Giovanni Cardone Gennaio 2023
Nel leggere Nicolas Borriaud e la sua visione estetica sull’arte contemporanea  e  la teoria filosofica che analizza e valuta le opere d’arte in funzione della loro capacità di produrre relazioni umane e attività sociali. Tale teoria è diffusamente conosciuta come il sistema di pensiero alla base dei processi dell’arte relazionale, vale a dire l’insieme delle pratiche artistiche diffusesi durante gli anni Novanta, soprattutto in contesto europeo e nordamericano, il cui obiettivo primario è lo sviluppo del contesto sociale e delle relazioni interpersonali tramite azioni, eventi o installazioni generalmente allocati in luoghi tradizionalmente deputati alle attività espositive. L’eterogeneo gruppo di artisti mai circoscritti tramite l’adesione a un manifesto o limitati da confini precisi che agiscano in termini prescrittivi sulla definizione di tale movimento che opera entro tali confini mette, dunque, in secondo piano la vera e propria produzione di immagini e/o oggetti – anche se ciò non viene escluso a priori – a favore della creazioni di luoghi che invitino lo spettatore a fare delle esperienze. Per gli artisti relazionali presentare all’interno di una mostra o di un evento artistico uno o più prodotti oggettuali è, dunque, funzionale alle conseguenze che la loro presenza desta nello spettatore e nel contesto: «Il fine non è la convivialità, ma il prodotto di quella convivialità, cioè una forma complessa che unisce una struttura formale, gli oggetti messi a disposizione del visitatore, e l’immagine effimera nata dal comportamento collettivo». Le categorie estetica relazionale e arte relazionale vengono usate in modo diffuso soprattutto a partire dalla teorizzazione che ne fece Nicolas Borriaud . In quegli anni, infatti, il critico francese pubblicò una serie di testi teorici su riviste e cataloghi che accompagnavano esposizioni, che in seguito avrebbe raccolto (affiancandoli a materiale inedito) nel fortunato libro Esthétique relationnelle pubblicato in Francia nel 1998. Tale volume, che nel corso degli anni venne tradotto in numerose lingue, diventò in breve tempo un punto di riferimento ineludibile per la teoria critica recente. Sotto il profilo teorico-filosofico lo scrittore francese rivendica l’appartenenza alla tradizione materialistica francese citando Louis Althusser e lo «stato di incontro imposto agli uomini», ma soprattutto trova negli scritti di Gilles Deleuze e in particolar modo Pierre-Félix Guattari, a cui dedica un intero capitolo del libro, la fonte d’ispirazione per i suoi ragionamenti sull’arte e sugli artisti. Se dal punto di vista normativo il libro di riferimento è Esthétique relationnelle, la prima grande mostra che vide riuniti molti degli artisti che avevano lavorato riferendosi alle procedure lì teorizzate fu Traffic, curata da Bourriaud nel 1996 presso il CAPC Musée d’art contemporain di Bordeaux. In tale esposizione, la prima in cui si fa esplicito riferimento all’arte relazionale, erano stati invitati tra gli altri Henry Bond, Angela Bulloch, Liam Gillick, Douglas Gordon, Gillian Wearing tutti esponenti dei cosiddetti Young British Aritists , gli artisti francesi Dominique Gonzalez-Foerster, Pierre Huyghe, Philippe Parreno, Xavier Veilhan, gli statunitensi Christine Hill, Jason Rhoades, gli italiani Vanessa Beecroft e Maurizio Cattelan, il belga Carsten Höller, il giapponese Noritoshi Hirakawa e il tailandese (nato in Argentina) Rirkrit Tiravanija. Tutti gli artisti citati, per la maggior parte nati negli anni Sessanta, si ritrovano anche nelle pagine di Esthétique relationnelle e possono essere considerati le figure di riferimento di tale movimento. Questo modo di intendere l’arte e i suoi obiettivi non è però prerogativa esclusiva degli artisti invitati dal curatore francese: gran parte delle attività espositive di quegli anni è infatti riconducibile entro tale orizzonte programmatico. Solo per rimanere in Italia, si possono individuare molti artisti della stessa generazione di Cattelan e Beecroft che in quegli anni lavoravano in termini collaborativi o relazionali come, tra gli altri, Cesare Pietroiusti, il gruppo dei Piombinesi Salvatore Falci, Stefano Fontana, Pino Modica, Tommaso Tozzi, Emilio Fantin o Premiata Ditta Vincenzo Chiarandà e Anna Stuart Tovini, presenti anche nel testo di Bourriaud. Partendo dalle teorie di Sergio Lombardo nel 1977 fu  il punto di partenza culturale del Gruppo di Piombino quando Nardone  e Pietroiusti  erano legati al Centro Studi della Psicologia dell’Arte “Jartrakor”, volendo superare la fase stanca e di declino della ricerca pura, in quegli anni, ha inteso restituire centralità alla sperimentazione. Ha puntato a cogliere tra gli spettatori esperienze imprevedibili, quindi eventuali. L’evento è diventato, così, elemento primario nella realizzazione dell’intero processo artistico. L’opera, nella sua fisicità, ha perso qualsiasi valore, senza la sua complementare unità: il fruitore. Il Gruppo di Piombino, pur collocandosi in una posizione di continuità con le teorie del centro “Jartrakor”, è andato oltre. Mentre gli artisti eventuali operavano in un luogo deputato all'arte, ristretto e chiuso, quasi un laboratorio, i piombinesi trasferivano il loro lavoro all'aperto in un vero e proprio spazio pubblico. Mentre nel primo caso lo stimolo era già noto agli spettatori e perdeva pertanto la sua efficacia, nel secondo non doveva essere dichiarato a priori, ma doveva agire senza che il pubblico ne avesse la consapevolezza. Anche l’obiettivo dei piombinesi corrispondeva a quello dell’ Enventualismo che dice : “Che l’arte è un campione rappresentativo, o un modello rappresentativo dei più caratteristici valori di una cultura. L’arte varia al variare di questi valori. Lo scopo dell’arte è proprio quello di esprimere dei valori latenti che tentano di affermarsi caratterizzando una cultura storica. Quello che rende arte un oggetto è dunque il fatto che quell’oggetto è stato scelto a rappresentare certi valori, o sistemi di valori, che non erano mai stati rappresentati prima nella storia e che sono ritenuti una novità, o che comunque sono ritenuti caratterizzanti per una cultura nascente, che si vuole affermare nella storia dell’umanità e che vuole, attraverso la rappresentazione di quei valori nuovi, costruirsi un’identità storica originale. Ciò vale anche se questi valori nuovi che si vogliono affermare sono valori anacronistici. La cultura che si riconosce nei valori anacronistici, infatti, si vuole affermare nella storia come un’idealizzazione di valori del passato. E’ chiaro che questa idealizzazione non può ripetere il passato, ma rappresenta il punto di vista di una cultura attualmente emergente, che idealizza il passato e che perciò rifiuta la direzione verso la quale è orientato il progresso. Ciò che confuta con maggiore evidenza le teorie statiche dell’arte, quelle che ritengono sia l’arte ovvero incommensurabile ed eterna e senza