Giovanni Cardone Febbraio 2023
Fino al 4 Giugno si potrà ammirare la mostra al Museo Rijksmuseum di Amsterdam la retrospettiva dedica a Johannes Vermeer . Questa grande esposizione, frutto della collaborazione tra il Rijksmuseum e il Mauritshuis a L’Aia, mostrerà i capolavori di Vermeer, tra cui “La ragazza con l’orecchino di perla” e “La donna che legge una lettera davanti alla finestra”, da poco restaurato dalla Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda, il “Geografo” dallo Städel Museum di Francoforte, la “Donna che scrive una lettera alla presenza della sua domestica” dalla National Gallery of Ireland di Dublino, la “Pesatrice di perle” o anche intitolato la “Donna con la bilancia” dalla National Gallery of Art di Washington, il “Bicchiere di Vino” dalla Gemäldegalerie di Berlino, la “Suonatrice di liuto” dal Metropolitan Museum e la “Merlettaia” dal Louvre. La mostra sarà accompagnata dalla presentazione di una serie di studi e ricerche sui quadri di Vermeer e, naturalmente, sarà possibile vedere i quattro capolavori in possesso del Rijksmuseum: la “Lattaia”, la “Stradina”, la “Donna in azzurro che legge una lettera” e la “Lettera d’amore”. Come affermato il Direttore del Museo Rijksmuseum Taco Dibbits: “Vedere tutte le opere insieme sarà un’esperienza che nemmeno Vermeer visse mai”, ha detto Dibbits. “La fragilità dei dipinti, insieme alla crescente concorrenza tra i musei per i prestiti, rende quasi certo che una mostra su questa scala non si ripeterà”, ha precisato Dibbits. Il Rijksmuseum esporrà almeno 28 dipinti di Vermeer sui 37 noti attribuiti. Finora la maggior mostra sul maestro olandese è quella che si tenne al Mauritshuis dell’Aia nel 1996, con 23 opere. L’idea per la mostra su Vermeer è nata quando i curatori del Rijksmuseum hanno intuito che poteva esserci l’opportunità di prendere in prestito le tre opere dell’artista conservate alla Frick Collection di New York che normalmente non presta facilmente le opere della sua collezione. Ora è in ristrutturazione e le opere avrebbero dovuto comunque essere rimosse. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Johannes Vermeer apro il mio saggio dicendo : Nel 1581 l’Olanda si liberava dal giogo spagnolo e proclamava la Repubblica delle Province Unite; nell’età dell’assolutismo monarchico vedeva la luce in Europa una nuova forma statale di tipo federale, la cui costituzione, retta da una diarchia fondata sugli stati generali e sullo Stadholder, era favorevole soprattutto alle élites mercantili ed imprenditoriali, artefici di quella straordinaria espansione economica che, per qualche decennio, avrebbe reso Amsterdam, soprattutto dopo la caduta di Anversa, il centro principale del capitalismo mondiale, fondato principalmente sul controllo dei flussi commerciali che solcavano i mari dell’intero pianeta: le due Compagnia olandesi delle Indie (orientali ed occidentali) instaurarono una fiorente rete di porti e di avamposti commerciali, tra i quali ricordiamo New Amsterdam (la futura New York). Nata dalla lotta contro l’oscurantismo controriformista l’Olanda divenne il paese più libero e tollerante d’Europa, ed una vera fucina di idee filosofiche, politiche, scientifiche: anche per questo ben presto divenne meta dei perseguitati per motivi religiosi, e la sua popolazione acquisì dei tratti veramente particolari, che influirono sulla sua storia e cultura. Dal 1530 in Olanda si insediarono diverse comunità di anabattisti e poi di calvinisti, particolarmente attive nei traffici mercantili e nell’attività bancaria; inoltre dalla penisola iberica era giunto un gran numero di ebrei “marrani” (convertiti a forza al cristianesimo, e poi fuggiti sotto la minaccia dell’Inquisizione), i quali si stabilirono un po’ dappertutto nei paesi Bassi, ma soprattutto ad Amsterdam, che presto fu chiamata “la nuova Gerusalemme”. Anche gli ebrei portavano con sé, oltre ad importanti capitali, una mentalità imprenditoriale e grandi capacità organizzative e gestionali.
