Ma oltre che artistici i suoi collegamenti con Firenze erano anche di natura politica: infatti Ferdinando I da qualche tempo stava rinsaldando i rapporti con la corte di Parigi ed ora poteva anche contare sull’autorità di quella che in effetti era sua nipote, oltre che (dal 1600 al 1610) consorte di Enrico IV e poi reggente dopo l’assassinio di questi, per la cui riabilitazione presso la corte papalina, avvenuta nel 1594 dopo la nota abiura, si era speso anche il Granduca inaugurando quella strategia di riavvicinamento, già culminata nel matrimonio (1586) con Cristina di Lorena, che tendeva ad allentare i tradizionali legami con gli spagnoli.
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Solo alla fine del Seicento, come scrivono Carofano e Paliaga, “la fortuna del Riminaldi tocca un vero e proprio apice” nel Granducato, in forza dell’attrazione dimostrata per la sua pittura da un altro Ferdinando de’ Medici, il Gran Principe, così chiamato perché non divenne mai Granduca a causa della sifilide che lo portò prima alla pazzia e poi alla morte (1713). Questi, che aveva ereditato l’
Amor vincitore oggi alla Galleria Palatina, non ebbe remore a far prelevare dal Duomo di Pisa il
Mosè innalza il serpente di bronzo collocandolo nei suoi appartamenti di Palazzo Pitti, arrivando a possedere ben cinque dipinti di Riminaldi.
Va detto che l’ interesse verso l’artista è sempre stato molto ondivago, con alti e bassi fino alle epoche più recenti. Escluso dal repertorio
Die Malerei des Barock in Rom di
Hermann Voss (1923), venne recuperato negli
Ultimi studi su Caravaggio e la sua cerchia (1943) da
Roberto Longhi, capace di leggerne la “duplicità di linguaggio”, cioè la distanza qualitativa tra pitture come quelle del Duomo di Pisa “slentate e fiacche” ed invece opere quali l’
Amor Vincitore o il
Martirio di Santa Cecilia; ed anche la definizione che il grande critico gli diede di pittore “intensamente caravaggesco”, ma “equivocando su alcune opere”, a parere dei due studiosi, tuttavia “fu un
assist raccolto trent’anni dopo con diverso respiro e taglio critico dalle sole Evelina Borea e Mina Gregori”.
Da tutto ciò deriva che per avere una visione più ampia del ‘caso’ Riminaldi, è necessario inserirlo - per quanto possibile in questa sede - all’interno dei due contesti particolari dove egli visse ed operò:
la corte granducale e quella romana, in cui le vicende che ci interessano furono il frutto di intrecci, a volte casuali a volte voluti, di situazioni che attraversarono le esistenze degli individui provocando conseguenze straordinarie sia nel campo del viver civile sia nei linguaggi dell’arte.
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Intanto la Toscana e Firenze. Quando Orazio Riminaldi nacque, Ferdinando I governava già da sei anni il Granducato; impegnato a trasmettere un’immagine salda del potere mediceo, egli concepì l’arte come una sorta di instrumentum regni; si pensi al posizionamento delle due statue equestri commissionate al Giambologna raffiguranti il padre Cosimo I e lui stesso in piazze ‘strategiche’ di Firenze, come piazza della Signoria e piazza della SS. Annunziata. Notevoli anche le imprese architettoniche cui diede luogo, quali l’ampliamento di Palazzo Vecchio, la costruzione del Forte del Belvedere e l’inizio dei lavori della Cappella dei Principi in San Lorenzo, autentica attestazione della forza politica della famiglia, come del resto fu l’incremento della marina, cosa che gli consentiva peraltro di accrescere la propria considerazione quale difensore del Mediterraneo contro gli infedeli.
Vero è che questa immagine aveva avuto anche riscontri importanti con lo sbarco a Famagosta e l'occupazione di Bona (1607) e, addirittura, con il clamoroso progetto mai realizzato - posto che fosse stato davvero immaginato - di “recuperare con le ardite galere il Santo Sepolcro di Cristo dalle mani degli infedeli”, valendosi di “un certo numero di scarpellini i quali staccassero dal masso quella particolar parte del Sepolcro Santissimo”, come venne svelato nel corso della sua orazione funebre (Vedi Massimiliano Rossi in
L’arme e gli amori, Firenze, 2001, pag. 36).
Il suo governo, in effetti, fu caratterizzato non solo dalla fama di tenace combattente antiottomano, ma in generale dal suo profondo “zelo controriformistico” che peraltro condivise con la moglie, Cristina di Lorena, passata non senza ragioni alla storia come una sorta di “bigotta”.