progresso, ma orientata verso eterni e immutabili valori umani, perciò apprezzabile secondo il metodo del tutto o nulla, se è arte, allora è incommensurabile ed eterna, altrimenti non è arte è proprio il fatto che, per quanto si vogliano perseguire valori anacronistici, l’arte è sempre databile storicamente. L’incommensurabilità semmai è dovuta alla diversità e originalità degli scopi delle diverse culture storiche. Se gli scopi culturalmente condivisi sono raggiunti, gli oggetti che rappresentano storicamente questo raggiungimento sono arte, quelli che continuano a raggiungere gli stessi scopi già storicamente rappresentati, magari perfezionandoli tecnicamente, sono oggetti di artigianato. Gli oggetti di artigianato sono utili, ma non sono modelli rappresentativi dei nuovi valori che generano una nuova cultura storica. Cambiare era il centro d’azione e d’uso e ciò che contava, per loro, era sempre il processo innescato da uno stimolo proposto a spettatori inconsapevoli”. Stefano Fontana in ‘Oggetti Smarriti’ del 1987 racconta con la sua opera che:  In una piccola cittadina della Toscana, caratterizzata da un notevole flusso turistico, l'artista ha disseminato “a random” circa 500 rettangolini di legno  di diverso colore. Tutti i rettangolini recavano sulla faccia posteriore una piccola piastra magnetica. Nella piazza principale punto di passaggio obbligato dell'itinerario turistico era stata collocata in bella vista una lavagna metallica. Sui muri della cittadina erano inoltre stati affissi dei manifesti che raffiguravano alcuni rettangolini sormontati dalla scritta “Oggetti Smarriti”. Connettendo tra loro gli elementi descritti, i turisti hanno preso ad attaccare sulla lavagna i rettangolini che casualmente avevano trovato. Ogni ora circa, senza farsi notare, l'artista sostituiva la lavagna con una nuova. Dal momento che questa operazione ha avuto il corso di una intera giornata, ne sono risultate dieci configurazioni successive rese stabili dall'artista. I rettangolini, i manifesti e la lavagna fondano un sistema di possibilità virtuali praticamente infinite entro cui l'opera può essere realizzata. Allo stesso tempo questi elementi definiscono i termini di una situazione-problema che l'artista introduce, in maniera inapparente e non esplicita, nel clichè di una visita turistica. La realizzazione dell'opera scaturisce dal rovesciamento di un comportamento largamente codificato. Essa va infatti a compimento solo se, da una pratica di appropriazione ed eventuale restituzione dietro ricompensa, la situazione creata dall'artista riesce ad ottenere una condotta di restituzione gratuita. Nel dettaglio, è probabilmente il piacere estetico nel comporre delle forme multicolori sulla lavagna a consentire il superamento dell'interesse pratico di appropriazione. Ed è proprio questa emancipazione del comportamento indotto dal principio di utilità che regola la vita quotidiana  che la realizzazione dell'opera assume a suo necessario presupposto a costituire il senso ultimo di questo lavoro di Stefano Fontana. Nel 1991 Stefano Fontana realizzò l'operazione Fatanon. L'idea era quella di simulare la campagna pubblicitaria di lancio di una inesistente linea di prodotti cosmetici, chiamata appunto Fatanon. L'artista mise a punto alcuni dispenser che mettevano a disposizione del pubblico i prodotti cosmetici e invitavano a provarli su delle teste e delle mani di gesso in essi inserite. Questi dispenser, affiancati da un manifesto che riproduceva la testa di manichino sottesa dalla scritta "Fatanon" in caratteri cubitali, furono istallati nei reparti di profumeria di alcuni supermercati. Dopo un certo periodo di tempo, Fontana ritirò i dispenser e li espose in una galleria con le tracce di smalti, rossetti, etc. che le prove del pubblico avevano lasciato sulle teste e le mani di gesso. L'elemento incongruo, inserito nel contesto di un'apparentemente normale campagna pubblicitaria, era senz'altro rappresentato dalle teste di gesso che sormontavano i dispenser e che richiamavano piuttosto la fisionomia dell'extraterrestre del film di Spielberg. Oltre a ciò. come forse già notato, il nome dell'inesistente marca di cosmetici celava l'anagramma del cognome dell'artista. Questa operazione catturava l'espressività involontaria presente nel modo in cui ognuno aveva provato i prodotti sulle teste, generando una scultura involontaria collettiva, secondo una dinamica paragonabile a quella del cadavre esquis surrealista. Le strategie di contrasto, messe a punto dal movimento subliminale diffuso nei confronti delle affissioni pubblicitarie, assumono spesso la forma dell'attacco diretto. Molte delle etichette adesive prodotte - la già citata ‘Non è vero, tutto il contrario è vero, inutile, vergogna’, etc. - possono tranquillamente essere giustapposte ai messaggi pubblicitari stigmatizzandone il contenuto. Una soluzione più radicale sembra tuttavia quella proposta dalla disordinazione Pubblicità legale. Nell’ opera  ‘Pavimenti 1987’ : “La prima operazione di Salvatore Falci consisteva in una serie di lastre di vetro, uniformemente ricoperte da uno strato di tempera nera, che venivano sovrapposte ad alcuni tavoli all’interno di spazi pubblici (pub, sale d’aspetto, aule di scuola, ecc.). Le lastre raccoglievano i segni che la gente lasciava su di esse a graffito. Falci le esponeva quindi ribaltate, sottolineando così il proprio interesse per l’aspetto grafico, piuttosto che per quello semantico, delle produzioni registrate. L’evoluzione successiva del suo lavoro ha ulteriormente precisato questo orientamento. Egli ha infatti messo a punto delle superfici che gli consentono di raccogliere – cristallizzandoli nella fissità della scrittura- i segni che le nostre azioni consuetamente lasciano nel pavimento” scrive Domenico Nardone che prosegue “Tanto nel caso dei tavoli che in quello dei pavimenti che accentuano il carattere involontario del fenomeno preso in esame l’operazione di Falci porta alla luce, nel contesto delle azioni che maggiormente riteniamo svolgersi sempre uguali a se stesse, differenze, a volte macroscopiche, che possono essere ricondotte a specifici situazionali o ambientali”. Nota inoltre Nardone che l’aspetto che Falci sembra maggiormente condividere con i suoi allora compagni di strada, Stefano Fontana, Pino Modica e Cesare Pietroiusti, è quello del coinvolgimento del pubblico nel processo di produzione dell’opera. Pubblico come  autore. “Le superfici di Falci rilevano le tracce di un fenomeno tra i più involontari e automatici immaginabili, quale quello rappresentato dalle azioni che normalmente si svolgono sul pavimento. Eppure le vistose differenze di grafia e di colorazione che emergono nel raffronto tra il pavimento di un ambiente e quello di un altro, stabilendo un nesso di relazione tra la tipologia delle azioni e le caratteristiche proprie dell’ambiente e delle situazione in cui hanno luogo, ne rivelano la non casualità” (Nardone). La