Molti studiosi si sono chiesti cosa stia alla radice di questa impressionante fioritura economica, culturale e artistica, e soprattutto quali siano gli elementi che contribuirono a questo fenomeno; in uno studio fondamentale su questo tema Jan Huizinga, celebre storico olandese, afferma che chiunque consideri la storia olandese di quel periodo viene preso da stupore: “Come poté avvenire  che una giovane repubblica, così piccola e alquanto periferica, fosse così all’avanguardia come stato, come potenza mercantile e come fonte di civiltà?” E soprattutto appare in modo evidente che ciò che accadeva in Olanda non coincideva affatto con il generale movimento culturale dell’epoca, il barocco, il cui “schema”, intimamente connesso alla controriforma e all’assolutismo, dominava “l’Italia papale e veneziana, l’Inghilterra di William Laud e dei cavaliers, per la Francia all’inizio del suo grand siècle”  ma certo non la civiltà olandese: “Un paesaggio di Ruisdael o di van Goyen, un dipinto raffigurante tiratori olandesi di Frans Hals o di van der Helst, e anche ciò che conta veramente in Rembrandt, sono cose da cui spira un’aria completamente diversa, che hanno un timbro diverso” . Fra i vari fattori che contribuirono a questo fenomeno, Huizinga individua prima di tutto “il mare e la navigazione” : non solo la navigazione marittima, in cui gli olandesi eccellevano fin dall’epoca romana, e che dipende direttamente dalla felice posizione geografica del paese, ma anche la navigazione interna, che favorì nel popolo olandese una sorta di isonomia: “Seguendo i corsi d’acqua,  tutti comunicanti fra loro con le loro infinite diramazioni, si poteva attraversare in lungo e in largo tutto il territorio comodamente e tranquillamente . Siffatta struttura idrografica comportava che la popolazione fosse in certo qual modo organizzata democraticamente.  Il più misero contadino o pescatore poteva viaggiare qui come un gran signore, con una barchetta sua.  Il signore  aveva poca o nessuna autorità in materia di traffico, e già per questa ragione la nobiltà aveva  un peso minore che altrove”. Questa è una notazione di grande importanza: l’“orizzontalità” che caratterizza le terre olandesi e in genere i Paesi Bassi aveva effetti anche nella struttura sociale, che si presentava così ben lontana dalla divisione in “stati” tipica dell’Ancien Régime, la quale poneva barriere insormontabili tra un ceto e l’altro e circondava di un’aura di intoccabilità e privilegio i nobili e l’alto clero. Notiamo anche che “la servitù della gleba era già quasi completamente scomparsa verso la fine del medioevo”, e che i contadini si trovavano o nella condizione di proprietari delle terre che coltivavano o di affittuari, ma a condizioni accettabili: “Sarà troppo ottimistico dire che Ostade non si allontanava troppo dalla realtà quando rappresentava il contadino come un grassone soddisfatto?” Dal canto suo, l’antica nobiltà terriera, lungi dal concedersi gli sfarzi di una Versailles, “aveva conservato per lo più costumi semplici e patriarcali, e le sue entrate erano rimaste relativamente modesta” : i nobili non si elevavano sul resto della popolazione e non avevano esigenza di manifestare la loro condizione con pompa e sfarzo. Un altro elemento che caratterizza la civiltà olandese è la mancanza di un clero forte e riverito, e di una diversa concezione della missione degli ecclesiastici: “Cristianizzati soltanto tardi, e lontanissimi dai centri veri e dall’autorità imperiale e delle supreme gerarchie ecclesiastiche, i Paesi Bassi settentrionali  non furono mai un terreno in cui potesse svilupparsi un alto clero, potente, ricco e considerato”. E anche la vita religiosa aveva una sfumatura “democratica”: “La chiesa calvinista riuscì in complesso ad ignorare la distinzione tra patriziato e borghesia. Il ministro andava al castello come nella povera bottega. I predicatori rappresentavano una forza importante e stimolante. Per lo più venivano dagli strati medi della borghesia” e ne interpretavano lo stato d’animo e gli umori, facendosene portatori verso le classi dirigenti: “Venuti dal popolo, i predicatori dicevano il Verbo di Dio con la voce del popolo. Dalla chiesa penetrava continuamente nei palazzi comunali il brontolio di una coscienza popolare non aristocratica”. A ciò si aggiunga, come già detto sopra, un buon grado di tolleranza religiosa: non dimentichiamo che Spinoza era ebreo “marrano” e che Vermeer si convertì (anche se è difficile comprendere la portata e l’effettivo valore di questo gesto) al cattolicesimo. I seguaci delle altre religioni erano esclusi dalle cariche pubbliche, ma poteva capitare che “chiudendo un occhio, e accettando di tanto in tanto un po’ di corruzione” si aggirassero gli ostacoli: “Il culto cattolico era ufficialmente vietato, ma chiunque avrebbe saputo trovare le chiese clandestine. Perfino nell’esclusione dai pubblici uffici si tolleravano eccezioni, nel senso che in alcune province si permetteva che aristocratici cattolici facessero i giudici.  (Inoltre) I dissenzienti protestanti, battisti e luterani non soffrivano molto di tale esclusione, perché non ambivano ad alcuna carica, e lo stesso vale per gli ebrei” . Che la differenza religiosa in Olanda venisse attenuata e annullata nella comune dimensione economica e mercantile risalta anche dalle celebri parole di Voltaire: “Traffichino pure insieme alla borsa di Amsterdam il ghebro, il baniano, l'ebreo, il maomettano, il cinese, il bramino, il cristiano greco, il cristiano romano, il cristiano protestante, il cristiano quacchero: non alzeranno mai il pugnale gli uni sugli altri per guadagnare anime alla loro religione” . Da tutti questi elementi emerge l’immagine di una compagine sociale quanto mai singolare per quel tempo, nella quale “l’unica classe elevata che fosse economicamente forte ed intellettualmente matura era quella dei mercanti”  : proprio attorno a questa classe si organizzò la vita politica e culturale del giovane Stato. L’attività di mercante non era affatto nuova per gli olandesi, così come non lo era quella di navigatore: essa era veramente connaturata con lo spirito di quel popolo, e già in periodo tardo medievale “i traffici col mar Baltico e con la Norvegia, con la Francia e con la Spagna erano fonti importantissime di benessere” ; e nel 1596 “Amsterdam poteva dichiarare che la Repubblica , per mole di scambi e numero di navi, superava di gran lunga Inghilterra e Francia” . Per spiegare come questa potenza economica e mercantile si fosse sviluppata, Huizinga sfata la tesi secondo la quale l’Olanda “dovesse la sua supremazia economica alla modernità delle sue idee in fatto di economia nazionale, e che riuscisse a superare gli altri paesi in virtù di metodi nuovi e meglio elaborati” , e qualifica il sistema olandese come “premercantilismo del tardo medioevo” , in cui i singoli mercanti godevano di ampia libertà di iniziativa, e non sottostavano ad alcun potere centralizzato: “Nella ricca Repubblica delle Sette Province, invidiata da tutte le altre nazioni per il suo commercio internazionale, non esisteva un’autorità che cercasse di regolamentare con ordini e prescrizioni il diffuso spirito di iniziativa” . Un commercio, quindi, “istintivo”, in cui il mercante era libero di condurre gli affari secondo il proprio intuito, scegliendo autonomamente le modalità con cui far fiorire i propri affari, coinvolgendo nella propria crescita anche un gran numero di attività manifatturiere. A questo punto si delinea abbastanza chiaramente l’idea di una nazione di piccole dimensioni, priva di grandi asperità sociali, in cui brulica l’iniziativa privata, in cui nessuno disprezza il lavoro, in cui vi sono tanti piccoli centri di fervente attività e di intelligente organizzazione, e tutto è collegato in un notevole dinamismo; tutto ciò che potrebbe ostacolare il fluire delle energie economiche non è presente, o lo è in maniera troppo debole, ed inoltre non vi sono (ancora) temibili concorrenti esteri, in quanto sia la Francia che l’Inghilterra erano ancora prese dalle loro questioni interne .“Quasi tutto qui era piccolo, modesto, limitato: perfino le dimensioni del territorio, le distanze tra i campi e la città, le differenze tra i ceti. A questa modestia di proporzioni si accompagnava un alto grado di diffusione del benessere e e una viva esigenza di cultura e di vita spirituale.  Non potevano svilupparsi una grande architettura o scultura, non tanto perché mancasse la pietra o perché il suolo fosse cedevole o perché le proprietà fossero troppo piccole, quanto perché non c’erano i committenti e i mecenati pubblici o privati abbastanza ricchi. Per i palazzi e per la scultura occorrono principi, cardinali, grands seigneurs, e questi non c’erano” . In una struttura “essenzialmente urbana e borghese” come la civiltà olandese del Seicento si verificò quindi una “spropositata preponderanza della pittura rispetto a tutte le arti. La pittura trovò la sua ragion d’essere nella ricchezza e nella gioia di vivere della grassa borghesia; in quegli ambienti trovò ispirazione, protezione e ordinazioni. Non ebbe il favore di grandi mecenati, ma di un numero illimitato di amatori d’arte. Quadri erano appesi dappertutto: nel municipio, nell’ufficio, nel salone della casa patrizia e nel salone della casa borghese. Dappertutto, tranne che nelle chiese.” Ma il gusto e l’amore per la pittura erano vivi anche fra gli esponenti delle classi più umili: “Buoni quadri  si potevano ammirare perfino nelle abitazioni dei contadini.  