Figlia del duca Carlo III di Lorena - tra i massimi esponenti della ultracattolica casata dei Guisa - e di Claudia di Valois, la giovane granduchessa “belle, sage, vertueuse, bonne et douce", che tra l’altro rivendicava - a ragione o a torto - una discendenza da Goffredo di Buglione, simbolo stesso della salvaguardia della religione e della lotta agli infedeli, era cresciuta in un clima cupo e spietato, caratterizzato dal sanguinoso conflitto tra cattolici ed ugonotti che non potè che trasmetterle un sentimento di aderenza al cattolicesimo tanto radicale quanto intransigente, che a sua volta trasmise alla corte.
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Fu in un contesto del genere che
Orazio Riminaldi mosse i primi passi nella professione di pittore, ma il suo, come affermano Carofano e Paliaga, rimane ancora un “oscuro inizio”; non è chiaro, infatti, il motivo per cui il padre Francesco “avviasse il figlio all’esercizio pittorico sviandolo dalle tradizionali occupazioni famigliari” e nemmeno si sa quando entrò a bottega per imparare il mestiere, eccetto che i suoi maestri iniziali furono prima il misconosciuto
Ranieri Borghetti e poi il ben più noto
Aurelio Lomi, tra i più eminenti artisti toscani del tempo.
Il suo impatto sul giovane, peraltro, non dovette essere così sostanziale, se è vero che “a scorrere l’intera produzione del Riminaldi non si scorgono elementi compositivi e stilistici riconducibili a quel magistero”, se non in qualche passaggio di un non eccezionale
Sacrificio d’Isacco (fig. 3), tema più volte replicato, eseguito “verosimilmente non appena giunto a Roma”, che risentirebbe ancora, per l’appunto, del ”retaggio tardo-manieristico del suo maestro Aurelio Lomi”.
Sarebbe questa una di quelle “rare primizie riminaldesche”, come la classificano i due studiosi, che induce a ritenere che proprio grazie alla frequentazione della bottega del Lomi - “organizzata, capace di soddisfare qualsiasi richiesta” - il giovane Orazio potè penetrare i segreti del mestiere, le tecniche e i moduli compositivi che ne forgiarono lo stile, tanto che quando nel 1620, ormai ventisettenne, ricevette l’incarico di dipingere per la
Tribuna del Duomo di Pisa il
Sansone vincitore sui Filistei (fig. 4) era evidentemente ormai consapevole delle sue capacità, al punto di poter sfidare sul suo stesso terreno un mostro sacro come
Guido Reni, autore di un quadro simile.
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Orazio dipinse quell’opera sicuramente a Roma, dov’è documentato nel marzo del 1620, quando ottenne la commissione; e non è forse troppo fantasioso immaginare - anche se ci pare che nessuno l’abbia fatto – che, nel particolare momento storico che stavano vivendo la corte papale e i cattolici in generale, quel testo potesse assumere un significato fortemente evocativo anche sotto l’aspetto religioso, come una sorta di auspicio per l’agognata vittoria nel conflitto politico-religioso che si era aperto tre anni prima in Europa: una sorta di metafora visiva, insomma, che in effetti si sarebbe materializzata nell’esito clamoroso della battaglia cosiddetta della Montagna Bianca, dove le truppe cattoliche, nel novembre 1620, avrebbero sbaragliato quelle protestanti quasi per miracolo, mettendo fine alla prima fase della Guerra dei Trent’anni.
Le cronache dell’epoca narrano in effetti che nei luoghi dove stava per svolgersi lo scontro, nei pressi di Praga, il frate spagnolo Domenico di Gesù e Maria, dei carmelitani scalzi - “il quale è homo santissimo e per il cui mezzo ha operato il Signore molti miracoli” - aveva ritrovato proprio “nel mezzo della strada gettata una Tavoletta nella quale era dipinta l’Imagine della Madonna inginocchiata con il Bambino posatogli davanti sopra la veste, et Santo Giuseppe et due Pastori, alle quali figure tutte, eccetto il Bambino, erano stati guasti gli occhi quasi con un punteruolo dagli Heretici et poi l’havevano gettata nella strada” (G. Gigli,
Diario di Roma, vol. I, 1608-1644, a cura di M. Barberito, Roma 1994, pp . XXIII e 103).