rilevazione è diventata rivelazione. (Laura Cherubini). Mentre Domenico Nardone dice su l’opera di Pino Modica : L’artista come “detective universale”, come lo definisce Renato Barilli, il contesto dell’intervento come “luogo del crimine”: questo l’approdo cui giunge Pino Modica in questa ultima fase dell’esperienza piombinese. Lo dimostra l’opera presentata alla galleria Alice in occasione della mostra Storie le lastre di vetro del bancone di un bar, retroilluminate, evidenziano le sagome degli oggetti che vi sono stati poggiati. La metafora dell’indagine poliziesca è calzante, e supportata dalle parole dell’autore l’oggetto ha bisogno di un alibi per inserirsi nella realtà del quotidiano, per non essere riconosciuto come straniante; l’artista agisce come detective che circoscrive e analizza gli indizi; le sagome degli oggetti e le impronte prese sul ‘luogo del delitto’ sono appunto gli indizi, portatori di un’istanza di relazione, di un rapporto instaurato tra l’individuo, l’oggetto, lo spazio, frammenti di un’esperienza quotidiana, di un vivere il delitto, infine, è quello operato dall’oggetto rispetto alla percezione dell’ignaro avventore, tratto in inganno, autore preterintenzionale, complice suo malgrado dell’artista nella sua delittuosa soppressione trasformazione degli aspetti ripetitivi dell’esperienza quotidiana. La ricerca di Modica scandaglia l’interazione tra individuo e macchina come avviene in LabyrinthBiliardino e Flipper e quella sulle Prove materiali. Infine Cesare Pietroiusti le sue opere : Sono riproduzioni ingigantite di piccoli comportamenti, azioni minuscole ed insignificanti di persone qualunque su oggetti qualunque. Quei lavori avevano alcune caratteristiche tipiche degli anni ottanta, perché grandi, costosi e curati nei particolari (e spesso apprezzati dai collezionisti…). La mia risposta alla ideologia “spontaneista” degli artisti neo-espressionisti era iniziata anche prima, a partire dal 1982 quell’anno pubblicai sulla “Rivista di Psicologia dell’Arte” un testo dal titolo Funzionalità ed estetica dello scarabocchio, dove era già esplicita una critica alla pittura anni ’80 e alla Transavanguardia. Forse si potrebbe dire che la mia era una reinterpretazione della critica che Sergio Lombardo aveva mosso, nei primi anni ’60, nei confronti dell’Action Painting. Bisogna, inoltre, sottolineare che, anche a livello storico, non si può considerare questa propensione degli artisti a concentrarsi su contesto e rapporti una novità degli anni Novanta, e anche Bourriaud, in Esthétique relationnelle, indaga il legame con alcune delle principali esperienze artistiche sviluppatesi nel corso del Novecento. L’attenzione al contesto e al ruolo dello spettatore, anche in funzione della ricerca di un significato che l’opera può assumere, trova in Marcel Duchamp la figura di riferimento. Si deve, infatti, soprattutto al lavoro dell’artista francese se l’ambiente, l’allestimento delle opere, l’attenzione degli spettatori, il gioco di relazioni che si possono creare attraverso l’accostamento di oggetti, frasi o immagini, le collaborazioni più o meno esplicite tra artisti sono diventati altrettanti motivi di interesse per le ricerche più avanzate dell’arte contemporanea. A ben guardare anche in gran parte delle sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta si possono individuare gli antecedenti diretti delle pratiche che Bourriaud ascrive all’arte relazionale. Gli happenings di Allan Kaprow o le performance dei componenti del gruppo Fluxus, così come le opere installative degli artisti del minimalismo americano e delle coeve sperimentazioni in Europa – il cui intento era sicuramente di dare spazio alla percezione dello spettatore –, sono da ritenersi ulteriori premesse dell’arte relazionale. Bourriaud però, oltre a individuare le radici di tale movimento, sottolinea anche i punti di divergenza tra l’arte relazionale e le precedenti ricerche. Gli artisti relazionali, infatti, sono affrancati dall’ossessione dell’analisi linguistica e metalinguistica, tipica delle avanguardie degli anni Sessanta, e dall’assoluta preminenza dell’aspetto visivo dei media, che erano elementi fondanti dell’arte degli anni Ottanta e appaiono evidenti nei lavori di artisti come Jenny Holzer, Cindy Sherman o Jeff Koons. Alla base del lavoro degli artisti riuniti da Bourriaud, inoltre, non c’è una comunanza di stile, ma piuttosto un orizzonte comune che si può individuare nella sfera dei rapporti umani, elemento che «sta all’arte di oggi come la produzione di massa stava alla pop art e all’arte minimal». Tale orizzonte, sempre seguendo il suo ragionamento, favorisce scambi orizzontali tra artista e fruitore e tende a far coincidere il piano etico con quello estetico. In altre parole, presentare un momento conviviale, come fa Tiravanija quando condivide le sue zuppe con gli spettatori, rientra nella sfera estetica a patto, però, che la nostra attenzione si sposti dall’oggetto artistico tradizionalmente inteso al meccanismo di socialità e di scambio proposto dall’artista. L’arte relazionale, dunque, nell’analisi che ne fa Bourriaud, si è svincolata sia dagli aspetti esclusivamente per-formativi o di assoluta egemonia del momento progettuale a scapito dell’oggetto, tipica degli anni Sessanta, sia dall’esaltazione delle immagini caratteristica degli anni Ottanta, a favore di momenti di partecipazione sociale (anche suscitati da oggetti che diventano catalizzatori di tali processi), di dialogo con discipline esterne al mondo dell’arte, di attenzione ai processi temporali di trasformazione. Tutti elementi che il critico francese considera capaci di provocare ricadute in termini politici: «L’arte contemporanea sviluppa apertamente un progetto politico quando si sforza di investire la sfera relazionare problematizzandola. Il merito del lavoro di Bourriaud consiste sicuramente nell’aver analizzato e cercato di sistematizzare teoricamente in modo, almeno parzialmente, organico una serie di pratiche artistiche molto diffuse e apprezzate, anche a livello museale, negli ultimi anni del 20° sec. e nel decennio di apertura del 21°. E la fortuna del termine nasce anche dal ruolo ricoperto dal critico francese come curatore di mostre e da quella prossimità con gli artisti che gli ha permesso di non scindere mai l’attività critica da quella curatoriale. Negli anni Novanta Bourriaud ha, infatti, ideato e realizzato numerose mostre tra le più significative e rappresentative del decennio che lo hanno portato anche ad assumere la carica di direttore (assieme a Jérôme Sans) del nuovo centro d’arte contemporanea al Palais de Tokyo di Parigi, sito dedicato alla creazione contemporanea (questo era il titolo voluto dalla direzione) che, soprattutto nei suoi primissimi anni di attività, ha rivestito un ruolo di primo piano nel dibattito artistico internazionale per le innovative modalità espositive che ne facevano un luogo espressamente dedicato all’incontro e alla possibilità