1600-1602: quasi un periodo "di grazia" nella vita tormentata di Caravaggio. Era salito finalmente sul gradino della fama dopo il successo della decorazione della cappella Contarelli, nella chiesa di San Luigi dei Francesi, con i dipinti della Vocazione e del Martirio di San Matteo e, per la pala d'altare centrale, di San Matteo e l'Angelo. Dopo questa prima e importante commissione pubblica, guadagnata con i favori del cardinale Del Monte, gli è assegnato dal tesoriere di papa Clemente VIII, Tiberio Cerasi, l'incarico di dipingere per la sua cappella in Santa Maria del Popolo due tele raffiguranti la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo. E' il settembre del 1600 e l'opera sarà terminata entro l'anno successivo.
Dopo i tanti ritratti di genere, è la volta buona per Caravaggio di mostrare d'esser degno della grandezza in pittura, ancora a intero appannaggio, quest'ultima, di Michelangelo; che - il caso vuole - cinquant'anni prima aveva realizzato la "sua" Crocifissione di San Pietro, campeggiante in trionfo nella cappella Paolina in Vaticano. Il grande artista della Cappella Sistina era scomparso quarantasei anni prima, ma la sua gloria aleggiava spiegatamente ancora sovrana in Roma. L'impresa di Caravaggio si presenta dunque alquanto ardua: misurarsi a distanza sul medesimo soggetto non impegna certo l'esecutore della Pietà, mentre carica di ambizioso ardimento Caravaggio.
Un'occasione da non perdere, pertanto, per uno che, secondo il pittore e biografo, Giovanni Baglione, era «uomo satirico e altiero, che usciva tal'ora a dir male di tutti i pittori passati e presenti per insigni che fussero, poiché a lui pareva d'aver solo con le sue opere avanzati tutti gli altri della sua professione» (Vite de' pittori, scultori e architetti…, 1642). Il Merisi affronta la sfida, come dire? "postuma", da par suo e, a chi volesse avventurarsi nello stabilire la vittoria per l'uno o per l'altro, è il caso, forse, di osservare che non c'è confronto che tenga: come tante altre loro opere, queste due rasentano entrambe il sublime e colmano di gloria l'arte pittorica.
Entrando, dunque, in Santa Maria del Popolo, coll'avvicinarsi alla cappella Cerasi le opere dei due apostoli appaiono in scorcio, divise nel mezzo dall'Assunta di Annibale Carracci, e la Crocifissione prevale nella vista sull'altra per la drammaticità della scena in sé: Pietro appare già inchiodato sulla croce e si attende solo che i serventi compiano la loro opera coll'issare in verticale lo strumento del martirio. La scena d'"azione" è quanto mai ardita: ristretta in così angusto spazio essa "deborda" dal quadro, tant'è che non tutta la croce vi è compresa e, mancandogli una parte del piede sinistro, non vi appare neppure interamente figurato il carnefice inarcato sotto il peso del legno.
Tutto lo spazio del dipinto, manchevole come mai si era visto di piani prospettici e di figurazioni paesaggistiche, è occupato magistralmente dai quattro personaggi collocati con geniale sapienza su due linee di forza: il risultato è una "x" perfettamente bilanciata, intesa a creare il necessario equilibrio armonico nella composizione. L'impressione di "incantamento" che l'osservatore subisce è data appunto dal gioco vicendevole della sottile relazione che si stabilisce sotto traccia tra composizione, appunto, e luce. Rapporto che non sarebbe, d'altra parte, possibile senza il concorso decisivo del buio, l'"alleato segreto" dell'arte caravaggesca: il buio, che sussurra nell'oscurità e accende la luce, è fondale dal quale emergono le figure dinamicamente in forte contrasto materico e volumetrico.
