§ 1. Due brevi commenti sulla pagina Facebook di News-art hanno avanzato qualche dubbio rigurado all'ipotesi da me proposta (vedi https://news-art.it/news/ma-caravaggio-sapeva-usare-l-arco-.htm, ripresa in Caravaggio400 del 9 gennaio 2015) secondo la quale Michelangelo Merisi da Caravaggio non doveva avere buona dimestichezza con archi, frecce e faretre. L’estensore delle note (Sandro Cesaro, cultore del tiro con l’arco) essenzialmente ha voluto sostenere che le frecce che fuoriescono dalla faretra per le punte nei dipinti da me segnalati di Caravaggio siano in posizione corretta per l’epoca e che, quindi, Caravaggio da buon osservatore qual era, abbia rappresentato esattamente ciò che avrebbe potuto vedere ai suoi tempi, e contemporaneamente abbia potuto possedere buone nozioni circa il tiro con l’arco. Non varrebbe la pena, solo per questo, di ritornare sull’argomento; ma resta forse opportuno profittare dell’occasione per ricavare qualche ulteriore riflessione sull’arte del Caravaggio e sui dettaglî precedentemente segnalati.

§ 2. Ciò premesso, entriamo nel merito delle obiezioni avanzate che sono sostanzialmente tre.
1) La prima è che (cito) «le punte verso l’alto sono usanza militare [che] consente di trovare in fretta il tipo di punta adatto a quello che ti viene incontro (…), anche in caccia (…)».
Sebbene, in generale, le faretre con le frecce da usare in guerra in età medioevale e moderna fossero cosa diversa da un sacco con le mazze da golf – specie per gli attimi preziosi che si perderebbero per innestare sulla corda una freccia presa per la punta e non per la cocca - può ben essere che qualche miniatura medioevale abbia rappresentato (peraltro, non si capisce bene se per scene di guerra o scene di caccia) faretre con le frecce che fuoriuscivano per le punte diverse tra loro quando – appunto – si trattava di colpire bersagli diversi (una corazza, o un fante, o un cavallo, o i vari animali selvatici, o altro): ma è evidente come questa debba essere considerata più l’eccezione che la regola, dato che l’iconografia prevalente – ancorché non senza eccezioni, come preciserò infra - registra le frecce che fuoriescono dalla faretra per l’impennaggio e non già per le punte.

Si impongono infatti al proposito almeno due annotazioni, una generale e l’altra specifica:
a) quella generale è che, se richiamiamo, pur senza alcuna indagine sistematica, alcune opere d’arte famose, dall’antichità classica al XVII secolo, vedremo che l’uso di gran lunga più costante nelle opere d’arte è stato quello di rappresentare le frecce riposte nella faretra per la punta, e fuoriuscenti dunque per l’impennaggio: basti guardare, per qualche esempio notissimo a tutti, già un bassorilievo assiro del VII sec. a.C. proveniente da Ninive, Assurbanipal a caccia di leoni (Londra, British Museum, Fig. n. 1), oppure l’Apollo del Belvedere (copia da originale del IV sec. a.C., Città del Vaticano, Musei Vaticani, Fig. n. 2) e la Diana cacciatrice detta di Versailles (copia da originale del IV sec. a.C., Parigi, Louvre, Fig. n. 3) per l’età antica; così come una miniatura dalle Chroniques di Jean Frossart (1337-1405) presenti nella Bibliothèque
Nationale de Paris (Fig. n. 4) o un dipinto di arciere mongolo dell’inizio del XV secolo (pubblicato in Wikipedia senza indicazione dell’ubicazione, Fig. n. 5) per l’età medioevale e tardo-medioevale; così come ancora, per l’età tra XV e XVII secolo, i due arcieri del Martirio di San Sebastiano di Vincenzo Foppa (1427c.-1515c.) del 1489 (Milano, Pinacoteca di Brera, Fig. n. 6), o due opere di Albrecht Dürer (1471-1528), e cioè il dipinto di Ercole che uccide gli uccelli di Stinfalo (Norimberga,
Germanisches Nationalmuseum, Fig. n. 7) nonché l’incisione di Apollo e Diana del 1502 (esemplare a New York, Metropolitan Museum, Fig. n. 8). O ancora, nel Martirio e funerale di Sant’Orsola del Carpaccio (1460c.-1526), il particolare dell’arciere che uccide la principessa brettone (Venezia, Gallerie dell’Accademia, Fig. n. 9), oppure una delle sette versioni note redatte da Lucas Cranach (1472-1553) della Ninfa alla fonte, chiamata anche la Diana dormiente (Besançon, Musée des Beaux-Arts, Fig. n. 10), ovvero, di Tiziano (1490c.-1576), la Venere e Adone (Madrid, Museo del Prado Fig. n. 11), o infine la Venere e Marte del Guercino (1591-1666) del 1633c. (Modena, Galleria Estense, Fig. n. 12), attualmente (gennaio 2015) in mostra a palazzo Barberini in Roma.