di creare relazioni. Il concetto di arte relazionale, e più in generale il lavoro di Bourriaud, possono essere considerati anche esempio di uno sforzo per tenere uniti il campo della critica e della teoria estetica con quello più propriamente curatoriale, aspetto che, a partire dagli anni Ottanta, è diventato prioritario nelle mostre di tutto il mondo. La figura del curatore, proprio in questi anni, infatti, ha assunto una centralità sempre maggiore tanto che spesso, soprattutto nel caso di esposizione temporanee collettive, è diventata importante quanto quella dell’artista. Paradossalmente la primazia di tale ruolo rende meno significativi gli aspetti critici e teorici in favore di una spettacolarizzazione della mostra stessa, delle ‘novità’ introdotte dalla proposta curatoriale e dalla rete di rapporti intessuta con musei e gallerie private. Vista in relazione con le scelte coeve, la proposta di Bourriaud è risultata sicuramente molto più approfondita, ragionata e criticamente convincente rispetto alla maggior parte dei progetti portati a termine dai suoi colleghi attivi sul fronte curatoriale che, pur proponendo molti degli artisti ascrivibili all’arte relazionale, non sono stati sempre in grado di fornire una lettura complessiva del fenomeno. L’arte relazionale è stata anche soggetta ad aspre critiche, spesso ampiamente motivate, che hanno aperto un lungo dibattito non ancora conclusosi. Sulle pagine della rivista «Third text» (2004) è stato infatti imputato a Bourriaud di aver condotto una lettura superficiale delle ricadute politiche di un movimento che in realtà non fa altro che perpetuare le nuove strategie dell’economia globale. Altrettanto dura è stata la critica mossagli da Claire Bishop (2004) sulle pagine della rivista «October» che non sembra riconoscere una specificità e una profondità all’arte relazionale così come viene proposta da Bourriaud, tanto da affermare che, dal punto di vista teorico, le tesi del curatore francese non differiscono in modo sostanziale da quelle esposte da Umberto Eco nel 1962 in Opera aperta. Inoltre, secondo la studiosa, le pratiche artistiche relazionali non si distanziano da un solco già tracciato in passato (Fluxus e Joseph Beuys) e allo stesso tempo non hanno la coscienza politica di altre coeve operazioni artistiche realmente improntate alla creazione delle premesse necessarie per concrete trasformazioni sociali (la Bishop porta come esempi Santiago Sierra e Thomas Hirschhorn). Bourriaud ha in seguito proseguito nella sua ricerca teorica approfondendo l’analisi delle pratiche artistiche recenti sotto altre prospettive, usando, il concetto di Postproduction (2002; v. postproduzione), e la struttura di Radicant (2009), da lui considerati paradigmi in grado di favorire una lettura complessiva della produzione artistica recente. Nel 2002 il critico francese ha curato una mostra al San Francisco Art Institute dal titolo Touch. Relational art from the 1990s to now, sempre incentrata sulle pratiche relazionali in cui ha presentato i lavori di Bulloch, Gillick, Felix Gonzalez-Torres, Jens Haaning, Parreno, Wearing e Andrea Zittel. Anche la mostra theanyspacewhatever, curata da Nancy Spector al Solomon R. Guggenheim Museum di New York tra il 2008 e il 2009, si può considerare un’ulteriore ratifica dell’importanza dell’estetica relazionale. L’esposizione ha visto, infatti, la partecipazione dei dieci artisti più famosi tra quelli promossi da Bourriaud (di cui è presente un testo in catalogo) attraverso libri ed esposizioni: Bulloch, Cattelan, Gillick, Gonzalez-Foerster, Gordon, Höller, Huyghe, Jorge Pardo, Parreno e Tiravanija. Nel suo primo scritto Bourriaud analizza quali siano i caratteri fondamentali che emergono dall’osservazione delle pratiche artistiche negli anni Novanta. Nel testo, attraverso esempi concreti, getta le basi dal punto di vista teorico, pratico ed estetico che hanno portato l’arte relazionale a diventare una delle correnti artistiche più significative dell’ultimo ventennio. Si può dire che ciò che Bourriaud definisce nei suoi libri sono allo stesso tempo una visione personale dell’arte, una teoria della “nuova forma” e una revisione teorica ed estetica nata dall’esperienza personale concreta nel ruolo di curatore e critico. Le origini di questo pensiero, nel senso di spinta ragionata che ha portato il critico a fare determinate affermazioni, sono cercare di definire un nuovo tipo di arte che si può riconoscere come ci ricorda nel suo testo Palais de Tokyo, l’autore Paola Nicolin nella precedente e tutt’oggi attiva militanza di Bourriaud in un gruppo di eclettici giovani intellettuali francesi, che dall’inizio degli anni Ottanta si erano riuniti sotto il nome di Societè Perpendiculaire, di dichiarata ispirazione dada. La società è nata come acerba sperimentazione di un gruppo di liceali interessati alla New Wave e a Tristan Tzara ed è cresciuta come collettivo di ricerca e produzione di eterogenee ricerche artistiche. La Societè Perpendiculaire attraverso riviste, manifesti, saggi e poesie, articoli e libri, è cresciuta come “vita estetica” e come alchemica possibilità di una contemporanea disseminazione culturale in senso ampio. Lo spirito perpendicolare non era dunque ”un corpus dogmatico, una griglia critica, tesa alla raccolta della totalità di un patrimonio da rileggere in un’altra prospettiva.” L’idea era quella di disarticolare la realtà e decostruire il linguaggio. E’ divenuto poi una modalità della critica perpendicolare afferrare un’opera o un artista e dissolverlo sotto un nuovo sguardo. In un’intervista fatta a Nicolas Bourriaud nel 2001, Bennett Simpson chiese esplicitamente a Bourriuad da dove parta l’analisi fatta in Estetica Relazionale, se sia una strategia critica nei confronti degli artisti che sempre ha curato oppure se sia una sua riflessione personale teorica. Egli rispose: Le mie idee riguardo l’estetica relazionale partono dall’osservazione di un gruppo di artisti: Rirkrit Tiravanija, Maurizio Cattelan, Philippe Parreno, Pierre Huyghe, Vanessa Beecroft e molti altri. L’estetica Relazionale è un metodo critico, un modo di approcciarsi all’arte degli anni ’90, cosi come una sensibilità che questi artisti hanno condiviso. Una delle più importanti idee per me è quella che io chiamo “criterio di coesistenza”. Prendiamo ad esempio l’antica arte giapponese e cinese, che lascia sempre spazio allo spettatore di completare la scena. Questi dipinti sono delle ellissi. Mi piace l’arte che permette al suo pubblico di esistere nello spazio in cui essa stessa esiste. Per me, l’arte è lo spazio delle immagini, degli oggetti, e degli esseri umani. L’estetica relazionale è un modo di considerare l’esistenza produttiva dello spettatore dell’arte, lo spazio di partecipazione che l’arte propone. In Estetica Relazionale, Bourriaud fa riferimento soprattutto a occasioni in cui ha avuto modo di aver contatti personali con artisti, occasioni espositive, opere concrete che l’hanno fatto ragionare su questo nuovo modo di pensare e di praticare l’arte. Partendo da appunti e articoli che ha scritto tra il 1993 e il 1998 riguardanti pensieri e annotazioni sul suo lavoro e su quello che lo circonda, è arrivato poi a scrivere questo saggio che analizza nello specifico le pratiche artistiche che hanno come inizio e fine ultimo l’intersoggettività, la relazionalità e il coinvolgimento del pubblico che non è più spettatore ma esso stesso artefice in qualche modo dell’opera. Bourriaud parla della stessa estetica relazionale che Tenta di decodificare e capire le tipologie di relazioni prodotte nello spettatore dalla visione dell’opera. Il minimalismo ha affrontato la questione della partecipazione dello spettatore in termini fenomenologici. L’arte degli anni ’90 invece indirizza la questione in termini di utilizzo.  