Ancora sulla Giuditta con la testa di Oloferne della collezione Lemme

 di
Anna COLIVA

Sono totalmente d’accordo con Clovis Whitfield, sottoscrivo in pieno il suo intervento su News-Art (https://news-art.it/news/ottavio-leoni-e-la-ritrattistica-del-caravaggismo--nuove-id.htm) perché i suoi argomenti sono, del tutto indipendentemente, quelli che ho più volte sostenuto nei convivi in casa Lemme, dove i ragionamenti, prima e dopo i pranzi, vertevano sui quadri e si sviluppavano in libere conversazioni in mezzo ai quadri.
Credo anch’io, come Whitfield , ma come concordavano anche altri ospiti dei pranzi “pittorici” Lemme,  che, a derivare in buona parte dal Caravaggio della seconda metà degli anni 90 del ‘500, però una decina d’anni più tardi, sia la sodezza volumetrica delle forme, nella luce piena:  una luminescenza che costituisce volume. Però con un richiamo, nella tenuta sui toni alti e nella loro trasparenza, anche sensibilmente gentileschiani: Gentileschi padre, però, non figlia. A proposito della quale, in quelle circostanze, si argomentava proprio di questi due aspetti: di quanto l’opera di Artemisia conoscesse fasi stilistiche molto diverse e non propriamente evolutive in successione lineare, quanto piuttosto in adeguamento all’ambiente nel quale si trovava a produrre; o alla moda del momento o della città; e forse anche del compagno di quel momento. Proprio in questo ci pareva riconoscere l’incompatibilità con la Giuditta e i Vecchioni di Pommersfelden. E c’era chi riteneva quel quadro impossibile per il pennello della figlia e chi invece – e tra questi mi riconoscevo - lo trovava intenzionalmente adeguato ai modi paterni e alla vicinanza sorvegliante o al controllo di Orazio.  Prossimità, però, non identità, come rivelano certe grevezze e meccanicità, tanto di disegno che di colore, nel realizzare un’idea compositiva forse non del tutto sua (anche per una certa tendenza a distinguere appunto la fase del disegno da quella della coloritura, che non è all’altezza della simultaneità di Orazio). Quanto a una paternità caravaggesca del quadro Lemme, nemmeno si considerava. L’impossibilità è proprio quella che dice Whitfield: una complicazione compositiva che non è compatibile con l’immediatezza del comporre del Caravaggio, anche quando questi si impegna in meccanismi complessi. Ma appunto, complessi, non complicati.
Certo, la produzione pittorica di Leoni è molto diseguale. Ma per superare questo ostacolo credo sia necessario superare la valutazione delle composizioni.  Nelle composizioni infatti Leoni pare rivelare richiami a riferimenti molteplici. Spesso anche a iconografie tradizionali. Per esempio, in alcune delle tele di soggetto sacro e destinazione pubblica, ricorre a tipologie tratte da incisioni tardo cinquecentesche: è il caso della Annunciazione di S. Eustachio. Ma anche nei ritratti a figura intera le fonti sono tradizionali, tardocinquescentesche, dove le convenzioni derivate dai precedenti, incisi o dipinti, esercitano un’autorità che sembra coincidere con la loro ufficialità. E sia nelle pale d’altare che nei ritratti a figura intera, Leoni non sembra preoccuparsi di sembrare originale al punto da annullare la fonte di riferimento. Credo che questo spieghi le incoerenze dei suoi dipinti. Che però sono, appunto, soprattutto incoerenze di composizione. Perché invece nelle esecuzioni, per esempio dei volumi, o nei colori, rivela il suo stile più personale, tale da essere quasi inconfondibile e da esporre, in pittura, esattamente le novità che rendono eccezionali i suoi disegni di ritratto e anche le sue acqueforti.