E’ cosa nota come lo stesso fra’ Domenico imbracciando quasi a mo’ di arma quell’immagine della Vergine si fosse posto alla testa delle truppe cattoliche che al grido di Santa Maria! sconfissero i protestanti. L’audacia dell’azione, a fronte di un nemico superiore in uomini e mezzi, aveva fatto subito credere che la vittoria fosse frutto di un evento miracoloso; pare che lo stesso Massimiliano Wittlesbach, duca di Baviera e principe elettore del Sacro Romano Impero (nonché cognato di Ferdinando I de’ Medici per parte della prima moglie, Eleonora di Lorena), le cui truppe avevano riportato la vittoria, volle dare la notizia a Paolo V parafrasando il celebre motto di Giulio Cesare :”Sono venuto, ho visto, ma è Dio che ha vinto”.
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Non è improbabile che Riminaldi fosse arrivato a Roma già da qualche anno, forse “tra il 1615 e il 1619” come giustamente ritengono i due studiosi, ma quel che è sicuro è che assistette senz’altro a qualcuna delle solenni processioni e delle fastose cerimonie di ringraziamento che si protraessero per vario tempo, in una delle quali peraltro, nel 1621, si dice che il pontefice venisse colpito da infarto, venendo a mancare dopo pochi giorni. Ma un particolare significato ebbe quella dell’8 maggio 1622, allorquando l’immagine miracolosa “fu ricevuta nella Chiesa sopradetta di S. Paolo da Papa Gregorio con suavissima musica et suoni”, e la stessa Chiesa “dalla voce del popolo non fu più chiamata la Chiesa di S.Paolo, ma della Madonna della Vittoria” (com’è in effetti nota ancora oggi).
Proprio mentre tutto ciò si verificava, il
Sansone di Orazio Riminaldi veniva dunque collocato nella
Tribuna della Cattedrale pisana di Santa Maria Assunta, dove si trova tuttora: Carofano e Paliaga suppongono che la eccessiva gestazione - oltre due anni - dell’opera, per di più “di dimensioni non straordinarie e d’impaginato piuttosto semplice”, sia da ricercare in “qualche incomprensione con la committenza”, oppure nel fatto “che egli volesse offrire il meglio della sua arte” per potersi presentare con le carte in regola nei confronti dei committenti, mentre Gianni Papi fa riferimento ad un “aumento degli impegni professionali”.
A suo tempo Roberto Paolo Ciardi - opportunamente citato dai due autori - aveva analizzato il senso politico-civile di quelle pitture, facendo notare come la Tribuna venisse “riservata al ceto dirigente, laico o ecclesiastico che fosse”, mentre il corpo dell’edificio “alla massa dei fedeli”. Lo scopo era chiaro: ammettere infatti gli “acculturati” nel vano absidale, “là dove un tempo era glorificata sotto la parvenza della tomba di Arrigo (Arrigo VII di Lussemburgo, ndA) l’antica potenza della libertà pisana”, sarebbe suonato come un ammonimento neanche troppo larvato: come se i dominatori fiorentini volessero indurre la crema della società pisana a “riflettere sulla necessità della rassegnazione e dell’ossequio”.
Una lettura insomma tutta in chiave esortativa del programma iconografico che, secondo lo studioso, rispondeva “alla funzione discreta ma evidente di allusiva propaganda politica” con “l’utilizzo in funzione didascalica dei contenuti religiosi e il loro uso strumentale per fini politici” (R.P. Ciardi in
La Tribuna del Duomo di Pisa, Milano 1995, p. 37).
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E tuttavia, nel contesto che abbiamo brevemente ricostruito, certe figurazioni non potevano non mandare anche un altro segnale, certamente da ricollegarsi ad un’efficace forma di propaganda religiosa, tesa al ribadimento delle ragioni e della forza del cattolicesimo romano. Il che può altresì spiegare il motivo per cui il tema del
Sansone vincitore sui Filistei venisse replicato da Riminaldi, peraltro con una modalità figurativa molto differente (fig. 5), che effettivamente, come scrivono Carofano e Paliaga, lo rende “fratello” del
Caino e Abele di Pommersfelden”(fig. 6), definito “una zuffa furiosa e scomposta” (M. Pupillo) - con quel groviglio di corpi “studiati in modo analitico, ripresi dal vero, verosimilmente osservando lottatori in movimento”.
Questa nuova redazione del Sansone (oggi a Grenoble) presenta un impianto costruito con “un procedimento analogo a quello messo in scena da Caravaggio nella Cappella Contarelli”, ma soprattutto riprende da vicino il San Michele caccia Lucifero di Orazio Gentileschi, come notano giustamente i due studiosi, e contempla, a nostro parere, anche un richiamo fortemente evocativo.