Orbene,
come si potrà notare in tutte codeste opere, l’una più famosa dell’altra, le frecce escono dalla faretra costantemente per l’impennaggio e non già per le punte, quand’anche la faretra sia slargata verso il fondo (come appare nella Ninfa o Diana del Cranach);
b) in più, l’annotazione specifica è che anche in un dipinto celeberrimo quale la Primavera di Sandro B
otticelli del 1478 circa (Firenze, Galleria degli Uffizi), e precisamente nella rappresentazione specifica di un Cupido che, bendato, lancia una freccia verso il gruppo delle Grazie e di Mercurio (al quale Botticelli attribuì le fattezze di Giuliano de’ Medici, che si vantava di non essere stato mai colpito dai dardi di Eros), il Cupido (Fig. n. 13) regge alle sue spalle la faretra piena di dardi i quali fuoriescono, anche qui, tutti dalla parte dell’impennaggio e non già delle punte.
Quest
a seconda annotazione assume tutta la sua importanza per il fatto che nel dipinto del Botticelli si tratta precisamente di un Cupido (come nella Musica e nell’Amore dormiente del nostro Caravaggio): il che non può far altro se non mettere ancor più in evidenza la differenza che corre tra le rappresentazioni realizzate dai due maestri, ancorché entrambe riferite allo stesso soggetto, e cioè ad un Cupido.
Del resto, Eros in generale non va alla guerra o a battute di caccia, e non lancia frecce di diversa fattura per colpire di volta in volta corazze o cavalli o bufali, ma lancia frecce esclusivamente per colpire il cuore umano, e pertanto non resterebbe motivata la necessità di (cito) «vedere o toccare la punta che si cerca» per selezionare la freccia con la punta più adatta a colpire una corazza o un cavallo, o altro che si voglia: le frecce di Eros sono tutte uguali perché colpiscono infallibilmente il cuore dell’essere umano, e quindi non avrebbero bisogno di essere riposte nella faretra per l’impennaggio invece che per le punte (come invece troviamo in Caravaggio) al fine di poter essere distinte
tra loro.
Oltretutto, esiste un'elementare considerazione – che può fare qualunque persona, anche non esperta del tiro con l’arco – per la quale in generale la collocazione delle frecce nel fondo della faretra dalla parte dell’impennaggio può risultare non solo irragionevole, ma anche controproducente: e la considerazione è che l’impennaggio è un elemento delicato, fatto per mantenere stabile e precisa il più possibile la direzione (o la rotta) della freccia verso il bersaglio scelto; ed è del tutto evidente come una costrizione degli impennaggi nel fondo della faretra non può non comprimere le (di solito tre) alette e quindi rischiare di menomare o alterare la funzionalità dell’impennaggio, e conseguentemente rendere impreciso il tiro.
Oc
corre in verità dire anche – per irrobustire ultra petita l’argomentazione delle due note citate - come non per questo si possa escludere che in qualche altra rappresentazione artistica una faretra mostri le frecce che fuoriescono per la punta e non per l’impennaggio, e ciò non resta certamente circoscritto alle sole miniature medioevali. Ad esempio, nella tela di Venere, un satiro e Cupido (Fig. n. 14), dipinta verso il 1525 dal Correggio (1489-1534) - rimasta per il XVI secolo a Mantova, di proprietà del conte Nicola Maffei, passata poi verso il primo XVII secolo nelle collezioni dei Gonzaga, ed ora a Parigi, Museo del Louvre - appare chiaramente accanto a Venere una faretra (ancorché, come pare, non slargata verso il fondo) dalla quale fuoriescono diverse punte di frecce ben in vista (ma, anche qui tutte uguali, e non già diverse tra loro).