Ha ragione Whitfield nell’indagare la prassi del ritratto dipinto di Ottavio e rivelare che non tutto è di sua mano, perché non tutto è, in senso “poetico” stilistico, individualmente originale. Lo è l’interpretazione dei volti, l’espressione, insomma, la “poetica” del volto. Non tutto il resto che, nella mezza figura o anche nella figura intera, costituisce il contorno dell’apice di resa dell’individualità che è il volto. E molto originale invece Leoni è nel colore. Sono i due aspetti che, forse impropriamente, chiamavo “esecuzione”, per distinguerli da composizione.
Quello che Whitfield chiama carattere scombinato della rappresentazione, rispetto a Caravaggio,  è proprio una diversità di stile compositivo. La Giuditta Lemme, non ha nulla della composizione di Caravaggio, se mai è affine a certi modernismi di adeguamento al primo caravaggismo che denotano una cultura diversa, persistente di influenze tradizionali, entro un gusto naturalistico che ha ricevuto dalla pittura di Caravaggio un’impronta così forte e generale, da essersi imposta come una moda, apprezzabile più nel peso specifico delle figure, nella loro consistenza immanente, nella loro incombenza in primo piano, tanto più brutale quanto meno posseduta in profondo, tale insomma da impressionare, per la sua “verisimile” presa d’effetto. Però incombenza non è immediatezza, come si potrebbe definire il comporre di Caravaggio, nel senso della lettura che ne dà Bellori: di assenza di mediazione narrativa e perciò eliminazione di ogni enumerazione descrittiva, nello spazio, di argomentazioni circostanti il soggetto rappresentato. Perciò, la composizione del quadro Lemme sembra più impressionata dal comporre di Baglione o, nei migliori effetti, di Gentileschi (ancora memore, quest’ultimo, perfino di un comporre toscano riformato, tale da apparire quasi “neo rinascimentale”, nella sua ritrovata perfezione lineare). Invece è proprio la stesura cromatica della Giuditta Lemme a fare pensare attendibilmente a Ottavio Leoni. I bianchi brillanti esaltati in un’esibizione di panneggio, a me sembrano inconfondibili. L’accecante luminosità della camicia di Giuditta, così diversa dai bianchi degli altri panni necessari alla scena, mi pare proprio tipica. Si ritrova, ad esempio,  nella veste della Susanna di Detroit, per quello stesso modo di ricercare un bianco vaporoso e accecante. D’altra parte, che Leoni avesse una sua poesia dei bianchi si vede anche dalla cura delle sfumature di biacca e di gessetti che rialzano e ravvivano tanti elementi dei suoi disegni (barbe, colletti, lumeggiature, per dare vitalità al volume e al carattere dell’effigiato. Secondo me ci siamo proprio, quel bianco della camicia è così particolare da essere quasi una sua cifra. La si ritrova già nel camice  del S. Nicola di Bari e nella rocchetta del San Carlo Borromeo della pala ora al Conservatorio di Sant’Eufemia, a Roma.  La camicia della Giuditta Lemme,  molto più che da Gentileschi padre, (ma meno che mai da Artemisia, che, anche nel suo periodo di influenza paterna, è una coloritrice sempre soda, se non greve), viene da un desiderio di adeguarsi al Caravaggio della fine degli anni novanta, ma con una sensibilità alla Pulzone, con un gusto da pittura cara al Cardinale Sfondrato (quella preziosità di artificio che dal cavalier d’Arpino arriva fino a Saraceni).
Per questo credo che Leoni pittore vada valutato non tanto dalle composizioni quanto dall’esecuzione. E a questo proposito ci sarebbe da dire altro, sulla sodezza dei volti, che è di un genere molto simile, nel colore, alla plasticità raggiunta dal Leoni incisore e dalla sua costituzione dei volumi facciali per via di segni e punti, fino a raggiungere un’evidenza tanto sintetica quanto sensibile
ma su questo e sulla sua possibile estensione a altri dipinti, tornerò in qualche altra occasione. 
 
Anna Coliva                              Roma 22 / 1 / 2017