Il fatto è che Riminaldi, immediatamente dopo l’allocazione della prima versione nella Primaziale pisana, fu chiamato a realizzare un dipinto assai più grande nelle dimensioni, se non anche nel valore simbolico, che doveva occupare il secondo ordine del Terzo comparto della cattedrale, cioè il già citato
Mose innalza il serpente di bronzo (fig. 7). Il committente era sempre l’Operaio - oggi diremmo il Presidente - dell’Opera del Duomo pisano, Curzio Ceuli, lo stesso del
Sansone, che però per questo lavoro dovette retribuire l’artista con 350 ducati, più o meno il triplo.
Sulle due opere ha pesato a lungo la drastica disapprovazione di
Roberto Longhi, almeno fin quando Mina Gregori nelle sue
Note su Orazio Riminaldi (Paragone, 1972, 269, p. 46), le rivalutò scorgendovi, in particolare nel
Mosè, una “fervente conoscenza del più recente Lanfranco”, giudizio su cui anche Carofano e Paliaga convergono, come pure Gianni Papi che addirittura vi vede il preludio “alla grande commissione della cupola del Duomo, assegnata di lì a poco, nella primavera del 1627” (Vedi G. Papi, scheda in
La Tribuna del Duomo di Pisa, Milano 1995, p. 28).
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Ma l’attenzione, pur necessaria, posta alla definizione della cronologia e dello stile delle opere non deve però infine compromettere l’analisi di alcune componenti di merito, così com’è nella notevole ricostruzione di Ciardi per il
Mosè, letto - certo non a torto - come ulteriore ammonimento al popolo pisano sulla “necessità di pazientare … perché gli atteggiamenti sediziosi sono rischiosi e improduttivi”.
In effetti, il tema da una parte è una chiara evocazione del potere papale e della condanna che spetta a quanti osino opporsi alla sua autorità che promana da Dio, come fecero Adamo ed Eva, per l’appunto istigati dal serpente; dall’altra parte, e al tempo stesso, raffigura l’espediente con cui Dio medesimo si apre verso quanti si pentono confessando il proprio peccato e chiedendo a Mosè di fare da tramite - appunto attraverso la fabbricazione e l’innalzamento del serpente bronzeo - per ottenere la salvezza.
A ben vedere, dunque, nell’un caso - il richiamo al primato e all’autorità papale - come nell’altro - il valore del pentimento e la validità del sacramento della confessione - non può sfuggire l’impatto antiprotestante, com’è pure evidente che ciò si dovesse inserire nella logica di un pratica artistica frutto delle problematiche estetico-espressive che già da tempo erano oggetto di studio e di confronto da parte dei controversisti cattolici, e che le autorità ecclesiastiche tendevano senz’altro ad indirizzare secondo la linea delle deliberazioni assunte con il concilio di Trento.
E ciò non era ovviamente un sintomo di tolleranza: al contrario mirava allo scopo di creare un clima pienamente funzionale alla riaffermazione della supremazia del cattolicesimo romano e alla logica del conservatorismo istituzionale.
Dentro questa realtà Orazio Riminaldi sviluppava e completava dunque la sua formazione, e la sua arte non poteva perciò non risentirne, come del resto capitava a chiunque altro dovesse aggiornarsi e fosse chiamato ad operare nella città dei papi, ossia in quello che era allora il centro focale delle arti.
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Il soggiorno del pittore nella città eterna, documentato dal 1620 al 1627, ma che, come si è visto, dovrebbe retrodatarsi, abbracciando presumibilmente oltre un decennio - “s’intreccia indissolubilmente con le notizie tramandateci dalle fonti di un suo apprendistato presso Orazio Lomi Gentileschi”. Ed una conferma a questo riguardo ci viene da quella che è considerata “un’opera centrale del periodo giovanile” vale a dire il
San Francesco in meditazione sul crocifisso (fig. 8), “tutta permeata della poetica naturalistica espressa da Orazio Gentileschi intorno agli anni Dieci”, quando cioè il grande maestro si era “in parte già svincolato dalle idee di Caravaggio”. Che però poi per questo Riminaldi sia stato completamente associato alla corrente del cosiddetto caravaggismo riformato del maestro, secondo i due studiosi non è del tutto corretto, perché è scontato che il giovane pisano avesse avuto nella variegata realtà di Roma più punti di riferimento.