L’intuizione avuta dal critico è stata messa in scena nella mostra intitolata Il faut construire l’hacienda, evento collaterale ad Aperto ’93 durante la Biennale di Venezia e nella mostra Traffic a Bourdeux nel 1996. Estetica Relazionale è nata da una necessità del critico di formalizzare e conferire dignità teorica alle pratiche artistiche in cui è immerso. Nell’introduzione Bourriaud ha descritto il motivo delle sue riflessioni e ha dato una motivazione specifica alla scrittura che chiarisce le sue idee in merito all’arte degli anni ’90. Secondo l’autore è il momento giusto per cercare di oltrepassare il discorso teorico presente nei dibattiti sull’arte di quel periodo. Bisogna superare i malintesi nella comprensione di quelle opere e bisogna assolutamente abbandonare i metodi tradizionali d’interpretazione in quanto inadatti alla comprensione dell’arte contemporanea. L’interpretazione precedente aveva definito criteri precisi come i tempi di osservazione, la distanza dall’opera, l’oggettività critica, lo studio dell’opera sotto canoni classici come tecnica, storia, struttura. Le opere erano diverse da quelle presenti oggi: l’arte era considerata immutabile e oggetto di osservazione e contemplazione ma non d’interazione. Oggi non si può considerare l’arte come uno spazio da percorrere ma quasi come un periodo da sperimentare e vivere. Non si possono utilizzare i giudizi estetici che sono stati ereditati dalla critica tradizionale e ci si pone il problema di come affrontare le opere in questione che sono considerate da Bourriaud sfuggenti in relazione alla loro conformità legata al comportamento e alla processualità. Soluzione individuata è quella di partire dall’analisi delle opere e della loro forma. In una visione critica si devono individuare le domande che gli artisti si pongono nella creazione di un’opera e tramite queste capire le risposte che ogni artista fornisce. Il bisogno di rintracciare le nuove strutture di pensiero artistico è nato soprattutto dal cambiamento di alcune condizioni sociali e dal cambiamento del modo di vivere nel mondo moderno. La globalizzazione e i rapporti sociali sono variati e così anche la società che è caratterizzata da una riduzione degli spazi sociali in cui ci si può incontrare e si può comunicare. Ciò che è ridotto è lo spazio di relazione tra individui. Proprio per questo motivo, secondo il critico bisogna rilevare quali siano le nuove domande che si pone la società e che si pone l’arte. Un’arte centrata sulla produzione di tali modalità di convivialità come può rilanciare, completandolo, il progetto moderno di emancipazione? In cosa permette lo sviluppo di mire culturali e nuove politiche? In molte occasioni nel saggio ci si interroga sul valore che hanno le relazioni interpersonali in un contesto che ha tolto la spontaneità negli incontri e nelle azioni sia individuali e collettive, in un contesto in cui le relazioni non sono totalmente vissute personalmente ma sono ridotte per la limitazione degli spazi liberi in cui avviene il confronto diretto. Il legame sociale è quasi diventato un prodotto industriale. L’autore si chiede se l’arte e gli artisti possano influire e aiutare a modificare il pensiero e le modalità del confronto. La problematica più attuale dell’arte di oggi: è possibile generare ancora rapporti con il mondo in un campo pratico tradizionalmente destinato alla loro rappresentazione? Contrariamente a quel che pensava Debord, il quale non vedeva nel mondo dell’arte che un serbatoio di esempi di ciò che si doveva realizzare concretamente nella vita quotidiana, la pratica artistica sembra oggi un ricco terreno di sperimentazioni sociali, una riserva in parte preservata dall’uniformità dei modelli di comportamento. Le opere discusse in questo libro danno un resoconto di altrettante utopie disponibili.  Si tratta di un’analisi che presenta l’arte come spazio di sperimentazione, di creazione di relazioni sociali e di modelli e di rapporti, non più un’arte legata alla rappresentazione oggettiva della realtà. Bourriaud ha analizzato il concetto di avanguardia e la possibilità che si possa modificare la cultura e la mentalità attuali restando ancorati a modelli passati. L’autore lo contestualizza in un momento artistico immerso totalmente nell’ideologia del razionalismo moderno. Nel periodo delle avanguardie in qualche modo l’arte preannunciava e preparava le persone al futuro mentre ora con l’arte relazionale si elaborano concretamente modelli di relazione possibili e attuabili nel presente. Il critico ha sottolineato che l’arte del periodo ripropone modelli percettivi e sperimentali legati a filosofi e artisti del passato ma che gli stessi vengono utilizzati non più come fenomeni che prevedono un’evoluzione storica ineluttabile. Al contrario questi modelli si ritrovano come frammentari e isolati e soprattutto non più appesantiti da un’ideologia regolata da rigide norme. L’arte ora può agire senza funzioni prefissate e statiche e può cercare di creare varianti e mondi differenti. L’arte tenta di contrapporre azioni sperimentali di partecipazione collettiva a meccanismi sociali standardizzati, alla costante ricerca di emanciparsi totalmente dalla prevedibilità e dai controlli dati dalle configurazioni tradizionali. Questo è il concetto cardine del pensiero che sta alla base di Estetica relazionale: l’opera che vuole modificare il modello di partecipazione collettiva e che diventa interstizio sociale, modificando il modo di fruizione stesso. È importante riconsiderare il ruolo delle opere nel sistema globale dell’economia, simbolica o materiale, che regge la società contemporanea: per noi, al di là del suo carattere commerciale o del suo valore semantico, l’opera d’arte rappresenta un interstizio sociale. Il termine interstizio fu utilizzato da Karl Marx per qualificare quelle comunità di scambio che sfuggono al quadro dell’economia capitalista, poichè sottrae alla legge del profitto: baratti, vendite in perdita, produzioni. L’interstizio è uno spazio di relazioni umane che, pur inserendosi più o meno armoniosamente e apertamente nel sistema globale, suggerisce altre possibilità di scambio rispetto a quelle in vigore nel sistema stesso. Bourriaud non ha parlato di una modificazione a lungo termine, di non pensare al futuro come spazio temporalmente ampio ma di considerare il periodo temporale di un giorno o al massimo di una mostra. Si tratta di micro-utopie che vanno a sostituirsi all’utopia in senso ampio. Le utopie sociali e la speranza rivoluzionaria hanno lasciato il posto a micro-utopie quotidiane e a strategie mimetiche: ogni posizione critica diretta della società è vana, se si basa sull’illusione di una marginalità oggi possibile, quando non regressiva.  