Non c’è ciabattino, scrive un viaggiatore inglese, che non abbia i suoi bravi quadretti. Un altro osserva che l’acquisto di un quadro è concepito come investimento: non è affatto raro, dice, che un contadino spenda a questo modo l’equivalente di un paio di migliaia di sterline” . Nella contemplazione dei quadri, che ritraevano nature morte, scene di genere, paesaggi, gli olandesi del Seicento manifestavano “l’attitudine a gustare le cose nel loro aspetto esteriore, quella fede inconcussa nella realtà e nell’importanza delle cose terrene che, al di fuori di qualsiasi realismo filosofico , era insita nella coscienza di tutti gli spiriti del Seicento olandese, , come gioia di vivere e interesse per la realtà.”1 Realtà che appare degna di essere rappresentata, come degna di essere vissuta appare la vita terrena: le pareti delle dimore riflettono l’amore e l’apprezzamento per ciò che circonda l’uomo. Anche le dimensioni delle opere risentono di questa impostazione: “Non c’era posto per la magnificenza sempre più elevata, per lo sfarzo, la solennità o la maestà . Tutta la capacità di espressione si risolveva nell’intima suggestione di semplici cose reali e nella trasognata visione di tranquille distese. Quest’arte era lontanissima da quasi tutte le essenziali caratteristiche del barocco, (addobbo maestoso, pomposa dignità, grande teatralità, sonorità), come un’amena provincia può essere lontana dalla vita fastosa della capitale.” Un’ultima osservazione, capace anch’essa di arricchire e precisare questa visione estetica, mette in luce un altro tratto caratteristico del “Volksgeist” olandese: l’amore per l’ordine, la nettezza e la pulizia. “Il bisogno di vedere tutto ben pulito e lavato ha radici più profonde nel carattere della popolazione. L’olandese ha sempre dato molta importanza ai beni più semplici, e compreso il valore delle cose d’ogni giorno. Era in armonia con la sua intima devozione considerare e apprezzare tutto come un dono di Dio, e ciò gli faceva apparire bella ogni cosa, lo spingeva a conservarla integra e a mantenerla nuova lucidando, spazzando e rattoppando.  In questa pulizia si riflette qualcosa di quell’equilibrio etico che caratterizza la devozione olandese”.  Ed una sublime “pulizia” da ogni imperfezione, da ogni contingenza, da ogni particolarizzazione risplende in modo sommo proprio nelle opere di Vermeer, che porterà tutte le tendenze fin qui nominate ad un vertice di indiscussa perfezione. Della vita di Vermeer  si hanno poche, laconiche notizie. Nessun spostamento, nessun evento eclatante, un’esistenza appartata e dedita alla propria vocazione, alla quale il pittore si dedicò con una dedizione assoluta, nonostante la continua presenza, nella vita quotidiana, di elementi destabilizzanti. Vermeer nacque nell’ottobre 1632 a Delft, secondogenito di Reynier, tessitore, albergatore e mercante di quadri, e di Digna Baltens; nella locanda del padre, il Mechelen, si incontravano intenditori d'arte e pittori e Reynier aveva la possibilità di fare da intermediario e di vendere i quadri messi in mostra. Il giovane fu quindi fin dalla più tenera età iniziato ai misteri e alle problematiche dell’arte pittorica, ed anche al quotidiano contatto con i suoi concittadini: la locanda era “nel cuore di Delft, allora importante cittadina commerciale con una popolazione di 25.000 abitanti. Proprio di fronte al Mechelen stava il mercato, dal quale proveniva certamente una nutrita folla di assetati clienti, (provenienti per lo più) dalla classe media” . La sua formazione artistica, certamente precoce visti gli interessi paterni, è tuttavia avvolta nel mistero. Non si sa se abbia mai lasciato Delft per studiare pittura altrove, né si sa con certezza quale sia stato il suo maestro anche se si sono fatti i nomi di Leonaert Bramer, Carel Fabritius, e Abraham Bloemaert; a favore dell’apprendistato presso Fabritius, o comunque di contatti significativi col pittore, tragicamente perito nello scoppio del magazzino delle polveri da sparo a Delft, si possono citare i versi di Arnold Bom, composti in ricordo dell’artista scomparso: “Così perì questa fenice, per nostra sfortuna / abbandonò questa vita al colmo della gloria / ma per fortuna dalle sue ceneri è nato / Vermeer, che continua la sua scienza da maestro.” Nel dicembre del 1652, con la morte del padre, il giovane Vermeer ereditò il commercio dei quadri e la locanda, e fu quindi costretto ad assumersi in prima persona la gestione del movimentato Mechelen, da cui si allontanerà qualche anno dopo per trasferirsi a casa della moglie, Catharina Bolnes, sposata nel 1653, proveniente da una ricca famiglia cattolica .