Ed in effetti, ad una “duplicità di linguaggi e quindi di espressione” - che fa credere ad “una esecuzione tra il 1615 e il 1620” - rimandano altri dipinti, tra cui l’assai significativo
Martirio dei Santi Nereo e Achilleo (fig. 9) nel quale anche altri studiosi, pur in dissenso tra loro quanto a datazione, hanno rilevato “un già sviluppato interesse per Lanfranco” (Papi) oltre a precise “reminescenze manfrediane” (Gregori).
In tutto ciò, resta comunque il fatto che la formazione del pittore si orientasse sicuramente - sebbene non esclusivamente - verso la pittura di Caravaggio, che egli di sicuro ebbe modo di ammirare
de visu.
Significativo sotto questo aspetto è un
San Giovanni Evangelista (fig. 10) che non poteva nascere senza che “il giovane pisano (avesse) sostato a lungo davanti alla Madonna dei Pellegrini di Caravaggio, cercando di carpirne lo spirito e la nuova estetica”. Lo stesso dicasi per l’
Eros e Anteros, (fig. 11) “una delle prove più alte raggiunte dal pisano durante il soggiorno romano, affatto caravaggesco finanche nelle soluzioni meno ragionate”.
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E tuttavia, se si pensa ad un’opera come
Giunone mette gli occhi di Argo sulla coda del pavone (fig. 12), realizzato anche in questo caso non si sa bene se “ad apertura della sua attività romana“ (Benati), oppure - come il
Martirio di Santa Cecilia, cui gli autori rimandano - in un periodo “sicuramente successivo” cioè “sul 1625”- si deve convenire che “Riminaldi pur affascinato dalle brucianti novità caravaggesche, non vi aderì in toto”, dal momento che, oltre ai richiami “indubbiamente manfrediani”, l’opera mostra “l’attenzione nei confronti della pittura del francese Regnier”.
Lo stesso discorso potrebbe valere per altri dipinti - si vedano lo stesso
Martirio di santa Cecilia (fig. 13) e anche il
Caino e Abele Pitti o il
Re Mida si lava alla sorgente del fiume Pattolo (fig. 14) - che non a caso hanno fatto nascere tra gli esperti contrasti attribuzionistici; mentre il
David della Galleria Sabauda (fig. 15) appare a tal punto “manfrediano” nella rappresentazione della figura e nella modulazione della luce che c’è chi lo attribuisce direttamente al pittore di Ostiano.
Si tratta di contrasti attributivi che invero non possono considerarsi così censurabili, considerando il momento: a Roma s’incrociavano, infatti, i più illustri artisti dell’epoca a caccia delle committenze più prestigiose, e l’offerta, per così dire, esprimeva il massimo della dovizia dal punto di vista figurativo. La didattica di Riminaldi non poteva che risentire dei contatti con artisti tanto autorevoli, come quelli citati dalle fonti: “Domenichino, Manfredi, Annibale Carracci e Guido Reni”, a dimostrazione di come egli non rimanesse affatto estraneo alle tesi di Giovanni Battista Agucchi, il teorico della idea del ‘bello’. E proprio il fatto che raggiungesse “l’apice del naturalismo caravaggesco” e poi “volgesse i propri sguardi presso il classicismo di Vouet” dimostra quanto sia ancora arduo ricostruire un percorso certo per i suoi lavori, dato che si concentrano differenti componenti nel suo stile che i due studiosi riassumono nella “felice descrizione”, coniata da Evelina Borea, di “caravaggismo temperato”.
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E' questo un punto decisivo nella ricostruzione critica proposta da Carofano e Paliaga: se insomma è certo che Riminaldi non potè non risentire del fascino della pittura di Caravaggio, “come del resto è palese nelle sue opere”, pur tuttavia “ne preferì la versione edulcorata … innestandovi via via soluzioni che rimandavano alla produzione che andava per la maggiore a Roma verso il 1620: quella classicista di Domenichino e di Guido Reni”. E allora, per capire le ragioni per le quali si stesse affermando questa tendenza personificata dai due grandi allievi di Annibale, occorre dare ancora un pur rapido sguardo a quanto avveniva nella corte papalina.
Pochi l’hanno notato, ma un rilievo davvero determinante, anche dal punto di vista degli sviluppi degli indirizzi artistici, ebbe la formidabile alleanza che si consolidò durante il pur breve pontificato Ludovisi (febbraio 1621 - luglio 1623) tra la famiglia del papa regnante,
Gregorio XV, e gli Aldobrandini.
