissero che no, che da Piazza del Gesù avevano avuto l’ordine tassativo che non si poteva mica mandare in televisione il documentario comunistico che faceva vedere i panni sporchi in piazza, le mosche, gli asini e gli stracci dei lucani e dei siculi. Il film così fu censurato, rimontato, e il negativo originale fatto sparire. Una copia della versione integrale si salvò grazie alla valigia diplomatica usata da Brass, come raccontato in Quando l'Italia non era un paese povero, film di Stefano Missio che ne racconta le travagliate vicende. Esistono almeno tre versioni dell’Italia non è un paese povero di Ivens e Co.: quella montata dal regista, la versione rimontata dalla RAI con una lunga intervista a Enrico Mattei fatta da Paolo Taviani, la versione industriale con il commento in inglese. Brass aveva iniziato a curare una versione per il cinema, ma l'accanimento contro questo film fece sì che nemmeno il film tv poté andare agli Oscar, perché privo del visto di censura.
 
 
Mattei salutando la moglie prima di partire per la Sicilia, il 26 ottobre 1962, le disse che dalla Sicilia poteva anche darsi che non sarebbe tornato.
Il 26 ottobre a Gela fu festa grande, giornata di sole, visita al cantiere, mangiata in mensa con gli operai, come racconta Dino Carmeci nel suo diario oggi depositato all’Archivio dei Diari a Pieve Santo Stefano. Dino faceva il saldatore al petrolchimico e strinse la mano a Mattei poco prima che rimontasse in auto per Catania. La sera del 27 ottobre, l'aereo Morane-Saulnier MS-760 Paris, su cui Mattei stava tornando da Catania a Milano, precipitò nelle campagne di Bascapè, in provincia di Pavia, mentre durante un violento temporale si stava avvicinando all'aeroporto di Linate. Morirono tutti gli occupanti: Mattei, il pilota Irnerio Bertuzzi ed il giornalista inglese William Mc Hale. Secondo alcuni testimoni, il principale dei quali era il contadino Mario Ronchi (che in seguito ritrattò la sua testimonianza), l'aereo sarebbe esploso in volo.

GELA7Le indagini svolte dall'Aeronautica militare italiana e dalla Procura di Pavia sull'ipotesi di attentato, si chiusero inizialmente con un'archiviazione "perché il fatto non sussiste". In seguito, nel 1997, il ritrovamento di reperti che potevano ora essere analizzati con nuove tecnologie, fece riaprire le indagini giudiziarie. Queste stavolta si chiusero con l'ammissione che l'aereo “venne dolosamente abbattuto”, senza però poterne scoprire né i mandanti, né gli esecutori. In particolare, un'analisi metallografica dell'anello d'oro e dell'orologio indossati da Mattei, predisposta dal perito prof. Donato Firrao, dimostrò che gli occupanti dell'aereo furono soggetti ad una deflagrazione. Nell'aereo - si è certificato - fu inserita una bomba stimata in 150 grammi di tritolo posti dietro al cruscotto dell'apparecchio che si sarebbe attivata durante la fase iniziale di atterraggio, innescata forse dall'accensione delle luci di atterraggio o dall'apertura del carrello o dai flap (Fig. 7).

(25/09/2013 - continua…)

Didascalie immagini:
Gela: immagini tratte da http://www.street-viewing.it/
L'immagine in b/n del lungomare di Gela in testa al pezzo è tratta da http://cronarmerina.blogspot.it/2013/06/estate.html
L'immagine di Mussolini è tratta dal sito indicato nel testo.
Per il simbolo Eni : http://www.adnkronos.com/IGN/Speciali/Eni/?id=3.0.4095006461