Nei loro ventitre anni di matrimonio i coniugi ebbero quindici figli, dei quali quattro morirono prima del padre: la presenza di così tanti bambini ci fa immaginare la casa del pittore come in preda ad un continuo trambusto, sempre piena di chiasso e movimento. Altro fattore destabilizzante fu la precarietà delle condizioni economiche: nonostante il sostegno economico di Maria Thins, madre di Catharina, nonostante le occasionali eredità ricevute da parenti più o meno vicini, nonostante il commercio di quadri di altri pittori praticato dall'artista, nonostante la vendita dei suoi quadri, Vermeer visse quasi sempre nell'incertezza economica e il pittore doveva ricorrere a prestiti. Dal 1653 Vermeer era membro della gilda di San Luca di Delft, di cui fu nominato decano nel 1662; gli anni 60-70 furono quelli della maturità pittorica, del riconoscimento pubblico e di una certa agiatezza: Vermeer aveva ottenuto la committenza di un cittadino importante Delft, Pieter van Ruijven, che nel corso del tempo acquistò forse la metà di tutta la produzione dell'artista. Inoltre l’attività, non certo secondaria, di mercante d’arte contribuiva a migliorare le condizioni economiche della numerosa famiglia. Nel 1672 Luigi XIV dichiarò guerra all'Olanda: la nazione si difese ricorrendo alla rottura delle dighe e inondando il paese: questo stratagemma permise di respingere i francesi, e successivamente, grazie al supporto di Austria, Spagna e Ducato di Lorena, di aver ragione dell’avversario; ma causò gravissimi danni all’agricoltura e a tutte le altre attività economiche, gettando il paese in una crisi da cui non si sarebbe più risollevato completamente. In tale frangente, com’era da prevedersi, il mercato dell’arte crollò, e Johannes, senza più nessuna certezza, doveva dipingere oberato dalla responsabilità della numerosa famiglia. Il 16 dicembre 1675 Johannes Vermeer morì, lasciando moglie e figli in gravi ristrettezze economiche. Il suo nome e la sua opera caddero nell’oblio, anche a causa di voluta esclusione del suo nome, da parte degli storici dell’arte a lui contemporanei, dalle liste dei Maestri . Solo nella seconda metà dell’Ottocento, grazie agli studi ed all’entusiasmo di Thoré-Bürger , iniziò la graduale riscoperta della sua arte, in un crescendo di ammirazione che coinvolse grandi celebrità come Proust e Malraux, e permise di collocare Vermeer al posto che gli compete, e di riconoscerne la genialità che gli permise di distaccarsi dai contemporanei e di elaborare un linguaggio personalissimo . Se confrontiamo qualche opera di Vermeer con altre, dello stesso soggetto, dipinte da suoi contemporanei quali Hals, Maes, de Hooch, Dou, Metsu, dopo una prima superficiale constatazione della similitudine tra gli ambienti, gli abiti e gli oggetti presenti nelle tele, immediatamente veniamo presi da un senso di estraniamento, veniamo proiettati in una dimensione dove ciò che è quotidiano, aneddotico, individuale, ciò che può generare partecipazione sentimentale o identificazione con i personaggi viene radicalmente estromesso, a favore di una dimensione di quieta e luminosa contemplazione. Malraux esprime alla perfezione questo effetto: “Vermeer è un intimista olandese per un sociologo, non per un pittore. A trent’anni, l’aneddoto lo annoia; e l’aneddoto, nella pittura olandese, non è un accidente. la sua tecnica è diversa sia da quella di Pieter de Hooch, col quale un tempo lo si confondeva (si confronti la Pesatrice d’oro di quest’ultimo con la Pesatrice di perle) che da quella di Ter Borch o del miglior Fabritius). . L’equivoco è nato dal fatto che egli accettò i soggetti della loro scuola; i pittori che gli saranno affini, Chardin, Corot, accorderanno ai propri la stessa indifferenza. Non senza mantenere le distanze: i suoi aneddoti non sono aneddoti, le sue atmosfere non sono atmosfere, il suo sentimento non è sentimentale, le sue scene sono a malapena scene, venti suoi dipinti  non contengono che una singola figura, eppure non sono ritratti propriamente detti. Sembra sempre che Vermeer spogli i suoi modelli della loro individualità, fino ad ottenere non dei tipi, bensì astrazioni di fortissima sensibilità, non