La carriera del pontefice, al secolo
Alessandro Ludovisi (Bologna, 1554 – Roma, 1623) era iniziata proprio grazie a
Clemente VIII Aldobrandini (Fano, 1536 – Roma, 1605) che, ancora da cardinale, lo aveva nominato auditore di rota; appena salito al soglio pontificio Gregorio XV aveva voluto contraccambiare il favore, nominando a sua volta come segretario personale l’ex cardinal nepote Pietro Aldobrandini e, dopo la sua morte, il nipote di questi Ippolito Aldobrandini, assumendo contemporaneamente come maggiordomo proprio monsignor
Giovanni Battista Agucchi (Bologna, 1570 – S.Salvatore, Treviso, 1633). Così, mentre la fazione Ludovisi in pratica si fondeva con quella Aldobrandini,
la politica culturale della curia si spostava progressivamente, ma decisamente, nella direzione impressa dal prelato bolognese, provocando un mutamento determinate del linguaggio figurativo.
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Le cronache del tempo descrivono l’eclettico monsignore come personaggio accorto e abile, ma certo non uso ai facili accomodamenti e non privo di risentimenti. E’ significativo quello che accadde proprio durante il rito della canonizzazione di Filippo Neri nel 1622, avvenuta in contemporanea con quella di quattro beati spagnoli, tra i quali Ignazio di Loyola: nel corso dell’imponente cerimonia (memore evidentemente dei non lontani contrasti che avevano portato all’interdetto) egli, infatti, non mancò di oltraggiare l’ambasciatore della Repubblica di Venezia, negandogli (come detto, era maestro di Camera del pontefice) il posto d’onore tra i partecipanti.
Alle sue rimostranze, Agucchi replico sprezzante: “L’ambasciatore non fa altro offitio che di tenere una candela in mano … di modo che l’ambasciatore si pretende esser trattato da candelliere”. La provocazione spinse ovviamente ad una reazione stizzita l’altro, che lo qualificò come “figlio di ferraio” e gli rinfacciò - non senza buone ragioni - come “papa Paolo” lo avesse “lasciato indietro senza tirarlo più avanti” (Vedi A. Cistellini,
San Filippo Neri, l'Oratorio e la Congregazione oratoriana, storia e spiritualità, Brescia 1989, pag. 2150n).
Prima di quella data, l’ecclesiastico bolognese aveva già scritto il
Trattato della pittura, probabilmente entro il primo decennio del Seicento (vedi I. Toesca - R. Zapperi, in DBI, vol. I, Roma 1960, pp. 504-506), nel quale sosteneva, tra le altre cose, che compito dell’artista fosse contemplare l’Idea per raggiungere il fine della espressione della bellezza e
attribuendo in questo modo alla ‘imitazione’ un autentico portato cognitivo.
Si pensa che le sue tesi fossero il risultato dei
numerosi scambi di idee avuti con il Domenichino, che fu in effetti il suo pittore di riferimento. Non è un caso, quindi, che a quella data, cioè entri i limiti del primo decennio, allorquando la prorompente prassi caravaggesca appariva tutt’altro che in riflusso, tuttavia essa non coinvolse poi più di tanto gli artisti emiliani presenti a Roma, i quali non ne risentirono se non in maniera trascurabile, come hanno dimostrato di recente Emilio Negro e Nicosetta Roio (E. Negro - N. Roio,
Caravaggio e i caravaggeschi in Emilia, Bologna 2014).
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Fatto sta che qualche anno più tardi, Giovan Pietro Bellori, definirà, partendo da questi presupposti, quelle che avrebbero dovuto essere le linee di tendenza dell’arte, nella logica di un rigido classicismo e secondo un modello ideale del mondo sensibile agli antipodi del caravaggismo.
Prima di ciò, ma certo anche in ragione di quanto descritto, Riminaldi - e non lui solo evidentemente - potè maturare la sua evoluzione artistica, compiendo “il passo successivo”, ovvero “svaporando - come dicono Carofano e Paliaga - il prototipo in soluzioni originali”: come in effetti appare chiaro dal confronto tra le due redazioni dell’
Amor vincitore.
La prima versione presenta ancora un “tono decisamente caravaggesco” (fig. 16) ed è ritenuta (per le api che compaiono nel cimiero) un omaggio al neo eletto (1623) Urbano VIII Barberini (Firenze, 1568 - Roma, 1644), che saliva sul trono di Pietro con la fama di uomo di lettere, aperto alle novità, fautore di “una nuova età governata da Amore, priva di conflitti … in uno stato cristiano svincolato dalle due potenze cattoliche Francia e Impero Asburgico”.