L’obiettivo centrale di questa nuova sensibilità artistica è quindi la presentazione di modelli di partecipazione sociale più o meno concreti all’interno dello scenario socio culturale contemporaneo. L’arte relazionale produce attraverso questi modelli una serie di strette connessioni con il presente. Non si limita a fare un’analisi critica della società ma fa delle proposte attraverso strumenti con cui intervenire nella quotidianità. L’attività artistica si sforza di stabilire modeste connessioni, di aprire qualche passaggio ostruito, di mettere in contatto livelli di realtà tenuti separati gli uni dagli altri. L’artista crea opere e momenti di relazione, di socialità e cerca di riempire con il suo lavoro i vuoti presenti nel tessuto relazionale. La pratica artistica di questi professionisti indaga i processi intersoggettivi di scambio sociale e di comunicazione e le loro opere diventano punti di riferimento nei rapporti interpersonali. La forma artistica contemporanea si estende oltre la propria materialità e diventa elemento legante. L’arte non presenta e rappresenta la realtà, ma la produce creando qualcosa di nuovo rispetto al passato. Questa nuova corrente è diventata interprete di un desiderio condiviso, una sorta di riappropriazione della dimensione collettiva in risposta alla crescente disgregazione della socialità contemporanea prima descritta. La sfera artistica risponde a questo disagio attivando una maggiore attenzione verso le relazioni interpersonali, analizzandone i meccanismi per riproporre forme nuove di socialità anche concretamente realizzabili. L’elemento sociale e l’interesse per modelli di condivisione hanno fatto coincidere l’intervento artistico con altri interventi facendo sì che ci sia anche una progressiva evoluzione del ruolo dell’artista che si avvicina alla progettualità in modo differente. Quest’orientamento evolutivo mira al raggiungimento di una comunicazione diretta e biunivoca tra artista e spettatore escludendo la mediazione altrui. In Estetica Relazionale di Bourriaud ci si chiede quale sia la forma dell’opera relazionale. Il critico risponde all’interrogativo richiamando il “materialismo dell’incontro”, secondo il quale tutto è dato dal principio di casualità e di istantaneità del presente e dell’attimo contrapposto a teorie escatologiche che risultano vane. Questa visione filosofica è derivata dalle teorie di Lois Althusser che parla appunto di questo concetto. Il materialismo dell’incontro ha come punto di origine la contingenza del mondo, che è considerata priva di un senso che la preceda e senza una ragione che determini la sua fine. Secondo questa logica anche l’umanità e l’incontro sono privi di un’origine e una fine, ma si esprimono tramite la forma sociale che è incontro casuale tra individui. Bourriaud precisa che l’estetica relazionale non è una teoria artistica ma piuttosto una teoria della forma, dedica molto alla riflessione sulle forme strutturali e tecniche con cui gli artisti si esprimono. C’è una nuova concezione del termine “forma”, l’opera artistica in questo momento particolare si dà al pubblico più come “fatto” che come “cosa”, fatto che si realizza nel tempo e nello spazio senza una forma precisa ed elaborata: da un oggetto esposto si passa ad una situazione che ingloba lo spazio e si concede in esso. L’arte fa tenere insieme momenti di soggettività legati a esperienze singolari. Nel testo Estetica Relazionale la forma è data dall’incontro tra elementi che sono sempre stati paralleli tra di loro. Il richiamo è quello dell’artista e del suo pubblico. Essi sono elementi diametralmente opposti e dotati ognuno di una propria individualità e personalità che si mescolano e sono in grado di rapportarsi se si trovano a condividere uno stesso spazio. Il critico porta ad esempio delle sue tesi testimonianze di opere che sono predisposte a questa forma relazionale, che si propongono principalmente di formare quest’incontro in ambiti museali e istituzionali. Musei, gallerie e fondazioni diventano, come le definisce Bourriaud, micro-comunità e i momenti di relazione avvengono quindi in un ambiente museale e artistico. L’opera nasce da questo incontro in cui lo spazio è mediatore. L’intersoggettività non rappresenta solo il quadro sociale della ricezione dell’arte che costituisce il suo ambiente e il suo campo, ma diventa l’essenza della pratica artistica. È centrale quindi nella creazione di queste opere che lavorano su di essa e tramite essa. È nostra convinzione che la forma non prenda consistenza, non acquisisca una vera esistenza, se non quando mette in gioco delle interazioni umane. La forma di un’opera d’arte nasce dalla negoziazione con l’intelligibile che abbiamo ereditato. Attraverso essa, l’artista avvia il dialogo. L’essenza della pratica risiede così nell’invenzione di relazioni fra soggetti; ogni opera d’arte sarebbe la proposta di abitare un mondo in comune, e il lavoro di ciascun artista una trama di rapporti col mondo che genererebbe altri rapporti, e così via, all’infinito. La forma così intesa dal critico francese non è un dato permanente e duraturo, tuttavia questa sua caratteristica non ha accezione negativa, ma al contrario ha valore positivo per il rapporto dinamico che può instaurarsi tra gli elementi. La mostra diventa la nuova unità di base dell’arte. In precedenza la mostra era considerata in un’ottica promozionale in cui l’artista esponeva le proprie opere che potevano esser viste da un pubblico. L’unità di base era l’opera, era l’oggetto artistico in quanto cosa oggettiva preziosa e speciale che aveva bisogno di un luogo preposto e di una progettazione circostanziata. L’esposizione era pensata per l’opera e solo per lei ma avviene un cambiamento sostanziale. L’opera e la mostra a livello espositivo ci danno la sensazione che si fondano l’una con l’altra e nessuna delle due ha preponderanza perché entrambe sono “in tempo reale”. Bourriuad ha descritto un esempio di questa fusione durante una mostra curata da lui stesso Ogni artista che esponeva poteva, nel periodo dell’esposizione, modificare il suo operato artistico e addirittura poteva decidere di sostituire l’opera con qualcos’altro. L’interazione dello spettatore in questa situazione è stata fondamentale e determinante per la costruzione della struttura espositiva che è