prive di qualche reminescenza di certi kouroi greci” . Lawrence Gowing, autore di un fondamentale studio sul Nostro, parlerà di figure che “hanno caratteristiche da mummia, sono velate e immobili. Mentre la guardiamo, la scena assume i tratti di una raffinatissima tomba” . E tuttavia gli ambienti e i personaggi di questi quadri esteriormente combaciano con quelli rappresentati dai pittori dell’epoca, (“una pittura inscritta e radicata nelle pratiche pittoriche comuni, banali della sua epoca”  ): ma le opere di Vermeer sono rette da una struttura interiore che ha delle coordinate assolutamente diverse. Merleau-Ponty parla esplicitamente di una “struttura Vermeer”, come di un “sistema di equivalenze particolari che fa sì che tutti i momenti del quadro, come cento lancette su cento quadranti, indichino la stessa insostituibile deviazione” Daniel Arasse nota acutamente che “Vermeer partecipa molto poco all’attività sociale «normale» del suo tempo, e la sua pittura non lascia trasparire nulla di quella che era la sua vita all’interno della casa di famiglia, in cui aveva, al piano superiore, il suo studio” . Ad esempio, nonostante la sua casa fosse piena di bambini, nelle scene di interni non se ne incontra mai uno, eccezion fatta per le due figurette nella “Stradina di Delft”; e documenti del tempo ci dicono che in casa dei coniugi abitasse anche il genero di Vermeer, uno squilibrato che fu alla fine internato in manicomio ma che a più riprese malmenò Catharina, persino quando era “incinta all’ultimo mese”: ebbene, anche di questo non c’è traccia nei quadri del Nostro. “I quadri del pittore sono impressionanti per la pace e la calma della loro atmosfera interiore”: e da qui Arasse deduce che “la realtà dei suoi quadri non avesse, per Vermeer, nulla a che vedere con la realtà della vita” . Gli stessi soggetti, lungi dal mutare in ogni quadro, si ripetono con sottili variazioni: “egli riprende incessantemente un numero ristretto di elementi e composizioni di cui combina, modula e varia la disposizione” : la tenda, il tappeto, la finestra, la giovane donna, lo strumento musicale, il quadro, le sedie, le mattonelle decorate. Inoltre, come nota un altro studioso, Erik Larsen, “L’impostazione psicologica dell’artista nel modo di presentare le figure rappresenta un rovesciamento totale dell’atteggiamento consueto occidentale, ossia dell’affermazione di sé. Le figure di Vermeer spiccano per la loro spersonalizzazione, che si può riassumere come monumentalità, immobilità e assenza di espressioni” . Se in altri quadri contemporanei “sono raffigurati gli umori dei personaggi e la vivacità della scena,  i partecipanti compiono gesti vivaci, hanno espressioni animate, nelle opere di Vermeer questi tratti mancano o sono rovesciati. Nella Lattaia  colpisce l’immobilità totale, epica . Perfino il gesto di vuotare il latte è compiuto nella più totale assenza di iniziativa.  Nella Donna con brocca  abbiamo di fronte una totale assenza di attività, una postura immobile e impersonale che esclude l’espressività e trasforma la modella in una marionetta pensierosa che rifugge da ogni partecipazione esterna.” I personaggi “nella loro immobilità ipnotica contraddicono violentemente la tendenza prevalente in tutta la pittura contemporanea” . Ma allora, se i soggetti non sono che meri pretesti, se la vita contingente viene accuratamente tenuta fuori, qual è l’oggetto della pittura di Vermeer, qual è la realtà cui il Nostro fa riferimento? Arasse non ha dubbi: “Il «mondo reale» dei quadri di Vermeer è il mondo di questi quadri; è un mondo di pittura, e la pittura costituisce, in lui, un’attività propria, specifica. Non obbedendo a uno scopo commerciale o sociale, i suoi quadri sono luoghi di lavoro del pittore, di una ricerca ininterrotta sulla pittura, e la meticolosità di questo lavoro è, prima di tutto, l’espressione di un bisogno individuale, personalmente investito, intimo” . Malraux, sempre ponendosi la stessa domanda, afferma che nell’opera di Vermeer l’universale, l’Assoluto, emerge nelle forme del quotidiano; ma si tratta di un “assoluto clandestino”  , non ancora esplicito, celato: “La trasformazione del mondo in