La realtà sarebbe stata ben diversa smentendo ogni rosea aspettativa. E tuttavia di lui si ricordano il completamento della basilica di san Pietro e il favore accordato ad artisti eccezionali del barocco romano, come Bernini, Sacchi, Pietro da Cortona, Maderno ed altri, ma anche i benefici elargiti a piene mani ai familiari, tra i quali il nipote Francesco Barberini, il probabile committente dell’altra versione dell’ Amor vincitore ora alla Galleria Palatina (fig. 17), dove “i lustri ed espansi toni vouettiani lanfranchiani” sono una chiara testimonianza “dell’avvenuto distacco dalle pratiche della manfrediana methodus”.
Francesco Barberini era conosciuto a Roma come “mecenate di artisti francesi come
Vouet, Valentin, Poussin”, con i quali Riminaldi aveva effettivamente molta familiarità, in particolare con
Simon Vouet, nella cui casa fu censito nella Pasqua del 1625 e che affiancò, in qualità di ‘censore’, quando questi divenne principe dell’Accademia al posto di
Antiveduto Gramatica.
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All’anno successivo è datato con una certa sicurezza quello che è stato definito “un vero e proprio snodo evolutivo nella carriera del pittore” (Papi), cioè a dire il Gonfalone che porta nel
recto i
Santi Giacomo maggiore e Antonio Abate e nel
verso il
Martirio di Santa Caterina d’Alessandria, scoperto qualche tempo fa da Filippo Todini ad Assisi, dov’è allocato nel Museo diocesiano (figg. 18-19).
I precisi rimandi stilistici proposti dallo stesso Todini “a favore di Guido Reni e Simon Vouet” sono stati accolti anche dai due studiosi, che a ragione considerano la successiva decorazione del Duomo di Pisa (fig. 20) il lavoro più impegnativo di Riminaldi, il quale si ispirò in particolare al pittore parigino anche in questa circostanza, come si capisce bene dall’immagine dell’Assunta che - al di là dei richiami a quella realizzata dal
Domenichino in Santa Maria in Trastevere - “rimanda in toto all’omologa figura affrescata da Vouet nella Cappella Alaleoni di San Lorenzo in Lucina”.
Non certo per caso in tutte queste opere si esprimeva l’esigenza di dare il massimo rilievo possibile alla figura della Vergine. Questa in effetti era considerata da tempo una necessità fondamentale per l’arte figurativa post tridentina, dopo gli attacchi degli eretici : “E’ certo che Cristo era prima di tutti i secoli - aveva affermato Lutero - ma dire altrettanto di Maria significa proclamare una mera menzogna, significa bestemmiare contro Dio” (vedi E. Male,
L’arte religiosa nel Seicento, Milano 1984, pp. 45-47ss).
La chiesa cattolica aveva reagito non solo tramite i teologi controversisti ma anche e soprattutto moltiplicandone le immagini come baluardo nella lotta contro gli eretici; ancora molti anni dopo, in occasione del trentennale della Montagna Bianca,
Giovan Domenico Cerrini avrebbe affrescato la cupola di Santa Maria della Vittoria con immagini della Vergine che abbatteva non i diavoli ma gli eretici.
Dal punto di vista stilistico, la vasta opera che tenne occupato nella sua città Riminaldi dal 1627, l’anno della committenza, fino alla morte nel 1630, tranne il breve ritorno a Roma sul finire del 1628, costituiva per Pisa un’assoluta novità; vi si affermava lo schema di turbinoso e radioso movimento circolare molto prossimo a
quello costruito da Lanfranco a Sant’Andrea della Valle, che il pittore pisano potè ammirare proprio durante il nuovo limitato soggiorno romano.
Fino alla metà ed oltre del terzo decennio, in quel “clima di composita retorica - come lo ha definito Daniele Benati - che andava prevalendo in quegli anni nella capitale pontificia” (in
Studi di Storia dell’Arte in onore di Mina Gregori, Firenze 1994, p. 252), Riminaldi conobbe un periodo davvero molto significativo, “denso di impegni e di riconoscimenti”, essendo evidentemente entrato nelle grazie, oltre che nei libri paga, delle famiglie che contavano, soprattutto i Crescenzi, nel cui palazzo “alla Rotonda” era ospitata da qualche anno una vera e propria Accademia, frequentata da giovani artisti accolti dal marchese
Giovan Battista Crescenzi: un personaggio “capace di attuare una vera politica artistica”, anche in “senso manageriale” (L. Spezzaferro, in DBI, vol. 30, 1984), oltre che artista lui stesso.