Peraltro, se si osserva bene il particolare del dipinto, si potrà notare come codesta faretra (fatta di pelliccia di animale maculato e non privata del mantello) sia stretta in basso dalla cinghia di cuoio (che regge, evidentemente, la tracolla) in modo tale che risulterebbe difficile immaginare le sei o sette frecce fornite degli impennaggî, i quali resterebbero infatti alterati se infilati nel lume della faretra ristretto dalla cinghia. Ma questo problema riguarda il Correggio e non il nostro Caravaggio.
Questo precedente, però, da una parte non dimostra – come qualcuno tenterà sicuramente di sostenere – che Caravaggio abbia visto quel dipinto del Correggio in casa Maffei in quel di Mantova ed abbia poi tenuto presente quel particolare nei suoi dipinti; così come, dall’altra parte, non dimostra che la scelta di riporre le frecce con l’impennaggio sul fondo della faretra fosse di uso comune o diffuso: si tratta, com'è probabile, di soluzioni sostanzialmente minoritarie e derivanti dall’estro dell’artista, per cui non è possibile spiegare la particolarità dei due dipinti di Caravaggio ricorrendo al precedente del Correggio, ché anzi si tratta piuttosto di segnalare come l’interrogativo da me posto non riguardi solo i dipinti del Caravaggio, bensì anche quelli di qualche altro artista (come, per l’esempio citato, appunto il Correggio).
2) La seconda obiezione dell’estensore delle due note riguarda - a proposito del Martirio di Sant’Orsola del Merisi, ora a Napoli - (cito) «la posizione della mano» destra del re unno che ha appena lanciato la freccia, per la quale nel tiro a distanza ravvicinata «al momento del rilascio il pollice si estende e le altre quattro dita stanno unite»: obiezione scritta come se io avessi argomentato con una lettura diversa.
Ed invece qui non deve essere stato letto per nulla bene ciò che avevo scritto a tal specifico proposito quando avevo affermato che «le dita della mano destra che ha già scoccato il dardo – e che dunque non regge più (come è stato scritto erroneamente di recente) la corda dell’arco che infatti non è più in tensione - risultano in Caravaggio, più correttamente, unite e compatte l’una con l’altra» (rimando per questo il lettore all’immagine n. 5 del precedente contributo): pertanto era stato scritto chiaramente – mi pare – che la posizione delle dita della mano destra del re unno in quel dipinto risulta di per sé corretta, appunto per le quattro dita che nel dipinto si vedono unite.
M
i pare che su questo punto non vi sia bisogno di aggiungere altro, se non per ribadire che in quel dipinto la posizione dell’arco nelle mani del re unno dopo lo scocco della freccia non sembra corretta, in quanto l’arco sarebbe dovuto essere in posizione verticale (e non orizzontale o leggermente obliqua) e con il flettente superiore proteso verso la martire, e non verso il petto di chi ha scoccato la freccia mortale.
3) La terza obiezione dell’estensore delle due note, infine, riguarda ancora il Martirio di Sant’Orsola, ed è che «la parte corta di freccia sporgente dal corpo della santa [Orsola] è compatibile con una penetrazione molto profonda (…)». Qui ci deve essere stato da parte del lettore un fraintendimento così totale da far sospettare che si voglia obiettare a tutti i costi qualcosa purchessia. La mia argomentazione partiva infatti dalla constatazione di due particolari e dalla segnalazione di una contraddizione.
Quanto ai due particolari, constatabili da tutti, si deve infatti rilevare:
a) che la parte sporgente della freccia conficcata nel petto della santa era (come è) troppo corta, quand’anche si dovesse ipotizzare una penetrazione profonda della punta nel petto della martire;
b) che tale parte sporgente manca dell’impennaggio (rimando anche per questo il lettore alla immagine n. 11 del contributo precedente).
E questi sono i due particolari che non possono essere contestati, dato che il dipinto così è stato realizzato, e così resta visibile.
La contraddizione da me segnalata riguardava invece un'affermazione - di altri - secondo la quale la parte visibile della freccia conficcata nel petto dalla martire «non manca della parte finale, ma è corta perché di balestra» (cfr. L’ultimo Caravaggio. Il martirio di Sant’Orsola restaurato, Milano 2004, p. 102).