pittura, lungi dall’essere proclamata, ha in Vermeer il carattere di un segreto.” Vermeer apre una nuova via all’arte, ma “di ciò non ci si accorgerà che duecento anni dopo” . La nuova concezione dell’Arte come dimensione dell’Assoluto, come valore eterno ed autosufficiente, cui Vermeer addita in modo enigmatico e discreto, verrà pienamente affermata solo nell’età romantica: “Dal romanticismo in poi il rispetto per l’arte è continuamente aumentato; l’indignazione provata davanti al fatto che ci si fosse serviti di Van Eyck per disegnare delle torte veniva da un senso di sacrilegio. Un Leonardo, un Velasquez, che dipingevano soltanto occasionalmente, stanno all’opposto di Cézanne, per il quale dipingere era una vocazione” . L’Arte sarebbe stata sempre più proclamata “una fede. Non un valore sacro, ma la negazione di un mondo impuro.” Essa si sostituisce dunque all’Assoluto “tradizionale”, alla totalità additata dalle religioni e dalla Tradizione, la quale era concepibile solo in seno ad una comunità. La nuova comunità cui si rivolge l’artista è “tra coloro che, da vicino o lontano, gli sono «simili»” , o, come direbbe Stendhal, “the happy few”, gli adepti di una nuova spiritualità. Tutta la vita e l’opera del Nostro furono un continuo, ininterrotto processo di elaborazione per trasformare, grazie al travaglio artistico, il particolare, il contingente, il singolare, in luminosi istanti di eternità: “la pittura di un mondo senza valore fondamentale può essere salvata da un solitario che le dà per valore fondamentale la pittura stessa”, nota ancora Malraux. E parlando di un quadro in particolare, la “Lettera d’amore”, afferma: “la lettera non ha importanza, le donne nemmeno : il mondo è diventato pittura” . Se ora ripensiamo alla frase di Merleau-Ponty prima citata, troveremo un’ulteriore conferma di questa tesi: lo spazio dei quadri è omogeneo e non differenziato, non ci sono parti più o meno importanti, e tutti gli elementi, come lancette su quadranti che indicano tutti la stessa precisa ora, non hanno che uno scopo: contribuire alla perfezione e all’equilibrio dell’opera, grazie anche all’impiego sapiente della luce. “La luce di Vermeer non accarezza le figure, né le avvolge: è limpida, comunica l’immacolatezza del plein air e e consente a chi guarda di contemplare l’immagine come attraverso uno specchio in cui i colori appaiono trasparenti, luminosi, come se provenissero da gemme. Non c’è tenerezza, non c’è emozione, ma bellezza e realtà fredda e inesorabile” : anche Erik Larsen sottolinea l’aspetto impersonale, di raffinatissima ricerca di equilibrio compositivo, in cui i singoli elementi non sono che pedine sapientemente collocate ed equilibrate. Come non fare,a questo punto, un parallelo con la “conoscenza del terzo genere” di Spinoza? Il singolo elemento del quadro non è che un “modo” in cui si esprimono gli eterni “attributi” di Dio, il pensiero e l’estensione, che brillano di una luce inalterabile nella loro eterna necessità: tutto è come deve essere, tutto proviene da una catena di cause alla cui radice sta la Sostanza, luminosa, autosufficiente, incorruttibile: l’Assoluto, appunto. Che Vermeer conoscesse ed utilizzasse la camera oscura è generalmente ammesso dagli studiosi; questo strumento, sviluppatosi come ausilio al disegno nel 16° secolo, ma conosciuto dall’11°, proietta su di uno schermo o un foglio di carta l’immagine del soggetto desiderato, attraverso una lente, e permette così di avere un’immagine bidimensionale della realtà tridimensionale, cosa utilissima non solo per studiare la composizione e per collocare gli oggetti in modo equilibrato, ma anche per avere una visione meno “soggettiva” possibile, che riproduca la realtà come puro dato visivo. Angelo Manca riassume così l’intenzione artistica di Vermeer: “studiare la fenomenologia della luce sulle cose, inserite in uno spazio ordinato, geometrico, architettonico; arrivare con metodo cartesiano alla definizione elementare-universale dello spazio della pittura; analizzare con metodo la natura degli oggetti che ci circondano, dimenticando la loro sostanza tradizionale, di utilità, di simbolo, descrittiva, psicologica ecc. per