Pietro resta, ovviamente, il "focus" significante dell'opera, la figura d'un vecchio — a suo tempo pressoché coetaneo del Maestro — che, da quel giorno a Betania, al di là del fiume Giordano, ne incrocia lo sguardo e da Simone gli cambia il nome in Cefa. È solo il preludio di una missione lunga e straordinaria. Questa si snoderà attraverso una serie di episodi che denunceranno la natura dell'uomo destinato a fondare la chiesa di Cristo: uomo generoso sì ma anche capace di rinnegare tre volte il Maestro nella notte del Sinedrio. La sua "umanità", sintesi di debolezza e fragilità, stride di fronte alla "sacralità" misericordiosa del Maestro, fino all'apparizione del Risorto sulla riva del lago di Tiberiade. Qui, Pietro riconosce Gesù e riscatta con una triplice confessione di fede e amore per il Redento il suo triplice rinnegamento. In seguito, predestinato custode del Regno dei cieli, il capo degli apostoli viaggia per diffondere il Vangelo, dalla Giudea alla Samaria, a Gerusalemme, Lidda, Joppe, Cesarea, nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, in Asia e nella Bitinia. Una prima testimonianza della missione e del martirio di Pietro e Paolo a Roma è data da Clemente Romano nella lettera ai Corinzi nell'anno 96. Un secondo atttestato lo si rintraccia in Eusebio da Cesarea, tra il 199 e il 217. Il martirio dell'apostolo è altresì attestato da Tertulliano, il quale scrive già della preminenza di Roma per via del fatto che tre apostoli, Pietro, Paolo e Giovanni vi hanno insegnato e i primi due vi sono stati martirizzati.
Questi è dunque Pietro, che a Roma nonostante tutto e secondo la leggenda, non si perita di fare una seconda "retromarcia" venendo via dalla città a causa della persecuzione dei cristiani. Sull'Appia è però bloccato dall'apparizione di Gesù al quale - com'è universalmente noto - l'apostolo rivolge la fatidica domanda: «Domine, quo vadis?». La risposta di Gesù alquanto drammaticamente ironica non si fa attendere: «Eo Romam iterum crucifigi». Pietro intende l'antifona e rivolge indietro i suoi passi, verso la città dove accetta il martirio della croce, ma, per non ritenersi degno della medesima pena inflitta a Gesù, chiede di essere crocifisso a testa in giù.
E' questa in estrema sintesi la storia di Pietro e questo è il momento colto da Caravaggio nella rappresentazione del sacrificio nel suo dipinto. D'ora innanzi, come osserva Matteo Marangoni (Saper vedere, 1979), non ci si poteva non stupire della magica fantasia dell'artista nel trasfigurare ogni cosa nella più alta visione di luce sino allora mai veduta. E a proposito di "luce", che in Caravaggio gioca magistralmente come un primo personaggio nel suo teatro pittorico, si può pensare a un faro che proietta il suo cono luminoso sulla figura che il pittore pone come "protagonista" del suo racconto per immagini. In questo caso, però, la luce "scolpisce" quattro protagonisti con la medesima intensità, inglobandoli in un'improbabile postuma scena biblica: i tre serventi, giusta l'osservazione di Roberto Longhi, appaiono più da "operai" indaffarati che non da carnefici. In altre parole, il male non vi è visto contrapposto al bene. L'impressione che ne viene è quella di una dolente, rassegnata figurazione di un evento già scritto, ove le nefandezze degli uomini sono in qualche modo scritte e emendate nel gran libro della misericordia divina.
Non manca tuttavia l'"insolente" gesto di Caravaggio che già in altre circostanze gli sono costati pungenti e stizziti rifiuti della curia romana. Così come nella Morte della Vergine e in San Matteo e l'Angelo, anche in quest'opera v'ha qualcosa che non quadra con i dettami della Controriforma in materia di rappresentazioni sacre. In primo piano il rotondo e grosso "di dietro" del servente accovacciato e il suo piede sinistro quanto mai sporco non sarebbero consoni a una raffigurazione sacra di tal fatta e di tale altezza. Ma Caravaggio resta quello che è: un indomabile artista, ardimentoso nella sua arte come nella sua vita, insofferente di regole e piaggerie, provvisto di smisurata capacità visionaria e quanto mai pronto all'ira e all'azione violenta. Queste ultime "qualità" lo costringeranno, con una condanna a morte sul capo, ad andare ramingo per l'Italia e non solo, nella spasmodica e mai soddisfatta ricerca di un provvedimento di grazia. Morirà incelebrato e sconosciuto, lontano da Roma che lo aveva visto e fatto "grande".
Luigi Musacchio