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Non è ovviamente questa la sede per ripercorrere l’annosa questione dei rapporti intercorsi tra l’ambiente caravaggesco e
l’Accademia dei Crescenzi e tuttavia sugli indirizzi artistici da essa perseguiti ci può illuminare un noto passo delle
Vite di
Giovanni Baglione dedicato al marchese Crescenzi: "havea gusto che sempre nella sua casa si essercitasse la virtù e continuamente vi facea studiare a diversi giovani, che alla pittura erano inclinati … acciocché avessero tutti maggiore occasione d'apprendere le difficoltà dell'arte; et anche talvolta havea gusto di far ritrarre dal naturale et andava a prendere qualche cosa di bello e di curioso che per Roma ritrovavasi … et consegnavala a quei giovani che la disegnassero".
Si ritiene che in tale Accademia si siano prodotte opere caravaggesche a cominciare dalla metà del secondo decennio del '600 , cioè proprio quando Orazio Riminaldi sarebbe arrivato in città; del resto con i Crescenzi egli intrattenne rapporti molto stretti, se è vero che il fratello di Giovan Battista, il cardinale Pietro Paolo amava definire l’artista pisano “molto mio intrinseco e dei miei di casa”.
Non per caso, proprio ad un manoscritto uscito da casa Crescenzi si devono le notizie relative sia alla vita del pittore pisano a Roma, sia alle sue opere, che non vengono però riportate seguendo una precisa cronologia: il che spiega le difficoltà che hanno incontrano gli studiosi nel precisarne la collocazione e di conseguenza suona come ulteriore giustificazione delle incertezze stilistico-attributive che in parte abbiamo intravisto.
Va detto però che questa difficoltà è anche effetto di quello che a tutt’oggi appare come un altro autentico mistero, ossia la totale assoluta “dimenticanza dell’artista nella letteratura d’arte di parte romana”, come da ultimo ha rilevato Marco Pupillo: ”Nei resoconti di Giulio Mancini e di Giovanni Baglione, così come negli autori successivi - scrive lo studioso - il pisano e la sua opera semplicemente non esistono” (M. Pupillo, in
I caravaggeschi, a cura di A. Zuccari, Milano 2010, v. II, p. 595).
Ritorniamo insomma al punto da cui siamo partiti, a quella difficoltà a spiegare la ragione delle “poche scarne notizie” nei resoconti di Baldinucci che lamentano Carofano e Paliaga, imputandole a ragioni sostanzialmente di campanile, come del resto sembra fare anche Pupillo, quando pare attribuire a “malizia” il colpevole oscuramento operato dai biografi romani.
Ma è difficile immaginare che un artista che godeva di apprezzamenti e patrocini tanto importanti, che si era inserito in modo così significativo nel milieu artistico capitolino che contava, arrivando anche ai vertici della massima istituzione accademica, che era prossimo, se non fosse sopravvenuta la morte, a ottenere altre committenze di assoluto prestigio, la cui biografia, per quanto se ne sa, non presenta bizzarrie tali da giustificarne un così drastico ridimensionamento, se non proprio l’oblio, nelle memorie dei biografi (di lui si conosce solo il contrasto con i religiosi del Pantheon per i pagamenti del Martirio di Sanata Cecilia), è difficile immaginare, dicevamo, che un simile artista abbia dovuto pagare il pegno alla sfortuna, se si può dire, di non essere nato nel posto giusto fino al punto di correre il rischio di una specie di damnatio memoriae , dopo avere ”messo la vita stessa” nelle fatiche del Duomo.
Si può dire, tirando le conclusioni, che questo lavoro di Carofano e Paliaga è un contributo davvero importante, rendendo giustizia a Orazio Riminaldi e segnando un punto fermo nella rivalutazione di un artista che, nell’inquieto panorama di quel tempo, “mantenne una sua sostanziale renitenza alla totale omologazione che è indice di capacità critica, autonomia mentale e d’espressione”. E tuttavia quel mistero rimane.
Pietro Di Loreto, 20/04/2014
Perluigi Carofano, Franco Paliaga,
Orazio Riminaldi 1593 – 1630
Edizioni dei Soncino, Soncino (CR) 2013
pp. 301, € 140