scoprire la loro funzione di verità fenomenica, di incontro luce-materia Mentre gli altri pittori di interni svolgono argomenti, illustrano la vita quotisiana, Vermeer verifica valori strutturali, compositivi, pittorici, equivalenti nella loro continua variazione.” . Un occhi “non umano”, non interpretativo, ma attento alla pura presenza delle cose nella dimensione dello spazio : un occhio “cartesiano”: com’è noto lo spazio cartesiano è il luogo dell’assoluta omogeneità ed equivalenza, ben diverso dallo spazio aristotelico in cui ogni elemento aveva il “suo” luogo ed era qualitativamente differenziato. “Vermeer, ancorato all’ordine e alla regola geometrica, rinuncia agli strumenti di una razionalità astratta  per praticare una razionalità concreta, analitica, verificata sulla geometria cartesiana”. Ora, la visione cartesiana, geometrica, puramente quantitativa dei rapporti fra le cose non è altro che la conoscenza del secondo genere di Spinoza, in cui le cose, lungi dall’apparirci in modo confuso ed arbitrario, ci si mostrano nella giusta connessione dei loro rapporti, “ossia per come sono in sé, cioé non come contingenti, ma come necessarie” , ovvero “sotto una certa specie di eternità” . Il mondo liberato dall’interpretazione umana, puro nella sua oggettività, nel quale può avvenire l’incontro con l’Assoluto. Le ultime ricerche hanno rivelato nuove fonti sul pittore e sulla sua storia personale che hanno fornito maggiori informazioni sulla sua posizione sociale, sull'ambiente in cui ha vissuto e sulla relazione con altri artisti e i suoi concittadini, un catalogo arricchirà le pubblicazioni scientifiche sull’autore. Le moderne tecniche di scansione hanno accelerato la ricerca su Vermeer negli ultimi decenni. Un team di curatori, conservatori e ricercatori del Rijksmuseum ha collaborato a stretto contatto con i colleghi del Mauritshuis de L’Aia e dell’Università di Anversa per condurre nuove ricerche - attraverso avanzate tecnologie di scansione Macro-XRF e RIS - sui suoi dipinti. Per esempio le recenti ricerche su “La lattaia” hanno portato alla luce due oggetti presenti sulla tela: una brocca e un braciere che Vermeer ha successivamente ricoperto. Attraverso una tecnologia simile, si è scoperto che anche in altri dipinti vi erano ripensamenti come nella “Pesatrice di perle (o Donna con una bilancia)” della National Gallery di Washington. La convinzione che Vermeer dipingesse lentamente e con grande riflessione deve quindi essere rivista. I risultati finali possono apparire quindi introspettivi e contemplativi, ma il suo metodo di lavoro era virtuosistico e rigoroso.
Gregor J.M. Weber, responsabile Belle Arti del Rijksmuseum e co-curatore della mostra, ha dichiarato: “La tecnica pittorica di Vermeer è sempre stata avvolta nel mistero. Come creava questo miracolo di luce e colore? Grazie alla scoperta di un primo schizzo in vernice nera, riusciamo ora a farci un'dea molto più completa del suo metodo di lavoro. Rivelazione che ha un duplice rilievo: a cambiare, infatti, non è “solo” la paternità dell’opera. I riflessi della scoperta si estendono anche alle convinzioni di lungo corso che fin qui hanno accompagnato la reputazione dell’artista, da sempre ritenuto un “genio solitario”. Avrebbe, invece, condiviso almeno parte del lavoro con alcuni assistenti, figure da lui formate e guidate. Ancora il dipinto “Girl with Red Hat”, oggi attribuita a Vermeer al 1669 circa, rappresentò un punto di svolta nella carriera del pittore: per la sua realizzazione, l’autore sperimentò nuove tecniche, adottò colori vivaci e un modo più audace per stenderli. Scelte che anticipano gli esiti della sua fase creativa matura. Gli studiosi del museo americano confrontando, infine, i risultati di diverse tecniche scientifiche con l’analisi microscopica, hanno ipotizzato che Vermeer avrebbe avuto l’abitudine di iniziare i suoi dipinti con ampie stesure di vernice di fondo, applicata rapidamente per formare una “solida base” adatta alla successiva definizione dei dettagli.
 
Museo Rijksmuseum di Amsterdam 
Johannes Vermeer 
dal 10 Febbraio 2023 al 4 Giugno 2023
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 17.00