È in mostra a Brera fino al 5 febbraio 2017 il Caravaggio della discordia, così come è stata ribattezzata la
Giuditta attribuitagli
rinvenuta a Tolosa, nientemeno che in un controsoffitto – un ambiente che curiosamente torna nella vicenda del pittore (fu probabilmente per lavorare su tele di grande formato, che smontò in parte quello di una casa presa in affitto). Il motivo di tanto clamore? L’opera viene
esposta in una prestigiosa istituzione museale pubblica quando ancora sotto osservazione per accertarne l’autografia e, soprattutto, in vendita sul mercato.
Eppure non sarebbe proprio così, secondo quanto afferma il curatore
Nicola Spinosa: il quadro non sarebbe in commercio, vincolato com’è per trenta mesi dallo
Stato francese, suo unico possibile acquirente per un
valore stimato in 120 milioni di euro. E se la
‘patente’ braidense che la discussa tela si è conquistata – ma
senza prese di posizione ufficiali da parte del museo in merito all’autografia – favorisce a detta di molti tale operazione, vanno in un senso opposto e possono rivelarsi
un boomerang per i proprietari il fatto stesso di esporre in contesto così ostile e le tante voci che, scatenatesi di riflesso, rigettano l’ipotesi di attribuzione a Caravaggio – potrebbe rivelarsi illuminante a questo punto la
prevista giornata di studi a porte chiuse di gennaio; per ora la proposta attributiva, partita da Spinosa, è stata accolta piuttosto tiepidamente: sin dal suo ‘lancio’ di aprile scorso vi hanno aderito più o meno convintamente
Keith Christiansen,
Antonio Pinelli e
Bruno Arciprete; quanto meno possibilisti
Sergio Benedetti,
Vittorio Sgarbi,
John Gash e, se bisogna dare credito a dichiarazioni indirette,
Jean-Pierre Cuzin; giudizio sospeso per
Claudio Strinati; sostanzialmente scettici
Francesca Cappelletti e in tempi non sospetti
Philippe Daverio, ora tra i promotori dell’esposizione; nettamente contrari
Mina Gregori,
Richard Spear,
Alessandro Zuccari,
Tomaso Montanari,
Gianni Papi, che attribuisce il quadro a
Louis Finson, e
Giovanna Sapori, che in alternativa giunge a suggerire il nome di
Giovanni Francesco Guerrieri; comunque perplessi sulle circostanze del ritrovamento gli stessi Sgarbi e Daverio nelle sue prime dichiarazioni, e sull’operazione della rassegna
Giovanni Agosti, dimessosi per questo dal comitato scientifico di Brera.
Più che di mostra, concetto che nel senso tradizionale del termine risulta un po’ stretto al nuovo direttore del museo, l’eclettico e innovativo
James Bradburne, si deve parlare per l’evento milanese di un più minimalista “
dialogo”.
Attorno a Caravaggio, questo il titolo dell’appuntamento, è il terzo del genere ospitato a Brera, il cui intento è sempre quello di valorizzare opere della collezione permanente attraverso confronti mirati e ricorrendo il meno possibile a prestiti dall’esterno. Nel caso specifico intorno alla sobria
Cena in Emmaus, valorizzata dal riuscito riallestimento che progressivamente interesserà tutte le sale della Pinacoteca, ma che paradossalmente viene
temporaneamente messa in ombra dalla chiacchierata Giuditta e dalle altre non meno interessanti opere dialoganti, sono state disposte appunto: una
copia napoletana di quest’ultima dalla collezione Intesa Sanpaolo, finora (e non certo da Spinosa) attribuita al pittore noto come amico, collezionista e copista di Merisi
Louis Finson; la
Maddalena in estasi firmata e datata dallo stesso, dal Musée des Beaux-Arts di Marsiglia, ancora una volta copiata da un Caravaggio probabilmente da rintracciare nonostante le tante copie in circolazione e qualche tentativo di identificare fra di esse il prototipo (fra queste, una recentemente riconosciuta da Mina Gregori e contestata in tale sede da Spinosa);
una nuova copia dello stesso soggetto, dalla collezione Paolo Volponi, che pertanto si aggiunge al novero di quelle già note e che è interessante per il formato orizzontale e per l’assenza di alcuni particolari
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ricorrenti (il teschio come di ottone lucido e l’esile croce in particolare, chissà se mai concepiti da Merisi e, piuttosto, aggiunti da un anonimo in una copia divenuta poi essa stessa modello iconografico più volte replicato); un altro e sicuro Finson, il bel
Sansone e Dalila sempre da Marsiglia, perché in ottica didattica – ed è questo il senso più manifesto del dialogo – il pubblico possa conoscere meglio e familiarizzare con la pittura di tale artista.
