Sulla esposizione in corso alla Galleria Borghese a cura di Anna COLIVA e Davide DOTTI ospitiamo due differenti pareri di uno studioso giovane ma già ben conosciuto per le sue pubblicazioni su importanti personalità e temi della pittura secentesca e di un noto esperto d'arte, già dirigente della Gnam. Il dibattito è aperto.

L’origine della natura morta in Italia
di
Massimo FRANCUCCI
L’esposizione dedicata a
L’origine della natura morta in Italia, ospitata nel cuore della
Galleria Borghese e curata da
Anna Coliva e
Davide Dotti (dal 16 novembre 2016 al 19 febbraio 2017) ha l’indubbio merito di raggruppare attorno alla
Fiscella di
Caravaggio, un tempo inamovibile in quanto opera identitaria dell’
Ambrosiana di Milano ed incunabolo della natura morta italiana, il corpus al momento rintracciabile del
Maestro di Hartford nonché i due capolavori giovanili di
Michelangelo Merisi, il
Bacchino malato e il
Ragazzo con canestra di frutta, appartenenti alla mirabile collezione formata da
Scipione Borghese. Questi due dipinti erano entrati nella raccolta in modo poco ortodosso, come frutto di un sequestro di ben centocinque dipinti di proprietà del
Cavalier d’Arpino effettuato da
Paolo V e da questi destinato al nipote, entro il quale è possibile rintracciare almeno quattro dipinti stilisticamente assai prossimi, facenti capo al cosiddetto
Maestro di Hartford. Al momento ogni tentativo di dare un nome proprio a questa personalità si infrange contro il silenzio documentario e la proposta di
Federico Zeri di riconoscervi la mano dello stesso
Caravaggio da tempo non appare più sostenibile.

Si tratta in ogni caso di un pittore della cerchia di
D’Arpino, poiché a queste date è poco credibile che il pittore comprasse dipinti di genere da rivendere come mercante, ricordando che nel citare la famosa frase di
Caravaggio sulla difficoltà di fare un quadro buono di fiori o di figure Giustiniani relegava la natura morta tra i generi più bassi. La fortuna collezionistica di questa specialità era ancor da venire, sebbene sarebbe accaduto di lì a poco.
La mostra inizia con un senso di
déjà vu accostando tre capolavori lombardi di
Vincenzo Campi, Arcimboldo e
Giovanni Ambrogio Figino - ma sì, li abbiamo già visti, anche se manca
Fede Galizia - ancora tutti entro il Cinquecento, volti a ricordare quanto il senso del naturale fosse radicato in quei territori che hanno dato i natali al
Caravaggio, le cui opere sono esposte subito dopo in un confronto serrato con quelle del
Maestro di Hartford utile a ribadire ancora una volta le consonanze, ma anche le differenze tra i due pittori. Un posto d’onore, non potrebbe essere altrimenti, è riservato alla
Fiscella, in cui
Caravaggio, negli anni del
cardinal Del Monte, pur richiamandosi alla classicità della pittura mimetica antica, non interessato alla verità ottica e lenticolare dei fiamminghi, dà vita e un ruolo da protagonista alla natura che, come nella realtà, non è mondata da imperfezioni. Non sorprende che il dipinto abbia trovato spazio nella collezione di
Federico Borromeo anche se pare che non avesse d’altra parte a cuore il genio di
Caravaggio. Si segnala poi il dipinto del
Maestro di Hartford cui
Carlo Saraceni fu chiamato, con pentimenti, ad aggiungere due figure allegoriche e la
Frutta su tovaglia emozionante - se non pensate che della frutta possa esserlo vi ricrederete dopo aver visto questo dipinto - ora assegnato al gruppo del
Pensionante del Saraceni, nome coniato da
Roberto Longhi senza pensare a questo quadro da lui sempre considerato di
Caravaggio, ma non lo è, e in anticipo di secoli per modernità, come in effetti è. Fanno da corollario altri bei dipinti caravaggeschi, accostati per identità di mano in gruppi caratterizzati dalla presenza di vasetti gli uni e di mele rosa gli altri.
Si può così salire alla
Sala del Lanfranco dove ci accoglie il bel dipinto estense attribuito a
Giovanni Battista Crescenzi, seguito dai quadri della sua
‘Accademia’ ove spicca il
Maestro della natura morta Acquavella, che si è preferito lasciare anonimo sospendendo il giudizio in una troppo