Al proposito era a
nzitutto necessario rilevare che una freccia (corta) di balestra non potrebbe essere lanciata da un arco (che è quello che il re unno regge con la mano sinistra). Ma, come che sia, il fatto che la freccia sia penetrata più o meno in profondità nel petto della santa non protetto da una corazza, non ha niente a che vedere con il fatto che essa freccia manca dell’impennaggio (necessariamente ipotizzabile, se la freccia è una freccia per arco): la contraddizione altrui, che sembrava opportuno evidenziare, risiedeva dunque nell'impossibilità di conciliare una freccia di balestra (più o meno corta) con l’arma usata per lanciarla (che, nel dipinto, è indubbiamente un arco). E spero che così il concetto sia più chiaro.
Il particolare non resta per nulla irrilevante nello studio di quel dipinto del Caravaggio, giacché l’ipotesi secondo cui la coda della freccia (con relativo impennaggio) sia stata spezzata comporta evidentemente che qualcuno l’avrebbe spezzata nel tentativo di strappare il dardo letale dal seno della martire: potrebbe essere questo a giustificare la presenza della misteriosa mano che compare in basso, in un gesto spasmodico ed estremo? In tal caso, sarebbe evidente come quella famosa mano dovrebbe aver spezzato la coda della freccia, per cui il relativo impennaggio non risulta rappresentato nel dipinto e la freccia sarebbe dunque una normale freccia per arco.
Viceversa, se quella freccia fosse una freccia di balestra (e cioè priva ab origine di un vistoso impennaggio, come sostenuto nel testo or ora precisamente richiamato) non solo resterebbe la contraddizione tra arco da una parte e freccia di balestra dall’altra, ma soprattutto resterebbe da spiegare il senso preciso della presenza della misteriosa mano, ed insieme il significato complessivo del gesto.
§ 3. In conclusione, mi pare che le obiezioni sollevate a proposito del mio contributo sul tema degli archi e delle frecce nella pittura del Caravaggio restino nella sostanza inconsistenti, ancorché esse abbiano potuto stimolare qualche ulteriore riflessione sui dipinti esaminati. E dunque, al di là dei tentativi di avanzare discorsi un po’ di complemento, resta il fatto che Caravaggio – che sicuramente era un osservatore attentissimo della realtà che lo circondava – lungi dal tener presenti (per quanto noi oggi ne sappiamo) più o meno improbabili miniature medioevali, o altre ma non numerose opere d’arte, ovvero l’uso proprio dell’arco e delle frecce come armi da guerra o armi da parata o altro, abbia rappresentato in modo inusuale, e per ben due volte, la faretra del Cupido con le frecce sporgenti per la punta (o blunt che sia) invece che per l’impennaggio. Questo è il dato reale: e questo è nel contempo l’interrogativo ultimo, che resta per ora senza una risposta esauriente, specie alla luce del confronto con l’uso prevalente in altre opere d’arte, per di più di epoche e contesti culturali diversi.
Come è noto, Eros ero il dio più temuto nell’antichità non solo dagli uomini, ma addirittura, nelle narrazioni mitologiche, dagli stessi dèi, che paventavano i suoi dardi sopra ogni cosa. La lettura, dunque, delle due immagini del Cupido di Caravaggio (nella Musica o Concerto, come nell’Amore dormiente) va, da una parte, circoscritta entro questo ben chiaro ed evidente perimetro – e cioè: che Eros era il dio dell’amore, e la sua temuta potenza non risultava dunque affatto riconducibile nelle realizzazioni artistiche ad un contesto bellico o venatorio quale che fosse in senso proprio, le cui “competenze” erano di Marte o di Diana o di altri dèi – mentre, dall’altra parte, resta per ora (mi pare) sostanzialmente aperto per la ricerca scientifica e per le relative discussioni l’interrogativo reale riguardante i motivi di quella scelta del genio lombardo (come già di un Correggio e probabilmente anche di altri) nella rappresentazione della posizione delle frecce nella faretra, scelta ripetuta distintamente dal Merisi in almeno due dipinti diversi.
Questo è il punto, per lo studioso del Caravaggio. Il resto, come avviene spesso, è fatto di esercizî retorici.
Pietro Caiazza, 30/01/2015