La selezione delle opere appare riuscita e Nicola Spinosa le lega armonicamente tutte nel suo saggio-racconto che, dell’irrinunciabile
catalogo edito da Skira (112 pp., € 17), costituisce la parte più sostanziosa (vedi l’
estratto in cartella stampa sul sito di Brera). Selezione riuscita, appunto, nel creare un valido contesto per la lettura di ciascuno dei sei pezzi esposti. Risulta così meno scontato che il quadro di Tolosa,
di indubbia qualità al di là di tutto e specie nel confronto diretto finalmente possibile con la redazione partenopea, possa essere
attribuito a Finson in quanto copista di Caravaggio e – lo dicono i documenti – possessore di un analogo soggetto eseguito da Merisi, qualora si scartasse l’ipotesi che il fiammingo possa aver dipinto la più modesta copia napoletana. Naturalmente questo non sarà sufficiente per assegnare al genio milanese la redazione francese, a detta di molti
debole e poco convincente in più punti, la figura di Oloferne su tutto – ne sottolinea comunque l’“altissima trattazione” Spinosa, che sviluppa diverse altre considerazioni in sostegno della paternità merisiana.
Non sono peraltro del tutto illegittimi i
dubbi che il prototipo, sia esso stesso ancora da recuperare, non rispecchi un’invenzione caravaggesca, per quanto simile all’identico e più celebre soggetto merisiano di Palazzo Barberini: Montanari per primo ha fatto notare a tal proposito l’insolito, per Caravaggio, gioco di sguardi tra i personaggi (tanto più perché rivolto verso l’esterno quello di Giuditta), cui si può aggiungere il gozzo della vecchia caricato nella sua deformità così come le rughe altrettanto curiosamente concentriche (!) e analiticamente descritte, e diremmo anche il seno florido dell’eroina biblica. Inoltre
occorre interrogarsi, anche avanzando semplici ipotesi, sul fatto che il quadro sia stato trovato in Francia, tenuto conto che: Caravaggio dipinge la sua seconda
Giuditta a Napoli; qui viene acquisita da Finson, il quale nel rientrare nei Paesi Bassi si fermerà e opererà nel
Midi francese; l’originale di Merisi è attestato più tardi ad Amsterdam presso Finson – dunque ciò che vediamo a Brera può anche essere una qualche traccia del suo soggiorno oltralpe? Insomma i quesiti sono tanti e lo stesso Spinosa in chiusura parla quasi provocatoriamente di un
“giallo” poliziesco di difficile soluzione.
Il suo saggio è peraltro interessante nel
rivedere alcune tradizionali cronologie caravaggesche – accogliendo recenti acquisizioni di
Michele Cuppone,
Gianni Papi e
Wolfgang Prohaska con altri – per cui lo studioso reputa del 1602 (e non del 1599) la
Giuditta di Palazzo Barberini, della fine del periodo romano (piuttosto che del primo napoletano) la
Madonna del Rosario, e del secondo soggiorno napoletano (anziché di quello presso Paliano) la
Maddalena in estasi.
Per concludere sul dialogo in
sala XXVIII,
si apprezza sia la possibilità offerta di valutare e discutere più concretamente attorno al nuovo dipinto, che il contenuto informativo della stessa etichetta al centro di polemiche, che rimanda con asterisco – e, non sembri il termine improprio, anche con una certa onestà – all’attribuzione a Caravaggio come condizione del prestito da parte dei proprietari. Chissà in quante
altre occasioni passate non è stato fatto altrettanto, e al pubblico ignaro si è fatto passare
tout court per l’opera di un grande maestro qualcosa che non lo era nemmeno lontanamente.
29/11/2016