prudente
epoché rispetto a chi vorrebbe riconoscervi, come credo, i modi di
Bartolomeo Cavarozzi. I
Verrocchi si sono guadagnati il loro posto tra i più precoci specialisti nella natura morta e quindi si giustifica la loro significativa presenza nella mostra che si accende subito dopo per l’apparizione dell’enigmatica
Fiasca fiorita di Forlì, tavola attribuita da
Francesco Arcangeli, col renderla nota, a
Guido Cagnacci, ma destinata a rimanere il
name-piece di un gruppo formato al momento da quest’unica opera magistrale cui si è tentati di aggiungere, al seguito di un parere di
Zeri, una versione su tela in cui perlomeno la parte floreale lascia un po’ interdetti. Elementi italiani si intrecciano con tratti stilistici d’oltralpe - francesi? fiamminghi? - rendendo il rebus ancora più difficile e accattivante.
Rimane la sezione pleonastica del “genio degli anonimi” - non ne abbiamo già visti abbastanza di anonimi e quelli sì di genio? - dove potreste sbizzarrirvi a cercare il talento - belle le zucche, devo ammetterlo - ma non so se vorrete farlo con due ore a diposizione e, tanto per dire,
Raffaello, Tiziano, Correggio, Barocci, Bernini e
Canova ad attendervi nelle altre sale.
La mostra, didascalica e da manuale, in qualche punto manualistica, è indubbiamente bella grazie al prestito di tutte le opere principali da affiancare a quelle presenti nella collezione, ma pecca nel finale in calando, non porta novità critiche eclatanti e, riproponendo una situazione quasi cristallizzata negli ultimi lustri, dà l’idea che ci sia ancora molto da fare in questo campo: auspichiamo in ogni caso che questa esposizione possa dare nuovo impulso alla ricerca.
di
Massimo FRANCUCCI
Caravaggio e il Maestro di Hartford
di
Mario URSINO
Sarebbe forse bastato solo il gruppo di opere esposte al piano terreno della
Galleria Borghese per presentare l’interessante confronto tra il primo
Caravaggio e il “misterioso” (ancora oggi)
Maestro di Hartford. L’identità di quest’ultimo, esaminata con particolare acribia da
Federico Zeri nel suo studio del 1976
Sull’esecuzione di “nature morte” nella bottega del Cavalier d’Arpino e sulla presenza ivi del giovane Caravaggio, è da ascrivere, secondo lo studioso, al giovane
Merisi, che a quel tempo si trovava appunto nella bottega dell'
Arpino ed era ancora ignoto a Roma.
Zeri, passando in rassegna le varie precedAtheneum Museum of Artenti attribuzioni, da
Adolfo Venturi a
Paola della Pergola, aveva individuato la mano del Caravaggio nelle due tele,
Vaso di fiori, frutta e ortaggi, e
Cacciagione di piuma e civetta, tra quelle sequestrate al
Cavalier d’Arpino da
Papa Borghese, Paolo V, poi donate all’avido e spregiudicato nipote
Scipione Borghese, come risulta dai documenti relativi al sequestro fiscale che - scrive Zeri - “parlano del resto, assai chiaro”:
38.
Un quadro con diversi uccellami morti senza cornici.
39.
Un altro quadro con diversi frutti et fiori senza cornici.
Questi due dipinti oggi, grazie alla mostra a cura di
Anna Coliva e
Davide Dotti, sono riuniti insieme ad altri cinque opere del Maestro di Hartford, quali il
Vasi di fiori e frutta sul tavolo, ;
Alzatina con fichi pesche e uva, vaso di fiori e frutta;
Alzatina con uva e pesche, vaso di fiori, frutta e farfalla, entrambe delle
Gallerie Estensi;
Vaso di fiori, alzatina con fichi, cesta con uva e frutta su tavolo, coll. priv.;
Allegoria della Primavera (in parte del
Maestro di Hartford e in parte di
Carlo Saraceni), coll.
Francesco Micheli. Intorno a questi figurano confronti fra la celebre
Canestra di frutta, dell’
Ambrosiana, Il ragazzo con canestra di frutta e il
Bacchino malato, del
Caravaggio della stessa
Galleria Borghese, ovvero i capolavori sicuri del giovane
Merisi, dipinti tra 1593 e il '94. Confronti che, anche senza aver ancora preso visione dei testi degli studiosi nel catalogo della mostra e delle relative schede di approfondimento, fanno escludere l’ipotesi di
Zeri di attribuire le due opere
Hartford della
Borghese al pittore bergamasco che aveva a quel tempo frequentato per alcuni mesi la bottega del
Cavalier d’Arpino.
Federico Zeri insiste in questa sua ipotesi caravaggesca nella conclusione del suo saggio sopra indicato, citando anche il
Bellori, laddove il biografo

afferma: “Dipinse una caraffa di fiori con la trasparenza dell’acqua,…”, il che potrebbe riferirsi, secondo
Zeri, “a qualcosa non dissimile dalla tela poi ultimata dal Saraceni” (v.
Allegoria della Primavera, sopra citata e in mostra). Inoltre lo studioso richiama la tela
Fiori e Frutta della
Galleria Borghese, e le due tele di
Hartford, in particolare quella dell
’Atheneum Museum of Art, per l’esecuzione della canestra di vimini “talmente simile a quanto si legge nel
Ragazzo della
Galleria Borghese da rasentare il sovrapponibile” (in Zeri,
Diari di lavoro 2, 1976, p. 101). Non so se oggi l’insigne studioso, quale è stato
Federico Zeri, vedendo riunite ed esposte insieme queste opere del giovane
Caravaggio e quelle dell’ignoto Maestro di Hartford, potrebbe ancora sostenere questa ipotesi; la “canestra ambrosiana” ha un’evidenza di verità tale da escludere la sovrapposizione nella molteplicità delle nature morte Hartford; e la visita alla mostra ci assicura questo convincimento.
Interessante inoltre è la selezione dei comprimari anonimi e non, come il Maestro del Vasetto, il Maestro delle mele rosa, appartenenti alla raffinata
collezione Molinari Pratelli; e poi
Agostino Verrocchi, Giovanni Antonio Figino, Pietro Paolo Bonzi e l’originalissimo
Maestro della fiasca di Forlì, che da solo vale la visita alla secondaria rassegna di nature morte esposte al secondo piano della prestigiosa
Galleria Borghese.
di
Mario URSINO