diventata duttile e modificabile nel tempo. Il centro d’interesse degli artisti relazionali è quindi traslato rispetto alle correnti precedenti: dall’artista stesso, al pubblico, alla voglia di partecipare, di comunicare e condividere. L’arte assume allo stesso tempo una sorta di funzione sociale agendo tramite il pubblico. Un’arte di questo genere è considerata per molti aspetti “pubblica” perché comunica senza interferenze con gli stessi fruitori e da essi può ricevere allo stesso tempo una risposta attiva e reattiva. Tuttavia Bourriaud rifiuta l’apparentamento con la cosiddetta Public Art. Lo spazio in questo tipo di commento cambia funzione e diventa luogo all’interno del quale si contestualizza l’interazione e l’intervento artistico. Tutto questo non è del tutto nuovo nella realtà artistica del Novecento e non basta per spiegare la novità della relazionalità in queste pratiche. Il critico nel saggio Estetica Relazionale ne è consapevole spiegando che ogni opera d’arte è l’incontro e la negoziazione tra spettatore ed opera e, per sottolineare che si tratta di un processo dinamico, specifica che quella che avviene è un’evoluzione. Dopo l’ambito delle relazioni fra l’umanità e la divinità, poi fra l’umanità e l’oggetto, la pratica artistica si concentra ormai sulla sfera delle relazioni interpersonali dall’inizio degli anni Novanta. L’artista si concentra sui rapporti che il suo lavoro creerà nel pubblico, o sull’invenzione di modelli di partecipazione sociale.  In Estetica Relazionale vengono citati molti artisti che Bourriaud inserisce come appartenenti a questa nuova estetica. Un capitolo viene dedicato soprattutto a quello che ritiene che formalizzi in senso compiuto le teorie ufficiali dell’estetica relazionale: Felix Gonzales Torres. Nelle sue opere si ritrovano degli aspetti teorizzati da Bourriaud, come la convivialità e la disponibilità dell’opera nel confronto con lo spettatore. Anche se le opere sono caratterizzate per la maggior parte della sua carriera da un significato simbolico preciso, la precarietà e la ridotta durata temporale di esse fanno si che rientrino nell’analisi. L’opera è considerata dall’artista stesso come un “dono”, egli stesso voleva offrirsi in piccoli frammenti al suo pubblico, per esempio grazie alle caramelle negli angoli delle gallerie con le quali vuole esprimere il grave momento personale che sta vivendo. Ha anticipato il lavoro di artisti che vengono dopo di lui, in particolare sviluppando la consapevolezza dello spazio come ambiente legato all’intersoggettività a all’abbandono di se stessi nel rapporto con gli altri. Ha anticipato in particolare una specie di negazione verso la forma completamente statica. L’istanza anti-formale è sfociata in un processo e in un’opera che viene “creata” e modificata dall’interazione con lo spettatore. Nella parte conclusiva del testo il critico si è soffermato più volte sulla riflessione di Felix Guattari. La nozione di soggettività descritta dalla sua filosofia voleva essere una risposta alle patologie derivate dal capitalismo che secondo Guattari, con tutto quello che deriva dall’accumulazione e dal consumo di prodotti, ha generato una specie di vuoto nella soggettività delle persone. Proprio per questo vanno considerate delle tecniche per recuperare questa soggettività. In questi pensieri si inserisce la teoria di Bourriaud, che vede nell’arte un aiuto prezioso per il recupero e per l’esercizio della soggettività. L’arte nella contemporaneità diventa uno spazio d’ibridazione in cui vari metodi, concetti e idee si mescolano e si integrano per definire spazi relazionali nuovi. L’ibridazione diventa una delle caratteristiche predominanti nelle opere legate all’estetica relazionale. Come potremmo descrivere le opere degli artisti relazionali? Happening? Performance? Installazioni? Negli anni Novanta le opere sono diventate altamente refrattarie a definizioni univoche. Esse danno allo spettatore notevoli spunti per una riflessione, presentandosi come modelli di partecipazione attiva più o meno concreta che fanno pensare. Innanzitutto bisogna accettare che le pratiche performative in cui la partecipazione dello spettatore è più o meno presente sono diventate una costante della pratica artistica moderna. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti esse derivano da soluzioni anteriori agli anni ‘90 e vengono qui riprese dagli artisti contemporanei. Il fattore interattivo è sempre presente ed è una costante più che marcata nella contemporaneità. D’altro canto anche una veloce riflessione sulla società odierna ci fa capire che si vanno a formare ogni giorno nuovi spazi in cui comunicare e in cui formare collettività e in cui relazionarsi. Grazie a nuove tecniche e al sempre più presente internet nelle case, si capisce quanto stia diventando sempre più importante la ricerca di nuovi spazi di convivialità e di relazione. Le persone cercano il dialogo, cercano la relazione dietro i loro schermi, attraverso sempre più numerosi canali di comunicazione. Spazi però che non sono i luoghi pubblici e relazioni che non sono dirette e personali, ma sono tramite medium comunicativi che standardizzano qualsiasi contributo. Artisti come quelli analizzati non fanno altro che dar la possibilità attraverso le loro creazioni di allargare questo desiderio relazionale creando spazi aperti e opere non chiuse che presuppongono la negoziazione tra interlocutori e destinatari in un dialogo continuo e allargato. Si fa un passo in avanti, perché se l’interazione tra spettatore e opera c’è sempre stata e l’interazione è intrinseca nel processo artistico, in questo momento le relazioni tra individui e i modi di relazionarsi diventano in tutta la loro complessità vera e autentica forma artistica che merita di essere analizzata e studiata in quanto tale. Per completare questa rapida premessa alle forme artistiche dell’estetica relazionale, ricordiamo che esse si presentano allo spettatore in modi completamente differenti le une dalle altre, e che esse presentano pochi punti in comune tra di loro dal punto di vista rappresentativo, ma si possono riunire sotto la stessa volontà d’interazione e comunicazione. Nicolas Bourriaud cerca di classificare le forme che studia in categorie specifiche nelle quali si possono ritrovare le diverse pratiche artistiche. Quelle che in Estetica Relazionale sono le tipologie vengono denominate in cinque sottogruppi: connessioni e ritrovi, convivialità e incontri, collaborazioni e contratti, relazioni professionali e clientele ed infine occupazione delle gallerie. Siamo abituati a pensare all’opera d’arte che si dà al pubblico nella sua materialità e in tutta la sua disponibilità di spazio temporale, siamo abituati a pensare a queste opere come oggetti “fissi” che non mutano nel loro aspetto nel tempo e nel luogo in cui sono posizionate ed esposte. L’opera per questa caratteristica si può dare allo spettatore in qualunque momento. Questo cambia nella contemporaneità, l’opera diventa non disponibile in ogni istante ma si può vedere solo in un determinato periodo e tempo. Bourriaud parla di “non-disponibilità” e l’esempio perfetto è il caso della performance di cui rimane solamente una mera documentazione al termine della stessa. Le opere che sono inserite in questo sottoinsieme sono chiaramente caratterizzate da un contatto che si instaura tra artista e spettatore, in un tempo preciso e reale e solo tra chi convoca l’artista nella partecipazione. L’opera suscita incontri e fissa appuntamenti, gestendo la propria temporalità. Performance che molte volte non sono gestite nella loro forma classica ma in modo diverso. Per esempio come nel momento in cui i fruitori sono stati obbligati a spostarsi per assistere ad una data esperienza descritta dall’artista che li invitava alla partecipazione, come nel caso delle opere di Robert Barry, che ha come fonte e oggetto principale delle sue opere le parole oppure nel caso di un’opera che sopravviveva nel tempo nella forma di biglietti o lettere inviati nel futuro a determinati destinatari con scritta data e orario di un dato ritrovo. Nel mio lavoro il linguaggio di per se stesso non è l’arte. Uso il linguaggio come un segno per indicare che c’è arte, la direzione nella quale questa esiste, per preparare a essa.  Tutto questo va a dimostrare la funzione relazionale dell’opera nella quale sono presenti più persone contemporaneamente. Innanzitutto è da sottolineare che l’arte ha una funzione ben particolare nella produzione collettiva della società, dato che il suo scopo ultimo è fatto dello stesso materiale del quale è intriso lo scambio sociale. Quando un’opera d’arte riesce ad arrivare alla sua realizzazione completa, essa mira al superamento della sua semplice presenza nello spazio. L’opera deve creare dialogo e discussione, in una sorta di negoziazione tra individui, che va a comporre il significato. Ogni creazione mostra allo spettatore nello stesso tempo la produzione e la fabbricazione fisica della stessa e contemporaneamente la sua funzione all’interno di determinati scambi tra opera e spettatore con relativi ruoli. Quest’ultimo passaggio è molto rilevante, perché in realtà ciò che è sempre stato considerato opera è il risultato di un percorso che deriva dal comportamento dell’artista: è la somma quindi di una serie di passaggi che derivano da atti e pensieri della persona che fanno sì che l’opera acquisisca una certa presenza e rilevanza nella contemporaneità. Bourriaud definisce “trasparenza” questa disposizione dell’opera che esprime pienamente questo comportamento, che permette di capire semplicemente i gesti e gli effetti che la formano e la riempiono di significato, e che quindi sono parte integrante del soggetto. La trasparenza della produzione, è un ordinamento che crea scambio, anche in ambito sociale. Ed è proprio in questo preciso momento che avviene lo scambio, la relazione, e quindi è in questo caso che si esprime a tutto tondo la vera funzione dell’opera, la sua flessibilità e la sua disponibilità di apertura al prossimo. In effetti è proprio quando si apre allo scambio e alla comunicazione che assume reale significato nella società. Si crea quasi un commercio, una negoziazione che ha come argomento comune un valore che può esser condiviso o meno, come fosse una merce qualsiasi e che invece non è. Una merce che però, nello scambio tra artista e spettatore, non presenta una regolazione tramite moneta, e quindi tramite una cosa comune tra gli interlocutori, ma tramite valore. Quello che determina questo rapporto è un comportamento che accomuna la pratica artistica personale, quindi in conclusione vengono prodotte relazioni tra persone tramite oggetti estetici diversi. Infatti ogni artista, in particolare ogni artista che lavora in campo relazionale, lavora seguendo un determinato modo di fare e comportarsi, oltre che ad una determinata estetica che è quella relazionale e assemblando un sistema di forme predefinito, e un percorso e una problematica stilistica che non è mai uguale a quella di un altro artista. I diversi autori non condividono nessuna tematica o iconografia ma operano in seno a uno stesso orizzonte teorico che è la sfera dei rapporti tra le persone. Le opere mettono in moto scambi sociali, diventano in qualche modo interattive e si relazionano con lo spettatore all’interno di esperienze estetiche che vengono proposte e create. Il soggetto delle opere gira attorno a questa ricerca di relazione, e tutti i protagonisti sono accomunati dalla sfera relazionale lasciando in secondo piano nella maggior parte dei casi la visività. Negli anni Novanta l’osservatore diventa interlocutore diretto, e questo la differenzia da tutte le pratiche artistiche che l’hanno preceduta. Per la prima volta dopo l’arte concettuale degli anni Sessanta questi artisti non reinterpretano un movimento del passato, ma tentano qualcosa di differente. Non viene ripreso nessuno stile, ma l’opera ha principio dall’osservazione del presente e da un’analisi del destino dell’arte nel futuro. La novità sta nel fatto che questa corrente artistica considera la relazione sociale come punto d’inizio e di termine dell’esperienza artistica. Lo spazio è quello dell’interazione tra individui, che è uno spazio aperto in cui si formano esperienze interpersonali che cercano di oltrepassare le restrizioni della quotidianità. L’arte relazionale cerca di elaborare modelli di partecipazione alternativi e costruiti. L’arte non cerca più di figurare utopie, ma di costruire spazi concreti. Le opere sono quindi il risultato della personalità dell’artista che si mette da parte e che utilizza spazio e tempo a suo piacere e innanzitutto parte dal rapporto umano e dagli incontri tra individui. In concreto le opere non sono oggetti comuni commercializzabili, ma in realtà ciò che è considerato l’oggetto del lavoro è un rapporto personale con il mondo, che si concretizza in un’opera che determina le relazioni che si hanno verso questo rapporto. A partire dai saggi di Nicolas Bourriaud si è gradualmente affermata questa corrente estetica che dagli anni Novanta ha fortemente contrassegnato la pratica artistica contemporanea.
Una breve analisi di quelle che sono state le maggiori esposizioni che testimoniano l’evoluzione di questa corrente è importante per capirne il significato e il senso della pratica. Il passaggio fondamentale per la reale legittimazione di queste pratiche è stata la mostra curata dallo stesso Bourriaud, Traffic del 1996, tenutasi presso il CAPAC di Bourdeaux. Questa tendenza artistica poi ha sconfinato in mostre dal carattere internazionale come per esempio la XXVII edizione della Biennale di San Paolo. È considerata però vera e propria approvazione di questa corrente relazionale la retrospettiva Theanyspacewhatever, curata da Nancy Spector la quale riunisce la maggior parte degli artisti che Bourriaud segue presso il Guggenheim di New York nel 2009.